Stelo si presenta come una mostra esile e spoglia, frammentata, pulita. Come nuda sotto una tiepida coltre di neve, inafferrabile e arcaica. Già nel proprio titolo contiene la vera essenza: una struttura sottile, germinante in grado di svilupparsi. E Stelo è una mostra capace di aprirsi a più livelli di narrazione come un prolifico dialogo; quello appunto desiderato da tanto tempo dai due artisti Rodrigo Hernández e Rita Ponce de León conosciutisi quando entrambi erano studenti all’Accademia di Città del Messico.

Stelo cresce sotto gli occhi dei visitatori in maniera parallela, educata senza sovrapporsi, con un comun denominatore, quello di rappresentare il rapporto che gli artisti hanno rispetto al loro mentore. Nel caso di Rodrigo Hernández, fortuito l’incontro con la sua tutor, l’artista svizzera Silvia Bächli negli anni di studio a Karlsruhe, per Rita Ponce de León invece decisiva la figura del danzatore giapponese Kazuo Ohno, guru ispiratore della danza butoh, la cui arte ha potuto conoscere direttamente grazie a Yoshito Ohno, figlio di Kazuo.

I lavori raccolti in Stelo sono inoltre pensati appositamente per lo spazio della galleria bolognese P420 e realizzati proprio a Bologna durante le settimane antecedenti all’opening. I due artisti oltre a lavorare con la memoria individuale, collettiva e quella stessa dell’arte, si relazionano con quella del luogo.

Le terrecotte di Rodrigo Hernández, installate ad altezza uomo, si alternano ariose lungo i due perimetri delle due sale della galleria, come piccoli monitor, from Silvia series riportano diversi soggetti, quali: la luna, una sirena, due mani, un pipistrello, una mappa espositiva, diverse scene raffiguranti umani e l’immancabile “fantaccio” stilizzato Pedro, che caratterizza altri lavori di Rodrigo, sospesi tra astrazione e rappresentazione, pittura-disegno-scultura.

Rodrigo Hernández è uno degli artisti contemporanei più interessanti proprio per il suo ricco vocabolario visivo, in grado di spaziare, dall’arte povera al minimalismo per le scelte formali dell’opera, e di sapersi confrontare criticamente con le correnti dell’Avanguardia come Futurismo, Dadaismo e Surrealismo; Hernández riesce a coniugare l’eredità culturale visiva occidentale con quella propria, sud americana, con un occhio attento soprattutto alle forme artistiche precolombiane.

In uno dei testi relativi a uno dei suoi lavori, Go, gentle scorpio vi è una riflessione aperta, molto interessante proprio sulla scultura. In molte teorie inerenti all’origine della scultura infatti vi sarebbe l’idea di un certo “realismo fortuito” ovvero: la prima creazione di rappresentazione fu innescata da immagini mentali o dalla percezione di accadimenti umani e noi. “Qual è – allora - il punto di partenza di una scultura? … Come puoi rappresentare qualcosa che non hai mai visto”.

In un altro lavoro di Rodrigo Hernández, A sense of possibility l’artista si rifà a un frase riportata da Magritte nell’articolo del 1929 Les Mots et les images (nel quale esplora la relazione tra oggetto e la sua immagine e il nome che gli è stato dato): “Noi vediamo il mondo come un essere fuori da noi stessi, sebbene sia solo una rappresentazione mentale di ciò che viviamo dentro noi stessi”.

Rodrigo Hernández riesce così tramite materiali semplici e altrettante esecuzioni, entrambi privi di orpelli, a riflettere sul senso dell’arte, della percezione, della fruizione e della rappresentazione.

Le terrecotte scandiscono così un ritmo primordiale, dove il gesto ritrova l’importanza e un forte “verismo” concettuale pre-moderno, tra l’iconico e l’astratto colpisce per semplicità e pienezza delle forme. I soggetti scolpiti da Hernández sono splendidi paradossi ossimorici, dei vuoti-pieni armonici e rotondeggianti, atemporali.

L’importanza del gesto e del movimento si ritrovano in questo dialogo ben calibrato, splendidamente, anche nelle cinque Caminatas di Rita Ponce de León, un’artista anch’essa che non ha paura di confrontarsi con la complessità, della semplicità apparente, di medium quali la pittura il disegno e la scultura.

Nelle sue camminate, lembi, estratti di tessuto bianco, come piccoli litorali di spiagge improbabili, l’artista srotola frammenti, piccoli amabili resti, porzioni di possibilità, quali sculture in terracotta e disegni eleganti.

L’essenzialità è la chiave di volta di queste installazioni che vogliono coinvolgere lo spettatore in una danza di gesti ai quali ci si deve sottoporre per carpire, cogliere da vicino quei silenti frammenti. L’osservatore si abbassa, si genuflette, si sposta attorno a questo corpo etereo, a questa distesa di relazioni, sensazioni, di ricordi, appartenenti a un’eterna condizione di non sense dell’esistenza, dove tutto però (ancora qui torna il paradosso) sembra essere strettamente connesso, anzi interconnesso.

Fiori, mani, ombre, amanti, differenti oggetti: tutto è avvolto da un misterioso prisma di brillante lucentezza nei disegni di Rita Ponce de León attraverso un segno e un colore elegantissimi; anche qui un'eco surrealista: le sculture si alternano da forme sferiche a dita solitarie, come se qualcosa fosse perduto per sempre, su queste funi di tessuto, siamo in equilibrio su quelle cose che nonostante tutto scivolano via dal tempo.

Stelo è una mostra che sussurra e danza, invitandoci all’abbandono.