Una biennale riuscita e piacente, accogliente e accessibile al grande pubblico; grandi richiami ad artisti e opere del secolo scorso, tra le quali l'elogio a Carl Gustav Jung, colonizzatore della sala principale del Padiglione Centrale con il suo immaginifico Libro Rosso.

Il tema della 55esima esposizione, Palazzo Enciclopedico, richiama il grande progetto rimasto inconcluso dell'artista Marino Auriti: "Il 16 novembre 1955 l’artista auto-didatta italo-americano depositava presso l’ufficio brevetti statunitense i progetti per il suo Palazzo Enciclopedico, un museo immaginario che avrebbe dovuto ospitare tutto il sapere dell’umanità, collezionando le più grandi scoperte del genere umano, dalla ruota al satellite.

L’impresa di Auriti rimase naturalmente incompiuta, ma il sogno di una conoscenza universale e totalizzante attraversa la storia dell’arte e dell’umanità e accomuna personaggi eccentrici come Auriti a molti artisti, scrittori, scienziati e profeti che hanno cercato – spesso invano – di costruire un’immagine del mondo capace di sintetizzarne l’infinita varietà e ricchezza.

Queste cosmologie personali, questi deliri di conoscenza mettono in scena la sfida costante di conciliare il sé con l’universo, il soggettivo con il collettivo, il particolare con il generale, l’individuo con la cultura del suo tempo. Oggi, alle prese con il diluvio dell’informazione, questi tentativi di strutturare la conoscenza in sistemi omnicomprensivi ci appaiono ancora più necessari e ancor più disperati. La 55esima Esposizione Internazionale d’Arte indaga queste fughe dell’immaginazione in una mostra che – come il Palazzo Enciclopedico di Auriti – combina opere d’arte contemporanea, reperti storici, oggetti trovati e artefatti" , afferma Massimiliano Gioni, curatore di questa edizione della Biennale.

E difatti appare palese come nella selezione degli artisti del padiglione centrale sia stata concessa predominante importanza al tema della trascendenza: simbologie esoteriche e astrologiche, mandala, trasfigurazioni oniriche e surreali, evidenti richiami alla psicanalisi e all'altrove. L'essere umano indaga lo scibile universale recuperando spiritualità e sensibilità ormai dissolte; il suo sguardo egoico si traduce in una duplice riflessione, talvolta incentrata sul rapporto del singolo artista con il misticismo, talvolta declinata attraverso dinamiche antropologiche collettive. Il carattere seriale di svariate opere presenti nel padiglione traduce formalmente la ritualità: la reiterazione assume i toni della ricerca del sacro.

L'unico difetto di questa affascinante costellazione risiede nella sua infallibilità: Gioni non rischia e non solo punta su tematiche collaudate seppur sempre accattivanti ma tende a schierare opere di artisti in prevalenza arcinoti (e in gran numero scomparsi). La situazione cambia per i padiglioni nazionali, in grado di vantare un'integrità e una coerenza rispettabili e capaci di confrontarsi con la contemporaneità.

Il padiglione Israeliano, per via della compiutezza dei parametri appena citati, si staglia nettamente sul panorama dei paesi in mostra. Gilad Ratman colma l’intero spazio con la sua installazione multimediale site-specific, The workshop: un’opera totale, integra e solida nella sua compiuta pretesa narrativa, quasi ipertestuale. All’ingresso del padiglione, protetto dall’esterno mediante vetri specchiati, vi è un buco sul pavimento, affiancato da mixer e campionatori. Nella penombra si procede verso una scala posta sulla sinistra, tra pietre e rocce che sembrano provenire dal cratere, urla impazzite, suoni gutturali, lamenti, riverberi di mantra. Una comunità di teste deformi scolpite a tuttotondo in argille dalle tonalità differenti, disposte su dei trespoli accentrati, giace ai piedi della scala: dai crani, dalle orbite, dagli occhi o dai colli fuoriescono microfoni.

S’intravede il primo video in cui un gruppo di uomini e donne intraprende un viaggio sotterraneo che dal Medioriente li condurrà a Venezia, fino a fuoriuscire dal buco di qualche istante fa. La doppia proiezione seguente mostra l’inizio dell’esperimento, in cui ciascun membro, una volta raggiunto il padiglione, modella il proprio autoritratto in argilla, chi con elegante cura, chi con ruvida aggressività. La gestualità scultorea viene sostituita dalla modulazione vocale e si tramuta in essa nel momento in cui, una volta concluso il proprio autoritratto, questo viene trafitto da un microfono, con il quale ogni performer inizia a interagire, con grida, versi quasi rituali, nenie. Ciascuno sembra concedere alla rappresentazione del proprio io una connotazione ancestrale, primitiva, affrontando il volto dell’opera e dunque se stessi non solo vocalmente ma con l’interezza delle pulsioni espressive, fisiche, mimiche. The workshop risulta dunque un’opera complessa, un’odissea formale che si confronta con una pluralità di tematiche: dal viaggio, all’abbattimento delle frontiere, passando per il gesto performativo come rituale liberatorio dell’animalità umana.

Se il padiglione Israeliano riesce così magistralmente a trovare un equilibrio armonico e formale capace di aprirsi all’universalità, altri rimangono maggiormente concentrati all’interno della propria identità culturale, maturando tuttavia delle riflessioni fortemente contemporanee, in virtù delle modalità espressive. Primi tra questi la Finlandia e il padiglione nordico in cui viene proposto l’allestimento di Falling Trees, molteplicità di riflessioni sul rapporto arte-natura. Artisti estremi tra cui Antti Laitinen propongono opere come Forest Square o Lake Deconstruction, fortemente legate, concettualmente e materialmente, al territorio d’origine: rispettivamente protagonisti delle opere sopracitate circa 5.000 kg di tronchi di legna prelevati da una foresta e riassemblati dall’artista in un patchwork previa minuziosa lavorazione dei materiali, e una serie di mattoni ricavati da una superficie lacustre ghiacciata, con i quali Antti Laitinen realizza un cubo.

L’opera Dialogue di Terike Haapoja, realizzata con la collaborazione di Kristiina Ljokkoi e dell’ingegnere Aleksi Pihkanen, traduce invece l’interazione dell’uomo con l’ambiente attraverso un’ installazione molto particolare: un sensore capta la CO2 prodotta dal respiro umano avviando così il processo della fotosintesi negli alberi presenti all’interno del padiglione: il fenomeno silente si manifesta attraverso suoni e luci dando vita a un dialogo superiore tra Uomo e Natura.

La visita ai Giardini propone dunque una molteplicità di stimoli molto differenti tra loro; al contempo, in virtù della fruizione itinerante, è possibile generare un dialogo immaginario tra di essi senza tradirne le singole identità: ogni padiglione sembra essere in grado di contenere e preservare al suo interno una solida coerenza anche in virtù del ristretto numero di artisti proposti. La caratterizzazione architettonica delle singole strutture rifinisce e consacra il percorso condotto all’interno, e scandisce quello personale di ciascun visitatore. Tra i singoli padiglioni, più che all’interno di quello centrale, si avverte finalmente la fausta contemporaneità: dei linguaggi, delle riflessioni, degli approcci.