18 anni fa il mio amico Arnaldo Romani Brizzi mi presentò Mario Fani, pittore radicalmente aretino, e io scrissi del suo lavoro, per una mostra che allora si chiamò Conversazioni in un interno, una presentazione inseguita, in una specie di postfazione, da un bellissimo (bello come al solito) testo di Arnaldo. I nostri due pezzi erano insomma un apri e chiudi parentesi, come due ali, e in mezzo c’erano i quadri di Mario, e quelle due ali, voglio dirlo ora che sto rimpiangendo Arnaldo, erano intrise di letteratura, perché era anche questo, voglio dire il nesso che c’è tra la letteratura e la pittura, ciò che ci appassionava e che ci univa, incitandoci a polemizzare, nelle nostre chiacchierate, contro un presente dell’arte assai invasivo ma analfabetico, privo non solo di bellezza ma anche di parola, di pensiero.

Perciò non tradisco il mandato nemmeno adesso, e già nel titolo capovolgo il titolo di un libro di Jonathan Franzen, Più lontano ancora, anche perché ciò che è estremamente lontano e ciò che ci appare più intimamente vicino spesso hanno la stessa natura di luoghi remoti, di rifugi, di isole. E poi mi sembra evidente una cosa: il posto, la casa, le stanze delle visitazioni notturne, lasciate vuote e aperte affinché qualcuno arrivi, a occhio sono quelli di tanti anni fa, ma è come se Fani vi sia entrato ancor di più, avvicinandosi agli oggetti, ascoltando le cose. Vi appoggia lo sguardo, come uno che appoggi le orecchie al suolo. Ha dunque incredibilmente delimitato il suo territorio di caccia?

Capite bene che a uno che veda in un quadro roteare, quasi si trattasse di un astro, di un pianeta, la solitudine di una tazza, di una Zuppiera, che queste siano biancheggianti di zinco o di porcellana contro un fondo buio, a uno sguardo che quindi si riempia di questo preziosissimo nonnulla verrà in soccorso un qualche buon esempio e modello e parametro di pittura precedente. È inevitabile. Siamo alle fondamenta dell’arte? Intanto di quella nostra. Così l’aretino Fani si confronta alla distanza con l’emiliano Morandi, e toscaneggiando parecchio rende meno cremoso e cereo, e invece più morfologicamente intatto e tosto, strutturalmente quasi intagliato, l’oggetto povero, inchiodato sotto uno sguardo che non sembra distrarsi mai, né desiderare altro; oggetto reso regale, da entrambi i pittori, durante una qualche cerimonia serale e senza nessuno, proprio come per un’investitura, in quadri di devozione domestica, in un sentore di stanze e mensole italiane tenute in buon ordine.

Dovessimo vagare con la mente - perché lo sappiamo, osservando un’opera d’arte si vaga subito parecchio, ed è questo che succede nella patria delle arti, si va di qua e di là seguendo richiami, cercando sintonie, connessioni, un qualsiasi riverbero che ci provi come proprio questo quadro non è solo, e come anche sfiorandolo appena con lo sguardo smuova tutta una catena di rimandi ed echi - quindi, ripeto, dovessimo allontanarci da qui ci verrebbe magari incontro quel Marcel Proust che sembra parli d’altro, quando invece stacca frasi così: “siamo qui al termine di quel viaggio d’iniziazione alla vita ignorata della natura morta che ciascuno di noi può compiere lasciandosi guidare da Chardin, come un giorno Dante da Virgilio. Da Chardin abbiamo imparato che una pera è altrettanto vivente di una donna, che un volgare recipiente è altrettanto bello di una pietra preziosa. Il pittore ha proclamato la divina eguaglianza di tutte le cose davanti allo spirito che le considera, davanti alla luce che le abbellisce”. In fondo è la stessa roba che si pensa ogni volta davanti ai bicchieri e alle bottiglie di Morandi, di un pittore cioè che viaggiò parecchio sulla linea C della natura morta francese che da Chardin porta a Cézanne: quelli non sono semplici oggetti, quelli siamo noi. O comunque, anche noi.

In effetti, benché coi suoi quadri, con questa sua pittura sostenibile e a chilometri zero, Fani sappia far parlare il silenzio, ci accorgiamo come sappia inscenare anche tutta una dinamica di scambi e comunicazioni tra le cose, dialoghi che ratificano assenze e non sembrano soffrire della nostra mancanza, di noi umani voglio dire. È una prospettiva di visione interessante in un habitat che affoga nei selfie, proprio perché assolutamente priva di vanità. Per esempio, dicono la loro, le cose, in Dissonanze e Duetto, con intimi match tra un angolo di legno e la curva di una tazza, nel primo caso, e tra ciò che è vitreo, trasparente, e ciò che resta opaco, nel secondo. Bisbigli, che nascono dal desiderio di opporre al caos del mondo là fuori un ordine semplice, una protezione di mutezze e geometrie e luci tenui. Assumete tutto ciò come un antidoto, magari anche da un punto di vista non solo etico o stilistico ma proprio tecnico, perché siamo certamente disposti a barattare anche noi l’effimera, inutile vita di parecchi pixel con una pennellata ben data, con una più durevole stesura ben fatta, “a mano”.

Un paio d’anni fa sono andato a Madrid per intervistare Antonio Lopez Garcia, e quando gli ho chiesto quale fosse la virtù che accomuna i grandi pittori spagnoli, lui mi ha risposto così, e ciò che mi ha detto lo giro a Fani e a chi adesso guarda i suoi quadri, perché, tanto, in tre righe c’è tutto: “È la nostra capacità di osservare il mondo reale. Non di sognare, ma di osservare. Tutto il mistero è nelle cose. È attraverso il mondo visibile che appare quello invisibile”. E mentre mi parlava, girava intorno con lo sguardo, devotamente indicandomi per l’ennesima volta una riproduzione dei Bodegones, i piccoli vasi che Zurbaràn dipinse quattro secoli fa.

Testo di Marco Di Capua