Nel corso delle mie ricerche per la stesura di opere su Galati Mamertino, piccolo centro agricolo sui monti Nebrodi in provincia di Messina [1], comune successivamente assurto agli onori della grande storiografia dell’arte [2], ebbi occasione di venire in possesso di una nutrita serie di lastre fotografiche. Alcune di queste sono opera di due cultori locali: dilettante l’uno, il dr. Antonino Bianco, valente medico chirurgo, quasi professionista l’altro, Antonino Orlando, che occupava con la passione per la fotografia il suo tempo libero di impiegato comunale. Una piccola parte di esse è stata pubblicata come illustrazioni delle suddette opere, gran parte invece restarono inedite e donate, con riserva d’uso - al fine di evitare una sempre temibile dispersione - al Museo di Arti e Tradizioni Popolari in Roma [3].

L’arte fotografica accese rapidamente la fantasia di artisti più o meno dotati sin dal suo primo apparire e, nata a Parigi negli anni Trenta del secolo XIX - i primi successi di dagherrotipia furono ufficialmente comunicati al mondo nel 1845 -, rapidamente si diffuse, rivoluzionando l’arte del ‘riprodurre’ quasi silenziosamente, come accade sempre per le grandi invenzioni: il fuoco, la ruota, il motore a scoppio, il volo, e pure l’intera arte della riproduzione delle immagini. Insomma fu il ridimensionamento del pennello e del bulino, sino ad allora incontrastati dominatori della documentazione degli avvenimenti grandi e piccoli della vita.

L’interesse suscitato nell’uomo fine-secolo XIX fu tale che il piccolo apparecchio poté giungere sino a centri sperduti come Galati Mamertino, ove la strada carrozzabile giunse a collegarla al mondo solo negli anni Trenta del secolo XX e la corrente elettrica intorno alla fine degli anni Quaranta dello stesso secolo! Del primo periodo della fotografia, sul posto, non si sono trovati documenti e ben si comprende ove si consideri quanto complessa fosse la metodica della dagherrotipia e della calotipia: e anche l’avvento della lastra al collodio, intorno al 1850, non ne diminuì le difficoltà. Il fotografo infatti era costretto a portarsi appresso, insieme con il pesante apparecchio fotografico, anche un piccolo laboratorio chimico che veniva allogato in una tenda o montato sopra un carrettino. Per converso, le difficoltà rendevano più selettiva la frequentazione del campo, sicché nel periodo più antico della riproduzione fotografica l’artista si dedicava al suo lavoro con la stessa mistica vocazione del pittore: essi usavano chiamarsi pittori-fotografi. Il Negro [4] infatti scrisse di loro che i fattori determinanti profusi nelle opere erano un elemento di carattere psicologico, la convinzione e l’entusiasmo; e spiegò:

Non c’è mai nessuno che rida o che semplicemente sorrida negli incunaboli della fotografia, è tutta gente profondamente compresa dello atto che stava facendo, e se il fotografo aveva un alto concetto della sua opera, e si credeva un artista, il fotografato era nello stato d’animo più adatto per secondarne gli intenti. Il negativo che ne veniva fuori era così il frutto di una collaborazione psicologica inconscia e assoluta, oltre che di una preparazione tecnica accurata.

Fu invece intorno al 1880 che, con l’avvento della lastra al bromuro d’argento, la macchina fotografica, alleggerita e ridotta a dimensioni quasi tascabili, giunse al grande pubblico: le testimonianze della vita della società divennero allora meno qualificate forse, ma furono istantanee, fermarono cioè un attimo, un movimento, un sentimento, fotografarono la vita vissuta!

I soggetti con spirito d’iniziativa riuscivano a dare, da quel momento, alle loro immagini “felicità di taglio, capacità di vedere l’essenziale, di tirer l’éternel du transitoire”. E tuttavia dovevano fare i conti con una diffusa prevenzione verso il nuovo ritrovato, l’incubo della jettatura. Sembra curioso che intorno alla metà del secolo XIX si trovassero tanti ritratti eseguiti con pennello o bulino ma nessuno ottenuto con la camera oscura. Pure a questa stranezza il Negro ha dato una spiegazione [5]:

Proprio nel periodo degli incontenibili entusiasmi per il nuovo mezzo di fissare le immagini ci fu chi guardò lo scatolone di legno lucido come una diabolica insidia, e ritenne che mettersi davanti all’obiettivo fosse come mandare un invito alla morte. Dice tutto a questo proposito il caso dell’archeologo Canina [6], fotografato in Inghilterra, dove il celebre uomo era stato chiamato perché perpetrasse la trasformazione in stile neoclassico dell’interno di un castello gotico. Poiché si era sempre rifiutato di posare, lo colsero di sorpresa, e Canina reagì nell’unico modo possibile, cioè allungando bene in vista una mano, e facendo, con aria mestissina, gli scongiuri. Egli ha raccontato tutta l’ingrata vicenda in una lettera all’amico romano Montiroli, ma bisogna aggiungere che le corna non servirono a niente in quel caso, perché il buon Canina... mori durante il viaggio di ritorno.

