Il lampo

E cielo e terra si mostrò qual era:
la terra ansante, livida, in sussulto;
il cielo ingombro, tragico, disfatto:
bianca bianca nel tacito tumulto
una casa apparì sparì d’un tratto;
come un occhio, che, largo, esterrefatto,
s’aprì si chiuse, nella notte nera
.

(Giovanni Pascoli)

Livida, lieve … allo stesso tempo, una dicotomia che contiene in sé una forza germinativa.
Livida, lieve … come la terra e la memoria, la natura, la storia.
Livida, lieve … come un'impressione, come una pelle a contatto con il mondo, una pressione, un incontro - scontro che lascia un segno, di passaggio ma indelebile.

Livida, lieve è l’atmosfera che intercorre tra le opere accolte negli spazi dei Fienili del Campiaro dal 2 aprile al 20 maggio, un’esposizione nata dalla sinergia di tre sensibilità affini, rispettivamente quella di Roberto Dapoto, Monica Camaggi e Oreste Baccolini.

Il percorso espositivo si apre con le opere di Roberto Dapoto, lavori sempre in bilico tra fotografia e pittura, due arti che fin dalla nascita della prima, hanno avuto modo di incontrarsi, scontrarsi, confrontarsi durante i vari decenni della storia, dal 1839 ad oggi. Le opere di Dapoto, sono opere di confine, di non-luogo, sono frammenti di un’esistenza che sfugge, ancora prima di essere compresa, in un atto di incompiuta bellezza.

Dapoto osserva i luoghi, la terra, la natura che ne deriva, disperata, melanconica, preziosa e precaria; l’artista fotografa con diverse apparecchiature digitali utilizzando senza discriminazione sia smartphone che lenti pinhole a foro stenopeico, quello che maggiormente lo affascina sono le immagini sfocate e in movimento, in corsa, non definite, residui di memoria mobile, eterea, l’immagine si scompone come cenere o polvere. Ed è proprio la polvere, questo residuo materico intriso di poetica a legarlo con una presenza umile ma immaginifica come quella di Giorgio Morandi, riferimento importante per tutti gli artisti coinvolti in questa esposizione. Come sottolinea l’artista: “La polvere è una delle iscrizioni del tempo, è un ready-made, è l’informe, l’entropia, l’irriducibile, la metafora della nostra stessa dissoluzione. Soggetto di queste immagini sfocate è ciò che la polvere rappresenta, ovvero l’assenza: assenza di colore, di luce, di tempo, di movimento, di azione, di spazio, di forma e di gravità …. assenza che descrive non-luoghi sospesi nella polvere tra due o tre dimensioni, tra reale ed irreale, tra esterno ed interno in una staticità metafisica priva di dettagli dove la mente può ancorarsi e che paradossalmente diventa in qualche modo famigliare, misteriosa, legata all’onirico, al ricordo e alla memoria”.

Una volta scattate le immagini vengono stampate su supporti materici come tessuti in tela grezza o fogli di carta riciclata attraverso l’utilizzo di antiche tecniche di stampa fotografica come la “cianotipia” o la stampa “Van Dyke”. Quest’ultima, in particolare, si avvale dell’utilizzo di un’emulsione ricavata miscelando elementi fotosensibili quali ferro ammonio citrato e nitrato di argento che viene applicata a pennello sui supporti, solarizzata dopo l’applicazione di negativi a grandezza naturale e successivamente fissata attraverso diversi lavaggi. Questo permette di riportare la fotografia a uno stato materico, pittorico, dove l’immagine inizialmente bidimensionale si sgrana, perde la propria identità per ritrovare un’altra essenza, un’altra corporatura, un’altra grammatura, un altro peso. Il peso specifico di una memoria sfuggevole, che richiede uno sforzo di messa a fuoco, un esercizio mnemonico con la parte più remota e intima del nostro es.

Se un albero scrivesse l'autobiografia, non sarebbe diversa dalla storia di un popolo. (Khalil Gibran)

Di fronte alle esili forme fantasmagoriche, siano rami di alberi, porzioni di terra o farfalle, la delicatezza di sguardo si posa come un sussurro, un battito d’ali antico, fragile e originario.

