“Nel cerchio imperfetto del suo universo ottico la perfezione di quel moto oscillatorio formulava promesse che l’irripetibile unicità di ogni singola onda condannava a non essere mantenute. Non c’era verso di fermare quel continuo avvicendarsi di creazione e distruzione. I suoi occhi cercavano la verità descrivibile e regolamentata di un'immagine certa e completa: e finivano, invece, per correre dietro alla mobile indeterminazione di quell’andirivieni che qualsiasi sguardo scientifico cullava e derideva”[1].

È così che appare l’ultima installazione artistica Touch of Time dell’artista ceca Magdalena Jetelová: un immenso “mare di petrolio” in movimento, reminiscenza di un paesaggio agricolo perduto a causa dell’inquinamento, ma anche richiamo di un'instabilità geo-politica che caratterizza la situazione attuale. Un’architettura paesaggistica in “miniatura”, che frammenta lo spazio convenzionale attraverso superfici riflettenti e flessibili, sottoposte a continue oscillazioni e bagliori luminosi, in grado di trasformare l’immagine simultanea dell’ambiente e dei visitatori in una realtà sfuggevole e unica.

La volontà di dissolvere, causando senso di perdita dello spazio e del tempo era già presente nell’installazione Domestication of a Pyramid dei primi anni Novanta. Un’immensa piramide di sabbia vulcanica invade l’interno di un edificio rinascimentale facendo apparire le colonne, gli affreschi, le scale, come relitti che emergono fra la cenere rossa del deserto. L’immagine istituzionale dello spazio del museo è completamente ribaltata, e insieme al visitatore appare come insignificante e piccola, rispetto all’immensa montagna di sabbia. Questa surreale “dislocazione” polemizza contro l’effimerità dei musei, all’interno dei quali sono collocati parti di storia in modo arbitrario, slegati dal contesto originario.

Riflessioni intorno al monumento che ritroviamo qualche anno più tardi durante la performance artistica Stalin del 2007, a Praga. In quell’occasione diede fuoco allegoricamente al parco Letná Hill, sino a incontrare il luogo esatto, sottostante una scalinata che si apre sul ponte Svatopluk Čech in cui un tempo era stata collocata una statua di Stalin. Attraverso lo spettacolo coreografico che ha riprodotto fuoco e fiamme, di cui ancora oggi è possibile visionare il filmato, ha fatto rivivere alla memoria collettiva il flashback di un evento drammatico di un tempo mai esistito.

Nonostante la sua attività professionale si sia svolta principalmente in Germania, gran parte delle sue opere sono influenzate dalla sua formazione presso l’Accademia delle Arti Figurative di Praga che ha frequentato durante il fermento della Primavera del 1968 e le successive manifestazioni di protesta contro l’invasione Sovietica durante la “normalizzazione”. Fortemente influenzata dall’arte povera, con cui è venuta in contatto durante il suo periodo di studio a Milano presso l’Accademia di Brera fra il 1967-1968, ha prodotto nell’arco della sua carriera un gran numero di sculture sin dai primi anni Ottanta. Oggetti di uso quotidiano, inanimati e semplici come sedie, guardaroba, tavoli, scale grossolanamente sbozzati, diventano il simbolo della trasformazione sociale attraverso il “cambio di scala”. Infatti nonostante la loro semplicità di forma e realizzazione, la loro dimensione colossale e maestosa fa sì che questi oggetti acquisiscano un carattere di forte contrasto verso lo stato autoritario tipiche del periodo di “normalizzazione” della Repubblica Ceca. La maggior parte di esse assumono pose non convenzionali, con inclinazioni e angolazioni instabili, vulnerabili e prossime al collasso. Il loro carattere di impermanenza è ulteriormente rafforzato dalla natura lignea delle opere: le loro crepe, le screpolature, gli squarci dell’umidità diventano elementi attivi e partecipanti alla drammaticità dell’opera.

Magdalena Jetelová è un artista che vuole infrangere le barriere, esplorare l’arte oltre i limiti, mettendosi alla prova con tematiche complesse e dolorose, ma anche attraverso viaggi-performance in cui la natura e il paesaggio diventano le tele sopra le quali realizzare arte. Come scritto dal poeta tedesco Rainer Maria Rilke, a sua moglie Clara nel 1907: “Surely all art is the result of one’s having been in danger, of having gone through an experience all the way to the end, where no one can go any further. The further one goes, the more private, the more personal, the more singular an experience becomes…”[2].