La fotografia poi è entrata di prepotenza nel mondo della documentazione. Per ricordarne la storia molte opere sono state curate in ogni regione d’Italia; per la nostra Sicilia ricordo Giovanni Verga fotografo [7] e Capuana, Verga, De Roberto fotografi [8].

Le fotografie, qui pubblicate, sono immagini, le più varie, di vita di una comunità agricola riprodotta nella sua essenzialità, senza infingimenti né trucchi fotografici. Chi ricorda più la lavorazione del lino, il trattamento della fibra, la sua battitura, la sua filatura, la sua tessitura che peraltro si faceva abitualmente in Sicilia in generale e a Galati Mamertino in particolare? E l’allevamento del baco da seta? O la creazione delle pezzare? Addirittura quanti delle ultime generazioni ricordano come fosse fatto un telaio, strumento peraltro presente sino agli anni Venti-Trenta del secolo scorso quasi in ogni casa di contadini? E il modo di vestire, di posare, di atteggiarsi che era poi il modo di pensare, poiché il pensiero crea l’atteggiamento esteriore? Infatti per dirla con Leonardo Sciascia, che cos’è fotografia se non verità momentanea, verità di un momento che contraddice altre verità di altri momenti?

Di Galati Mamertino posso segnalare poche immagini come omaggio alle generazioni future pur se riprese da vecchie e malandate lastre fotografiche. Esse danno l’essenza della vita di ogni giorno, che fu la vita dura dei nostri padri: vita di lavoro in una terra avara. La stessa nobiltà era un’aristocrazia agricola che col fittavolo e con la criata ne divideva i magri proventi. Il mondo del lavoro, la campagna, ebbe un posto preponderante: la trebbiatura, la tosatura delle pecore; pure il trasporto della acqua: l’acqua in Sicilia è sempre stato un liquido prezioso. Pure il trasporto della pietra era uso costante, in una zona spesso impervia come Galati Mamertino, con carro trainato da buoi aggiogati, molto artigianale e ancora a ruota piena. Interessante uno dei più antichi ritratti fotografici del paese, personaggio con mezzo sigaro toscano, il dott. Antonino Bianco, con rustico sfondo celato dall’usuale asciugamani con frangia: uomo certamente d’autorità e sicuro di sé, uomo di comando e abituato a una sua eleganza rigorosamente in linea col tempo.

Per restare in tema di abbigliamento, fra le lastre c’è un ritratto di uomo, rispecchiante un’eleganza anni Trenta, col solito muro rustico nello sfondo e stavolta non mimetizzato dalla coperta a bande variopinte; colpisce la posa dei piedi a 90° e il sorriso a mezza bocca. Tipico l’incedere del venditore ambulante ripreso però in un luogo che tramanda una pagina di storia: subito sopra la confluenza delle due vie non vi è più a casiotta, la base di una delle torri della cinta muraria del secolo XII, sopravvissuta nei secoli e trasformata in edicola sacra [9].

Solo rettangoli di carta sono pervenuti di belle donne con nello sfondo sì, la campagna, ma con una romantica nobiltà di posa, per non dire poi dell’elegante e quasi moderno abbigliamento, sempre conservando lo sfondo bucolico.

Note:
[1] Salvatore G. Vicario, Arte a Galati Mamertino nel XVI e XVII secolo, Roma 1973; Id., Un paese in montagna, 1° ed., Roma 1973; 2° ed., Mentana 1981; 3° ed., Sant’Agata di Militello 2002; Id., Galati Mamertino, Mentana 1981.
[2] Giangiacomo Martines, Galati Mamertino, “Storia dell’arte italiana”, Einaudi ed.
[3] Dal 1° settembre 2016 il Museo delle Arti e Tradizioni Popolari è entrato a far parte del Museo delle Civiltà, istituito dall'art. 6 del D.M. 23 gennaio 2016 n. 44. In un complesso piano di riforma e riassetto delle strutture del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo l'istituzione del Museo delle Civiltà, sotto la Direzione Generale Musei, ha permesso di raggruppare in un unico organismo il Museo Preistorico Etnografico "Luigi Pigorini", il Museo delle Arti e Tradizioni Popolari, il Museo dell'Alto Medioevo e il Museo d'Arte Orientale "Giuseppe Tucci". L'istituzione di questo importante luogo della cultura consentirà di gestire, valorizzare e promuovere in modo unificato e innovativo collezioni archeologiche ed etnografiche uniche in Italia.
[4] Silvio Negro, Nuovo album romano, fotografie di un secolo, Neri Pozzi ed., Arzignano (VI) 1964, p. 7.
[5] Id., cit., p. 10.
[6] Luigi Canina, architetto (Casale Monferrato 1795 – Firenze 1856), fu allievo a Torino di Ferdinando Bonsignore (Id., cit., foto 24).
[7] W. Settimelli, catalogo della mostra Giovanni Verga fotografo organizzata con G. Garra Agosta, Milano, Centro informazioni 3M, 1970.
[8] A. Nemiz, Capuana, Verga, De Roberto fotografi, con prefazione di Leonardo Sciascia, Palermo 1982.
[9] Vicario, Galati Mamertino nel Parco dei Nebrodi, Sant’Agata Militello 2005, p. 129.