Perché vi sono alberi sotto i quali non posso passare senza che vasti e melodiosi pensieri non scendano su di me? | Ritengo che pendano da quegli alberi, d'estate come d'inverno, e facciano sempre cadere frutti sul mio passaggio. (Walt Whitman)

I supporti in tela grezza o carta riciclata non fanno che rafforzare questo forte senso di fragilità ancestrale, di un’appartenenza perturbante a qualcosa che immediatamente sfugge, corre via, ma che a una seconda impressione si deposita negli angoli remoti e sicuri della memoria, come quando siamo accolti al ritrovamento di antichi abiti o oggetti nelle case dei nonni da un inconfondibile senso di appartenenza inspiegabile. La polvere si prende così cura della materia, sottraendola al tempo e costituendone una parte essenziale.

Terra, Gravità, Polvere, Dal treno, Fine dell’estate. Questi alcuni dei titoli delle opere di Dapoto che già di per sé introducono a una poetica panteista, profonda, con radici profonde legate a un preciso sentire, a uno specifico leggere e osservare il territorio. Melanconico e struggente il linguaggio di Dapoto, diviene uno scambio lirico tra il medium fotografico e quello pittorico, attraverso un’autentica incarnazione, posata, mai sopra i toni, lieve, capace di lasciare una traccia fisica, materica, livida.

Il fascino, uno potrebbe dire il genio, della memoria è che è selettiva, casuale e capricciosa; essa rifiuta l’edificante cattedrale e fotografa indelebilmente il piccolo ragazzo seduto accanto, che mastica una fetta di melone nella polvere. (Elizabeth Bowen)

Suspensa di Monica Camaggi, è un’opera composta da sei scatti fotografici, sei immagini in grande formato che ritraggono il corpo dell’artista in limbo tra cielo e terra, tra le colline emiliane, sempre al crepuscolo, in una ciclicità che trova il suo compiersi nel passaggio delle stagioni. Anche qui come nei lavori di Dapoto, siamo in un territorio di confine tra i medium, ovvero tra quello fotografico e pittorico. Suspensa infatti sono stampe fotografiche su tela, ciò vuol dire che anche qui la nitidezza propria della fotografia cede il passo a una trasmutazione, per un passaggio materico, che si manifesta nell’esigenza di un corpo pittorico più indefinito, più corposo, più scandagliato, di eco impressionista. L’artista, al centro della composizione si pone come una funambola, una migrante, un interstizio, un passaggio, una cicatrice, un segno, un’apertura, un graffio, come un anello di congiunzione tra due entità immaginifiche, complesse, infinite, che hanno gettato nello sconforto, nella riflessione e nella passione tantissimi artisti e poeti. Cielo e terra si trovano così, livide, lievi, da cieli tersi e ingombri, a prati innevati e puri, fioriti e intrepidi, la figura femminile a piedi nudi, libera, in attesa, in pace, in contemplazione o forse rassegnazione, accoglie e ci conduce girando lei stessa lo sguardo, in un altrove leopardiano, poetico, infinito.

… Alberto Savinio scriveva nel ’49: È nei piedi la nostra coscienza.

Il corpo dell’artista, è il corpo di tutti, di ognuno di noi, e la natura, anche qui vissuta in forma straripante, immensa e panteista, ci avvolge e ci assorbe nella vastità del non-finito. L’universo è questa memoria che noi viviamo, che possediamo e amiamo e riversiamo in gesti di sospesa bellezza. La Camaggi ferma il tempo, ogni volta, al tramonto, il tempo frenetico e contemporaneo si arresta e si celebra nell’eterno dello scatto fotografico. Il corpo diviene una traccia indelebile di questo compiersi, e la memoria ritrova forma nei panneggi di una sottoveste rosa antico, un tempo appartenente alla nonna dell’artista. Universale e intimo si ritrovano in questo passaggio di stato, anche qui, da quello fotografico a quello pittorico, un'alterazione chimica, quasi genetica. Magica.

