Questo piccolo dipinto, circolare, che raffigura semplicemente un albero, va visto quale opera autonoma, e come tale apprezzato, senza ridurlo a mero bozzetto del successivo Idillio Primaverile, anche se tecnicamente e storicamente può essere così considerato. Opera autonoma però perché nell’Albero di Giuseppe Pellizza da Volpedo abbiamo tutta una concezione della pittura, tutti i valori del Divisionismo, tutta la sua profondità di grande artista.

In pochi centimetri di pittura abbiamo già una visione pittorica immensa, universale, mozzafiato. Il ritmo è scandito da tre alberi scuri, spogli, colti controluce, tra i quali quello di mezzo domina la scena, la scandisce. Sono tutti e tre non a caso inclinati, obliqui. I tre alberi sono come linee ottiche del cono visivo, oculare, che si incontrano fuori e prima del dipinto. Gli appennini sembrano più alti, come se la visuale si ponesse rasoterra. La scena è tagliata dallo stacco tra il prato e il fondo scuro collinare. L’albero centrale vibra, sembra inquieto, lungo di esso corrono correnti energetiche. L’ombra dei rami contorti sembra riflettersi su un prato acqueo, marino, che perde la sua materialità per farsi campo di luce, di possibilità aperte. Come il campanile della Chiesa perde materialità nell’aria. Volpedo vista in una lente vitrea spessa? Il dipinto influenzato dagli studi di ottica tipici del Divisionismo?

Può essere, ma qui ci interessa cosa il dipinto può suggerire oggi, non congetture sulla sua genesi, spesso mai provabili. L’arte nasce quando si distacca del suo autore e inizia a vivere nella mente di chi guarda. Se i tre alberi storti si fondono con le linee implicite dello sguardo (curvi perché il mondo è un globo? perché l’occhio è un globo?) un movimento complementare, consapevolmente programmato e pensato, è dato dagli altri alberi, esili, rarefatti che appena si differenziano dal fondo scuro e privo di profondità del lato in ombra delle colline. Il sole sta tramontando, lo rivela l’ombra in primo piano e la luce oltre la posizione delle colline della Val Curone, che corrono verso la Liguria e intersecano la linea est-ovest. Ma non importa. La visione è assoluta, non c’è variazione, quindi non c’è tempo in senso fisico.

L’anima della scena sono i rami contorti dell’Albero. Ellissi spezzate, ritornanti, incessanti. Come pensieri aggrovigliati, indomiti, confusi, inquieti, che lottano con se stessi. Come radici avide, ma aeree. Il contrasto cromatico le drammatizza, mentre nel loro riflesso umbratile sembrano altra cosa; una trama, un tessuto, un delta acqueo. Qui emerge quasi inconsciamente quello che Roberto Calasso, evincendolo dalle strutture relazionali del Mito greco, definisce la trama fatale dell’esistere, la rete del mondo, che è il mondo. Ma l’unità e la vitalità della visione è garantita, resta solida, resistente, impermeabile. Questo è dato e confermato da due fattori di forza. La circolarità del dipinto, del suo sguardo pittorico. E la struttura duplice, reversibile dell’Albero, che vibra e irradia energia in due direzioni verso l’alto e dall’alto, più potentemente, e verso il basso e dal basso, più dolcemente. Non ci sono altre direzioni o ritmi. Tutto il resto è fermo per la luce e i tagli delle tre fasce cromatiche del dipinto. L’equilibrio della composizione, fatta di più incroci, centralizzanti, splende totale. L’Albero è una clessidra, motore e polo del mondo. Come un campo magnetico, come un serbatoio di energia che nel suo periodico capovolgimento ciclicamente sostiene l’organismo del cosmo. Un dipinto di sguardo, di polarità, di presenze. Allusivo, quasi metafisico. Il mondo intero in un colpo d’occhio. Il cosmo in uno sguardo. L’occhio del mondo.

Analoga universale semplicità, che fa dell’imago una forma universalizzante, inclusiva, unificante gli aspetti noetici con quelli percettivi in una sorta di “rigenerazione archetipale” la troviamo nel bellissimo nuovo acquisto della Pinacoteca “Il Divisionismo” di Tortona: Il Ponte. Un’opera di notevoli dimensioni. Possiamo considerarla “un classico” del divisionismo e un’opera esemplare, emblematica per l’anima classica e razionale, aristotelica possiamo dire, propria di tutto il Divisionismo, e di Pelizza in particolare. Si intende sostenere che quest’opera manifesta una grande attenzione compositiva e strutturale tale da dimostrare come il Divisionismo sia una corrente artistica debitrice della cultura scientifica e della cultura artistica delle Accademie.

È proprio grazie a questo occhio razionale, attento ai bilanciamenti della composizione pittorica, mirante a valori di equilibrio compositivo, che l’intuizione ideativa dell’opera si eleva a un valore metaforico intenso e ampio, carico di valori etici, di suggestioni ideali. Come non vedere in questo ponte una chiara immagine dell’intera esistenza? La sua presenza traspare carica di vita. È l’effetto psicoagogico del Divisionismo, che vibra di differenti colori giustapposti, dinamicizzando dall’interno la percezione, ma si tratta pure della grande saggezza pellizziana nella strutturazione della scena narrativa.

Ancora troviamo, come in Albero, e in molte altre sue opere, la strategia degli incroci, delle inversioni, delle dialettiche interne all’opera. Il Ponte taglia l’opera in due parti: luminosa la prima e in ombra la seconda. Il controluce tanto amato dal pittore. Il torrente, della sua terra, incrocia il Ponte e le sue anse appaiono riecheggiate, al contrario, dalla grande nuvola ellittica che appare sulla sinistra della scena. Il personaggio principale si abbevera, steso orizzontalmente sul greto del torrente. Ombra nell’ombra. Come un animale assetato. Povero nella povertà della natura. Serve il fiume. Non si distolgono le energie percettive, tutte magnetizzate dal Ponte. Qui non vien declinato il tema del tempo, così connesso alle acque, perché lo scorrere del torrente si pone assialmente e non specularmente, come nello Specchio della vita.

Ma anche questo dipinto è, come quasi tutta la pittura pellizziana, una riflessione speculativa sui fondamentali dell’esistenza. A suo modo uno “specchio” della vita, senza soluzioni di continuità tra vita umana e vita naturale. La vita come incontro, come transito, come un abbeverarsi. Il ponte quale categoria kantiana del pensiero. Una manifestazione del fiume, non una sua contraddizione, non un suo addomesticamento. Piuttosto un addomesticamento dell’uomo, troppo debole per reggere da solo la natura, senza un ponte che faccia da simbolico segnale, ricovero, sosta. Una pittura di presenza, di poetica testimonianza, di ritorno alla ragione, alla meditazione filosofica sulla natura.