Non aveva ancora diciassette anni quel giovane allampanato che amava gironzolare con sandali, giacca a vento, camicia sportiva e macchina fotografica al collo quando il 12 aprile 1945 fece uno scatto a un edicolante di New York mentre leggeva, occhi bassi e mento appoggiato alla mano, la notizia della morte di Franklin Delano Roosvelt. Uno scatto, venticinque dollari. Glielo comprò Look, magazine di costume e società di New York fondato nel 1936 dal reporter Gardner Cowles, perché se Life era notizie, pubblico ricco e colto, Look doveva diventare reportage e strati sociali più bassi, di quelli che “leggono il New York Daily News”.

Nel 1946, Stanley, newyorkese del Bronx, fu assunto da Look, contribuendo fino al 1950 con i suoi scatti alla realizzazione di molte delle photo-story che in quegli anni affollarono la rivista, stuzzicando la curiosità di lettori interessati più alle immagini che alle parole, e con cui documentò la vita quotidiana dell’America del dopoguerra attraverso i ritratti di gente comune o personaggi famosi come il pugile Rocky Graziano o l’attore Montgomery Clift o ancora raccontando, in particolare, l’anima di New York, cui rimarrà legato anche dopo la partenza per Londra: “Mi piacerebbe catturare su pellicola alcune delle sensazioni che ho riguardo il Bronx e Manhattan. Amo New York o almeno amo la New York che conoscevo un tempo”.

Stanley fotografo e Stanley cineasta s’incontreranno nel 1999 a New York in una scena di Eyes Wide Shut, con Tom Cruise nei panni di Bill Harford mentre davanti a un’edicola legge su un giornale della morte di una donna conosciuta giorni prima. A New York, davanti a un’edicola, dove tutto era nato, nelle strade di una New York ora immaginaria. C’era il Paddy Wagon, a New York, un furgone per il trasporto dei detenuti, quando Stanley faceva il fotografo per Look. Si chiamava Paddy, Patrizio, come il santo irlandese, perché irlandesi erano molti poliziotti di New York e che su Paddy facevano su e giù per la città con il loro carico di sgherri. Paddy, il mito della cronaca nera, che Stanley fotograferà nel 1949 sul set di una trasmissione televisiva sul mondo della polizia.

A New York c’era Paddy e c’era Mickey, un biondino di dodici anni che a Brooklyn lavorava come lustrascarpe. Stanley lo seguirà ovunque, mentre lucida scarpe sui marciapiedi polverosi, fischietta appoggiato a un muro, gioca con gli amici, tira di boxe, studia, va al cinema, trasporta sacchi di indumenti in lavanderia, corre su un prato, scavalca una cancellata o ancora, lassù, fra i tetti di New York, quelli con il suo allevamento di piccioni.

La New York di Stanley, quella degli incontri furtivi sulle scale antincendio, della metropolitana della domenica pomeriggio con le casalinghe grasse e goffe, le donne con nidiate di bambini, la gente distinta con abiti di taglio sartoriale che legge il New York Times, i passeggeri che dormono sulle panche di legno, i due giovani amanti con lei, frangetta alla francese e labbra da rossetto, che trasuda desiderio. La New York della sala d’attesa di un dentista, con i pazienti che ingannano il tempo, tip, tap, tip, tap, giocherellando con le mani, con i piedi o sfogliando riviste. La New York di Rocky Graziano, lui che ora tirava di boxe per non sferrare pugni in risse. Rocky è un bravo ragazzo, ora, titolò quella volta Look. Guardatelo, adesso, con la figlia Roxie sul seggiolino, durante le visite, i massaggi, mentre parla con il suo allenatore o si fa ritrarre, nudo per voi, sotto la doccia. Rocky Graziano, e il peso medio Walter Cartier, che nella primavera del 1950, sul ring, farà assaggiare i guantoni a Bobby James.

E jazz, perché New York era anche musica e lo sapeva bene, Stanley, lui che faceva il percussionista nell’orchestra della Taft School, tanto da farsi fotografare, lui che nel 1950 s’era avventurato con la macchina fotografica per jazz club, mentre suona la batteria per strada. La New York di Stanley, quella frivola degli avventori delle case d’asta e della Columbia University, che sin dal 1939 aveva ospitato il Progetto Uranio, primo passo verso la bomba atomica e dove nel 1948 realizzerà un lungo servizio perdendosi fra cavie di laboratorio, scienziati con tubi luminosi in mano o ai piedi di un grande ciclotrone. La Columbia University, e l’università del Michigan, quella delle giovani studentesse che, sciantose, fumano sigarette fra i libri di una biblioteca o mentre amoreggiano fra poltrone e divanetti.

E il circo con il suo universo di pagliacci, giocolieri, animali in gabbia, domatori, gli orfani di Mooseheart, il viaggio in Portogallo di due turisti americani, il mondo delle starlette, come la carnale Rosemary Williams, sempre circondata da abiti da indossare e che Stanley fotograferà nel camerino durante il make-up, concedendosi un autoritratto allo specchio. E l’irrequietezza di Montgomery Clift, bello e dannato, che si farà ritrarre in boxer e T-shirt, bottiglia in mano, sdraiato sul pavimento, e l’alta società di Betsy von Fürstenberg, il nasino alla francese del jet set, ritratta fra saloni, abiti eleganti, cavalieri impomatati di brillantina o mentre zampetta, ginnasta frou frou, con le amiche su un muretto o posa, sensuale, su un davanzale con un copione in mano.

È il mondo di Stanley Kubrick, giovane fotografo di Look, in esposizione fino al 25 agosto nel Palazzo Ducale di Genova grazie a una mostra, curata da Michel Draguet, organizzata in collaborazione con il Museum of the City of New York, dove si conservano oltre ventimila negativi originali degli scatti realizzati per Look dal futuro regista. In esposizione centosessanta fotografie tirate con stampa al bromuro d’argento dai negativi originali della Look Magazine Collection, donata negli anni Cinquanta al museo dai proprietari della rivista. Ma a New York, dove si conservano gli archivi di grandi fotografi come Jacob Riis e Berenice Abbott, con quelli di Kubrick ci sono anche gli scatti di Lewis Hine, Aaron Siskind, Edward Steichen, Alfred Stieglitz, tutti dentro il grande archivio sulla storia di New York, città dell’anima, che Kubrick non avrebbe mai dimenticato.