Come afferma la stessa Camaggi: “La relazione che si sviluppa tra opera d'arte e natura assume il tratto di un equilibrio dinamico, in cui, l'artista, lungi dal possedere doti soprannaturali di veggenza, agisce come semplice mediatore, in possesso degli strumenti utili a dar voce e a far dialogare fra loro entità che risalgono a una memoria sotterranea e che altrimenti sarebbero incapaci di esprimersi. Le tecniche da me privilegiate (frottages, emulsioni, calchi) non sottraggono all'opera d'arte quel nucleo pulsante che riconduce la forma alla materia, ma anzi ne conservano la traccia, tanto che si può dire, in linea con le teorie di Didi Hubermann, che matrice e impronta si sovrappongono fino a confondersi. In questo susseguirsi di percorsi ascensionali e discensionali, in virtù dei quali la materia diventa arte e l'arte s'immerge nella materia, l'artista si sforza di cogliere l'attimo in cui si realizza la trasformazione, per consegnare allo spettatore un prodotto non finito, sospeso in una dimensione ibrida e quasi esposto alla violenza dello sguardo”.

Sole alla valle,
sole alla collina.
Per le campagne
non c’è più nessuno.

Addio, addio amore,
io vado via.
Amara terra mia,
amara e bella.

Cieli infiniti
e volti come pietra.
Mani incallite
ormai senza speranza.

(Domenico Modugno, Amara terra mia, 1972)

Le opere della Camaggi, sono manifesti di una bellezza dedita all’abbandono, alla fiducia dell’abbandonarsi a qualcosa di più immenso di noi, il lusso di una liberazione, il beneficio di una concessione catartica, l’umano di concede, si abbandona, si lascia cadere, andare a questo vuoto cosmico, a questo eterno scivolare nell’immensità di una madre imponente ed esuberante come la natura. Come in amore. Amaro come la terra. Amaro come l’amore per la terra stessa.

Nell'immenso isolamento, nell'immensa ignoranza in cui ci dibattiamo non abbiamo altro modello, altro punto di riferimento, altra guida, altro padrone che la natura; e la voce che ci consiglia a volte di allontanarci da lei, di rivoltarci contro di lei, è ancor da lei che ci viene. Cosa faremo, dove andremo, se non l'ascoltassimo? (Maurice Maeterlinck)

La mostra volge al termine con le opere di Oreste Baccolini, in questo caso, gli spazi oscurati dei Fienili diventano una chiusa intima, profonda, intensa, tellurica. Il dialogo con la terra natia è forte, di matrice storica, dove la memoria diviene una testimone imprescindibile.

Figlia indiscreta della noia, | memoria, memoria incessante, | le nuvole della tua polvere, | non c'è vento che se le porti via? || Gli occhi mi tornerebbero innocenti, | vedrei la primavera eterna || E, finalmente nuova, | o memoria, saresti onesta. (Giuseppe Ungaretti)

La memoria alla quale Baccolini si rivolge, è una memoria onesta, ungarettiana che non appassisce con l’intercalare degli anni. Nell’installazione video Papà tornare ricordare per non dimenticare è necessario. L’artista, ci propone uno schermo video nel quale l’immagine fissa di un cappotto giace a terra come un corpo abbandonato. Un corpo mai ritrovato quello del nonno, e che le acque del fiume hanno portato via. La proiezione, attraverso un’inquadratura fissa, infatti rispecchia questo incessante scorrere del mondo, di una natura silente e maestosa, di una storia che non può essere lavata via.

L'acqua limacciosa della memoria, dove tutto ciò che cade si nasconde. Se la si muove, qualcosa torna a galla.
(Jules Renard)

E una frase come un'eco ci desta sentimenti densi, affilati, preziosi, una riflessione intima sul senso della storia umana, senza alcun effetto speciale, attraverso il mezzo video l’artista diviene memoria esso stesso, diviene testimone puntuale, preciso e si presenta con l’appuntamento contro la dimenticanza. Certi episodi hanno la necessità che venga data loro una voce, ancora meglio se questa, viene dalla terra stessa. E Baccolini attraversa la terra, la riprende, gli da voce, la interroga. Onestamente. Racconta l’artista: “Nel 1944 mio nonno materno, durante un rastrellamento da parte di militari dei reparti tedeschi, viene prelevato dalla sua abitazione alla presenza dei suoi familiari, portato a Pioppe di Salvaro e successivamente fucilato alla "Botte" (grande cisterna d'acqua utilizzata come alimentazione della centrale elettrica del Canapificio, in quel momento priva di acqua) assieme a 45 persone. Una parente che lavorava nello stabilimento lo riconosce nel mucchio dei cadaveri dal pastrano militare che indossava al momento del rastrellamento. Alla riapertura della chiusa, tutti i cadaveri attraverso il canale furono trascinati dalla corrente nel fiume Reno. Il suo corpo non fu mai ritrovato. Questo eccidio rientra nella storia della strage di Marzabotto. 'Papà tornare' sono le ultime parole rassicuranti che un militare tedesco rivolge ai figli, la frase con cui mia madre rievoca l’evento”. La stessa madre che in questa installazione, ritorna di spalle, in foto, con addosso il cappotto del padre, con lo sguardo volto a una riflessione lontana, con le radici affondate nel cuore, e in quel momento diveniamo la madre e la figlia. Ognuno di noi è la madre. Ognuno di noi è il/la figlio/a. È la memoria.

