Il mio bacio era una melagrana
profonda e aperta:
la tua bocca era rosa
di carta.
Lo sfondo un campo di neve.

(Federico Garcia Lorca, Madrigale, 1920, Poesie – Libro di Poemas, Suites)

Liliana Moro, classe 1961, è un’artista italiana che certamente non ha bisogno di presentazioni. Diplomata all’Accademia di Belle Arti di Brera con Luciano Fabro, nel 1989 ha fondato insieme ad altri artisti lo Spazio di Via Lazzaro Palazzi a Milano chiuso poi nel 1993, e da sempre utilizza nel suo vocabolario visivo diversi mezzi espressivi: come disegno, installazione, performance, scultura.

In una bella intervista con l'artista Marcello Maloberti, su Flash Art di qualche anno fa, si è parlato di un tema caro anche a Felix González-Torres: "la felicità che scaturisce dall’incontro con gli oggetti, con le cose"; Maloberti ha affermato: “A me sembra quasi che con i tuoi lavori a volte i materiali e gli oggetti siano presi da un abbraccio, io che li guardo sento che raccontano la storia di un’appartenenza, è così?” La Moro ha poi proseguito: “L’incontro che ho con gli oggetti è molto felice, devo dire che è importante anche portare avanti un buon rapporto con le cose. Mi piace tutto il lavoro di costruzione che si mette in atto, la spogliazione, la relazione, forse in questo senso si può parlare di appartenenza”.

Underflow, prima personale bolognese dell’artista, che la galleria De’ Foscherari accoglie nei suoi spazi, è la dimostrazione di quanto anche l’incontro con la natura sia fondamentale per l’artista, di quanto la riduzione all’essenziale non sia una sorte di richiamo ai parametri estetici di una corrente storicizzata come il minimalismo, ma di un sentire proprio dell’artista, un’esigenza.

L’urgenza di mettere in scena, in uno spazio pressoché total white, pochi elementi, pochi protagonisti, ma tutti tramite differenti medium.

Con Underflow si ha la sensazione di una ricchezza plurima raccolta in poche gocce formali, una sintesi colta di un richiamo magistrale e archetipico, quello dell’appartenenza alla terra. È la terra che abbraccia noi? O siamo noi che abbracciamo la terra?

Underflow va accolta come un haiku visivo.

L’unica cosa certa, è che il nostro inquieto e precario fluire è reso come un battito cardiaco tramite l’installazione a pavimento e casse sonore, a ogni nostro movimento, a ogni singolo passo, l’eco del nostro avanzare risuona, come presenza che si manifesta celandosi, come un trucco. È l’osservatore che rende vivo questo scalpitio sotterraneo, questo vociferare di passi che riempie lo spazio espositivo di una presenza attiva.

La potenza del gesto riecheggia anche nella serie di tempere su carta, nelle quali l’artista affronta la forma della melagrana: cinque rotondità imperfette, piccole cime appuntite, aguzze, irregolari troneggiano a interrompere il cerchio della natura, come un’interruzione ciclica. Avvicinandoci scorgiamo il tratto impetuoso, un segno - flusso, forte, deciso a più strati. Un segno di contrasto, puramente bianco quasi a disturbare e irrompere l’immaterialità dell’oscurità scenografica del fondo nero. E anche nelle sculture in creta nera ritroviamo la fragilità potente di quel frutto, poi un foro, un abisso, come se la realtà penetrasse nella rappresentazione. Il vuoto.

E da quel pertugio oltre al nostro sguardo entra costantemente il suono del nostro movimento, del nostro camminare, come a voler suggellare ancora una volta il nostro abbraccio con la madre terra.

Solitaria troneggia, poi, in una teca di vetro, una porzione rettangolare compatta di terriccio di sabbia e acqua di fiume, un elemento naturale, semplice, pulviscolare, diviene qui scultura di un tempo instabile, vulnerabile. In un gesto così semplice, Liliana Moro, esprime la potenza dell’invisibile, del sotterraneo; in tutta l’esposizione la riduzione del segno diviene amplificazione del micro e del macro cosmo. Come l’inspirazione a pieni polmoni.

Liliana Moro, riesce con eleganza a ricongiungerci all’essenza della datità fenomenica naturale, e quasi quasi ci sentiamo come la protagonista della scultura in terracotta Giovanna e la luna del 1995, avvolti, abbracciati dal nostro fluire incessante nella e con la natura.

Ma la melagrana è il sangue,
sangue sacro del cielo,
sangue di terra ferita
dall’ago del torrente.
Sangue del vento che viene
dal rude monte graffiato.
Sangue del mare tranquillo,
sangue del lago dormiente.
La melagrana è la preistoria
del sangue che portiamo,
l’idea di sangue, chiuso
in globuli duri e acidi,
che ha una vaga forma
di cuore e di cranio.

(Federico Garcia Lorca, Ode alla melagrana, Canzone orientale - Cancion oriental,1920) da Libro de poemas, 1921)