Luigi Spina è l’autore di due volumi fotografici. Diario Mitico (125 fotografie con testi di Philippe Daverio e Giovanni Fiorentino) racconta il corpo a corpo del fotografo con la scultura classica del Museo Archeologico di Napoli. Rigorosamente in bianco e nero, ad eliminare ogni residuo di superfluo, il volume ci restituisce la purezza delle forme e tutte le vibrazioni che si celano nelle pieghe del retro. In Hemba (120 fotografie di Luigi Spina con testi di Constantine Petridis) Spina disvela la cifra dell’antica identità culturale di un popolo attraverso le visioni di nove sculture hemba del sud est del Congo, epoca metà del XIX secolo. Le fotografie sono a colori.

Praticamente un viaggio tra due poli. Un viaggio, si sa, è un’avventura che ti porta da un punto all’altro. Ma dal mondo classico al mondo primitivo il viaggio di Spina non ha una direzione. E neanche un ritorno. Come in un racconto di Calvino, non va avanti né indietro. Perché il viaggiatore si porta addosso le tracce dell’uno quando si avvicini all’altro. Come un’armatura di comprensione. E viceversa. Puoi dire: un viaggio nel tempo. Ma neanche. A ritroso. E chi lo ha detto? Che il tempo classico segua il primitivo. O che ci sia un centro geografico e una periferia. Niente di tutto questo è vero su un altro piano: lì dove lo sguardo è illimpidito. Dove si arriva con l’arte. Posto che esista davvero un tempo del passato e poi del dopo. Nessuna conoscenza è preclusa. Sei tu stesso, osservatore interessato, una tensione tra due poli. Il tratto che unisce, diciamo così.

Dagli Antenati al Mito, dal potere magico allo sforzo di uscire dall’ombra per farsi uomo, dall’Africa sub-sahariana al cuore della colta Europa, da tutto ciò si snoda una circolarità di percezioni. Che tradotte, sono parole: dignità, armonia, proporzioni, solennità, equilibrio, energia. Ma più di ogni altra: umanità. Uno si mette davanti alle sue profonde espressioni e mette in gioco i propri strumenti (fotocamera, penna, matita, pensiero). E se resta lì, un minuto o tutta una vita questo non conta, alla fine ci riesce ad afferrare la sembianza di realtà in una sfera di assoluto. E in un istante, mentre altrove ogni cosa scorre e si sovrappone, ogni cosa fa rumore, nell’istante immobile e silenzioso ti accorgi che non c’è distanza tra i poli. E se ti metti in ascolto, se solo per un frangente infinito sei nell’ascolto giusto, scopri che non c’è distanza neanche con te. In una triangolazione unitaria hai conquistato il codice del tempo.

Testo di Davide Vargas