Il mio nome è memoria. Sono la vostra più preziosa amica. Sono la buca in cui non ricadere e la strada sbagliata da non imboccare la seconda volta. Posso essere la vostra più temibile nemica. Perché sono l'occhio che fotografa la vostra vergogna nel buio di una stanza. (Alessandro Ghebreigziabiher)

In G&O, la firma di Giorgio Morandi viene decontestualizzata, ingrandita e resa fluorescente di un rosa vivido. L’autografo estrapolato dalla propria funzione diviene corpo fantasmagorico, feticcio e simulacro. In funzione di un'essenza diviene segno, simbolo e presenza materica. Fisica. Come un’ombra, la firma viene sottratta al mito, attraverso un’operazione magica, Baccolini cita a tal proposito una flessione di Ernst Kris Otto Kurz, da La leggenda dell’artista: “(…) Dunque, l’immagine riprodotta meccanicamente è ritenuta un sostituto della persona raffigurata, e l’ombra di cui si traccia il contorno una parte dell’individuo stesso: un’idea, questa, che rammenta una nozione comunissima del pensiero magico, secondo cui possedere una parte del corpo di una persona o un oggetto ad essa appartenente, conferisce potere sulla persona stessa. Del resto, questa credenza, sia pure debolmente, sopravvive ancora oggi nel nostro inconscio, manifestandosi variamente nel costume sociale: per esempio, nell’azione del rivoluzionario che strappa l’effigie del dominatore abbattuto, o in quella dei membri di un gruppo politico che bruciano i ritratti del leader della fazione avversa, o perfino nel gesto dell’innamorato che distrugge la fotografia dell’amante infedele”. Baccolini cita, e supera la citazione, fa della firma di Giorgio Morandi, un’effigie che illumina una parte fondamentale della storia dell’arte e della storia di questo territorio, di questa terra livida e lieve, dai colori e dai silenzi morandiani.

Le schegge di nuvole concludono l’azione poetica commemorativa di Baccolini, durante alcune passeggiate lungo i crinali delle montagne di Grizzana Morandi l’artista ha ritrovato frammenti di bombe e successivamente le ha fatte cromare d’argento "La cromatura dei metalli oltre ad avere una funzione protettiva è in grado di aumentare notevolmente la resistenza delle superfici alla corrosione generica e all'usura del tempo", rendendole eteree, rendendole estranee ancora una volta dal contesto originario. Da un uso bellico a un uso metaforico, poetico, le schegge divengono frammenti di una fragilità umana percepibile, ma soprattutto condivisibile. Vengono trovate, spogliate, rilette e rese libere. Quasi pasoliniane ci interrogano con ferocia e poesia. L’artista racconta: “Le montagne dell’Appennino tosco-emiliano, a settant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, sono ancora disseminate di reperti ferrosi derivanti dalla frammentazione di ordigni di diversa natura, in particolare proiettili di cannone e bombe aeree, che sono stati esplosi o fatti cadere dal cielo. Dal cielo sono arrivati, prendendo forme di nuvole”.

“Iiiiih, che so’ quelle?”
“Sono le nuvole”.
“E che so’ le nuvole?”
“Bah!”
“Quanto so’ belle! Quanto so’ belle! Quanto so’ belle!”
“Ah! Straziante meravigliosa bellezza del creato!”

(Pier Paolo Pasolini, Che cosa sono le nuvole, 1967)

Livida, lieve … è la visione complessa, prismatica che ogni sguardo accoglie del mondo.
Livida, lieve … è l’attitudine al silenzio e al coraggio.
Livida, lieve … è la verità.
Livida, lieve … è.