Mi sembra che la mia missione sia di funzionare come un sismografo dell’anima sulla linea di fratture delle culture.

(Aby Warburg)

Nel 1928 Aby Warburg tracciò un disegno per dare forma allo Schema di una geografia personale: i tratti marcati, le incertezze rivelate da alcune cancellature, la grafia rapida compongono un piano della rappresentazione che Georges Didi-Huberman definisce ‘anacronico’ perché coniuga il tempo della vicenda personale con quello della storia, restituendo una cartografia culturale che trascende l’individuo [1].

La percezione che Warburg aveva di sé, e del suo impegno di storico dell’arte, come “sismografo dell’anima” vocato a tracciare omologie e traiettorie tra territori culturali fra loro remoti nello spazio e nel tempo, si nutre tanto di una aspirazione sciamanica quanto di quella imprudenza scandalosa e visionaria propria del lavoro dell’artista, capace di costeggiare l’indicibile e l’impensabile, e mantenerlo tale anche nella sua traduzione in dicibile e pensabile (sempre parziale e allegorico), e cioè la conversione che descrive il processo dell’arte.

Questo camminare lungo il limite si dispiega nelle carte di Simone Pellegrini dove immagini, segni e simboli si addensano in una processione mitologica che raduna archetipi tratti da una antichità non collocabile in modo preciso nella storia (anche se lo sguardo suggerisce il Medio Evo più misterioso dei bassorilievi romanici, in cui si intrecciano ascendenze mediorientali e pagane, e può richiamare la miniatura Moghul, o anche la scultura dei Maya); ognuno dei personaggi, ogni forma sembra in procinto di scoprirsi ma rimane ferma sulla soglia della propria rivelazione non pronunciata. Le figure appaiono avvinte per sempre alla loro condizione di elementi caduti nella sfera del percepibile, e raccontano l’incidente che le rende visibili ma non del tutto conoscibili. In questo scenario sospeso nulla si compie: parusie e catastrofi, migrazioni di corpi e metamorfosi sono i lemmi di un codice che non si esplicita ma richiede un’azione interpretativa.

Come al cospetto di ogni codice nasce anche qui l’interrogativo su quali siano le sfere a cui permette di accedere, quali i mondi che mette in connessione e in che modo questo codice, reso penetrabile, decodificato, possa essere utilizzato. Per il lavoro di Pellegrini si può individuare una risposta (una possibile, tra le molte che la libertà dell’arte detiene nel suo primato di non univocità) nel costrutto della forma, vale a dire in quello che possiamo definire come il continuo scioglimento dell’idea dell’artista nella figurazione: un orizzonte che contiene l’icona, nel suo originario significato di immagine, e la colloca nella rete di legami culturali ed emotivi presenti all’autore e da lui intenzionalmente introdotti nell’opera (o a volte, come si vedrà, emersi quasi autonomamente, in forza di una vitalità propria e nascostamente ramificata di cui le immagini sono provviste).

L’iconografia di Simone Pellegrini contiene un catalogo di riferimenti a diversi ambiti della spiritualità, ma la sintassi che istruisce la composizione è del tutto laica e tende enunciare la corporeità delle cose e non la loro idealità. È infatti il corpo il soggetto di tutte le opere, moltiplicato e smembrato, rarefatto nel contorno di un simbolo e riportato alla sua natura di materia morbida e di umori. La corrispondenza delle regioni del corpo umano con quelle dell’universo, investite di un significato invisibile che enuncia se stesso nel dominio del visibile, appartiene alle civiltà dell’umanità, dalle più antiche pratiche divinatorie alla tradizione cristiana che della fisicità mortale di un dio ha fatto un indispensabile strumento per l’immortalità (chiamando l’uomo a esserne la rappresentazione e trasferendolo addirittura nella morfologia dei propri luoghi di culto).

Le espressioni dell’arte contemporanea hanno mutuato in innumerevoli declinazioni questa reciprocità tra il celeste e il terreno, spogliandola ogni volta di trascendenza e riportandola all’esperienza della vita. Pellegrini compie questo discorso inverso raffinando i termini di una ricerca estetica che è difficilmente inquadrabile nell’universo del contemporaneo, se non utilizzando i metodi della similarità formale che lo accostano al sincretismo delle anatomie di Chen Zen, o rivolgendosi al senso per le simbologie ancestrali di artiste statunitensi come Nancy Spero, Mary Beth Edelson e altre ancora, mentre in Italia il solo possibile, quanto ardito, riferimento è ai personaggi organici e sensuali dipinti da Carol Rama.

È infatti eminentemente organica la forma visibile di questa relazione messa in opera da Pellegrini, e coerentemente antropocentrica. E anche se non cerca un pubblico, non comunica, insomma, come i cicli medioevali con una comunità precisa che ne condivida il linguaggio né, tanto meno, si rivolge alla collettività astratta che popola il sistema dell’arte in nome di una adesione a modelli formali riconoscibili con facilità, ha una volontà eloquente fortissima, che parla dall’interno del suo tempo storico ma idealmente lo dilata. Il lavoro di Pellegrini si svolge in una dimensione che solo per la necessità della propria epifania riguarda lo spazio, ma che interessa in modo quasi esclusivo la memoria. Siamo di fronte a un tempo non lineare, fatto di fibre sfilacciate e nodi plurali, lo stesso tempo nel quale si è smarrita e ritrovata l’allucinazione di Warburg, e che ci porta fino al chiarimento di un punto cruciale della ricerca dell’artista.

Quella di Pellegrini è l’opera d’arte come ‘sintomo’, per usare ancora un concetto dell’universo warburghiano: il sintomo del tempo che si manifesta come emersione di una memoria sotterranea, qualcosa che sgorga tortuosamente, in un viaggio di ritorno dalle plaghe del rimosso della storia e disegna una dimensione psichica individuale e collettiva. Più della relazione di ‘sintomo’ con la terminologia freudiana, sembra qui importante riprendere l’etimologia della parola che deriva dal greco, dove ‘σύμπτωμα’ vuol dire ‘avvenimento fortuito’, provenendo dalla forma verbale ‘συμπίπτω’ che si compone ‘di σύν’, ‘con’, e ‘πίπτω’, ‘cadere’: cadere assieme. Il sintomo è una caduta congiunta e accidentale (e non sorprende che in alcune lingue dell’Italia meridionale, che conservano rapporti non mediati con il greco antico, ‘sintomo’ abbia mantenuto anche il significato di ‘incidente’), la caduta di qualcosa che nel suo precipitare manifesta qualcos’altro a esso legato eppure invisibile. Ed è quanto succede alle figure di Simone Pellegrini mentre si depositano dentro i margini dell’opera, quando cadono insieme, letteralmente possiamo dire, da un qualsiasi altrove, e producono un incidente, un incontro non previsto nella logica del tempo.

Testo di Pietro Gaglianò

1 [1] Cfr. Georges Didi-Huberman, L’image survivante. Histoire de l’art et temps des fantômes selon Aby Warburg, Editions de Minuit, Parigi 2002 [trad. it. L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte, Bollati Boringhieri, Torino 2006, pp. 126 e ss.]; il disegno di cui si parla, riprodotto nel volume, è conservato al The Warburg Institute Archive a Londra.