In Iceland Project, del 1992, traccia nuove esperienze sensoriali a partire da un viaggio lungo la dorsale medio-atlantica in Islanda. Una performance in solitaria, documentata attraverso un reportage fotografico, il cui unico strumento artistico sono raggi laser proiettati sul paesaggio oscuro e ostile. I segni luminosi, che si adagiano sulle sinuosità delle montagne brulle, definiscono punti di fuga che evocano un senso di misticismo e di speranza, da cui l’osservatore si aspetterebbe di intravedere sagome oscure in processione lungo il percorso. Il suo non è solo un viaggio fisico, ma è soprattutto un viaggio spirituale e di pensieri. Dunque un’artista capace di sconvolgere, che lavora sulla linea invisibile, sul limite che intercorre fra il paesaggio naturale e artificiale, luce e ombra.

Lo stesso climax artistico che ritroviamo in Atlantic Wall del 1994-95. Ancora una volta c’è la volontà di rievocare la drammaticità degli eventi, in questo caso della Seconda guerra mondiale, attraverso scritte ispirate dal libro Bunker Archeology del 1974 di Paul Virilio, che vengono proiettate come raggi luminosi sui bunker e le torri, ormai relitti, che l’Atlantico sta via via avvolgendo e inghiottendo. Nonostante tutte le sue opere evochino un chiaro riferimento alla Land Art americana, è solo con Underground city nel 1982 che Magdalena interviene radicalmente modificando i connotati del paesaggio naturale tanto da poter essere paragonato allo Spiral Jetty di Robert Smithson. Attraverso quest’opera ripensa gli spazi urbani e abitativi che, in contrapposizione agli spazi contemporanei anonimi e alienanti, hanno la capacità di essere realizzati a misura d’uomo e in perfetta sintonia con il paesaggio circostante. Nonostante il progetto non sia mai stato costruito, attraverso il modello in gesso del parco-scultura sovrastante e l’animazione tridimensionale all’interno dello spazio sotterraneo, si comprende chiaramente la potenza artistica di questo luogo che richiama l’opera artistica Roden Crater di James Turrell. Ancora una volta Magdalena utilizza il paesaggio e la luce come lo strumento di partenza delle sue opere per dare vita ad allegorici spazi che affondano le proprie radici nel contesto socio-politico.

Nonostante si sia occupata maggiormente di performance e sculture strettamente dialoganti e connesse al paesaggio naturale, ha realizzato anche diverse pitture su tela con diverse variazioni cromatiche, che vanno dall’abbinamento bianco-nero sino alle sfumature cromatiche del blu-bianco con un forte richiamo al mare. Fra di esse troviamo alcune tele, che inizialmente appaiono come pennellate caotiche e distratte, di colore nero e rosso, che tuttavia, nelle loro sfumature sembrano evocare L’incendio delle camere dei Lord e dei Comuni di William Turner. Gli elementi iconici delle barche e dell’architettura sullo sfondo del Tamigi di Londra sono sostituiti da parole simboliche che fuoriescono in ogni direzione fra la “nebbia e il fumo”. Dunque un collage di pennellate sfumate e parole tratte da saggi e testi letterari, che appaiono evocare il movimento futurista non per i contenuti, ma per le tecniche rappresentative di collage, in cui le parole assumono un significato figurativo oltre che metaforico.

Fra le più suggestive opere pittoriche, le tele bianche e nere sono quelle più capaci di generare conflitti interiori in colui che le osserva, dove si ha la sensazione di poter toccare e fermare lo scorrere del tempo ed entrare a far parte di una nuova spazialità: un luogo dove luce e tenebre coesistono impetuosi nello stesso arco temporale, generando sentimenti contrastanti.

Attraverso il suo percorso artistico Magdalena Jetelová ha dimostrato una grande sensibilità nel realizzare performance e opere capaci di spaziare fra diversi ambiti artistici che vanno dall’architettura alla scultura, all’arte pittorica. Il coraggio dimostrato nell’indagare i limiti, fra luce e tenebre, fra artificio e paesaggio, attuale e memoria, reale e irreale, miniaturismo e gigantismo, sempre con una contestualizzazione socio-politica, hanno fatto di lei una delle più interessanti e affascinanti artiste della nostra epoca. Infatti è proprio dove la natura decide di collocare i propri limiti che avviene lo spettacolo, proprio per questo lavorare sui limiti e sulle barriere consente di realizzare opere artistiche grandiose, in grado di sfidare l’idea di spazio e tempo convenzionale per lasciare il posto a un nuovo tempo e un nuovo luogo surreale, capaci di colpire con tutta la loro forza e potenza lo spirito più intimo dell’animo umano e di scuoterlo sino a raggiungere la verità.

Testo di Lucia Belemmi

[1] Alessandro Baricco, Oceano Mare, Milano, Rizzoli 1997, pag 31-32
[2] Rainer Maria Rilke, Briefe in zwei Bänden, Frankfurt/Main 1991; Vol I, pag 162