Tra il 1925 e il 1934, l'americano Alfred Stieglitz realizza una serie di oltre 350 fotografie di nuvole che intitola Equivalents, immagini che vengono date come sinonimi, equivalenti appunto, dei suoi sentimenti e dei suoi pensieri. Pienamente consapevole dell'atto fondativo – centrale per l’avanguardia americana – di tale esperienza radicale di soggettività, Stieglitz vede in queste immagini il manifesto di un’astrazione raggiunta tramite il medium fotografico di cui difenderà il valore artistico per tutta la vita.

Dotato di una fotocamera Graflex, Stieglitz si libera di qualunque punto di riferimento spaziale: senza linea d’orizzonte, senza scala né orientamento, il fotografo sceglie il cielo come espressione assoluta del suo mondo interiore.

Attraverso le opere di dieci artisti di diverse generazioni e provenienti da esperienze ben differenti, con cautela abbiamo cercato di rintracciare delle possibili analogie, facendo della verticalità un punto di partenza per raggiungere qualcosa di inarrivabile, sempre fuori portata.

La fotografia è forse il mezzo che più di tutti si trova in tensione con le problematiche del tempo e della storia, donde la sua ossessione di evadere verso l’astrazione. Il fotografo giapponese Sugimoto, facendo mostra di una grande padronanza tecnica, sceglie un tempo di esposizione molto lungo e lavora esclusivamente in bianco e nero, presentando così il Duomo di Siena, capolavoro del XIII secolo, che si innalza verso il cielo, scolpito nella notte da diverse sfumature di silenzioso grigio. Monastico nella sua austerità, tanto da apparire irreale, lo scatto dell'edificio romanico è infine un’indagine di Sugimoto sulla precisione del mezzo fotografico, sul tempo catturato da una precisa incursione.

Kiki Smith, anche lei ispirata dal buio notturno, dopo un viaggio ad Alba idea una costellazione di nove stelle di bronzo con sottili steli metallici per appuntarle su di una parete, come si potrebbe fare con una collezione di insetti o di farfalle. L'artista lavora il bronzo conferendogli una patina, un colore un po’ sbiadito e malinconico. Intitolata Expectation, quest’opera è un'ode pagana alla nostra attesa ammirando le stelle, luci che sappiamo potenzialmente ormai spente.

Intrappolando schegge di luce in un vecchio armadio, Sislej Xhafa pare voler custodire, mettere sotto chiave, un segreto. Fireworks in my Closet è metafora di una violenza gioiosa pronta a scoppiare attraverso le porte lacerate dai colpi d’ascia. Un sentimento incontenibile, costretto però nei confini dell'ordine stabilito. Xhafa, eterno immigrato, ha a lungo interrogato il continuo peregrinare degli uomini attraverso un linguaggio intriso d’ironia.

Chen Zhen ha ugualmente sperimentato la condizione di uomo in perenne transizione. L'Attraction / L’illusion è composta da una macchina da scrivere e da vecchi giornali disposti in un contenitore di vetro su cui è proiettata una diapositiva. Accanto a questo possiamo scrivere, con un gesto fugacem, una parola sulla sabbia. Il flusso di informazioni planetarie e il materialismo della società dei consumi si oppongono alla spiritualità dell'uomo, ma questa relazione è in realtà tanto fluida quanto conflittuale. La spiritualità, essenziale nel lavoro di Chen Zhen, veniva inizialmente manifestata attraverso la pratica pittorica, prima che l'artista l’abbandonasse per l'oggetto e l'installazione. La filosofia cinese si concentra molto più sulla dinamicità dell’intelletto che non sulla presunta autorità di tesi basate su una singola teoria. Per Chen Zhen, ogni oggetto è un simbolo, e ogni stato è uno stato transitorio: “In Cina, eravamo soliti dire che ci sono due modi per ampliare la propria visione: salire sulla cima della montagna per vedere il resto del mondo, oppure allontanarsi dalla montagna per scoprirla nella sua interezza. La chiave è rimanere in movimento per vedere meglio.”

Object è il titolo di un video di Kan Xuan: una successione di fotogrammi mostra gocce di latte o di caffè, una mela, delle zollette di zucchero o una moneta cadere nell'acqua. Una voce fuori campo sussurra il colore dell'oggetto che si sta dissolvendo o risalendo in superficie, ma essendo immersi in un film in bianco e nero, i colori non possono che essere una sfumatura tra il nero e il bianco, che passa attraverso il grigio (secondo l’artista, colore dei pomodori). Questo lavoro ci mette quindi in guardia contro la nostra visione completamente alterata. Qual è il vero colore di un oggetto? Il nostro occhio è diventato quello della videocamera? Ci lasciamo immergere, guidati da questo filtro, in un'opera di una disarmante bellezza. We are also weary – “Anche noi siamo stanchi” – è una frase semplice e immediata scritta sul muro come una risposta al nostro sconforto. I Kabakov colgono una certa stanchezza divenuta talmente generalizzata tanto da comprendere le mosche che compongono la frase. Fedele alleata del lavoro di/dei Kabakov sin dagli anni Sessanta, la mosca rappresenta l'insetto sporco associato al sudiciume e allo stesso tempo è simbolo di libertà, in quanto capace di sfuggire agevolmente a un pericolo pur permettendosi di starci molto vicino.

La fotografia Untitled (Border Sky) di Shilpa Gupta è l’opera che, in questa selezione, si avvicina di più alla serie di Stieglitz. Cinque tonalità di cielo indicano, attraverso il loro titolo, delle demarcazioni geografiche: ogni immagine viene infatti scattata da un diverso territorio. L'ideale dello stato-nazione si intreccia e si fonde qui con quello dello stato d’animo ricercato da Stieglitz. Se i confini delimitano anche il cielo, le nuvole obbediscono a queste regole? Un lavoro complementare di Gupta, Untitled (There is No Border Here) - "Senza titolo (Non c'è Nessun Confine Qui)", proclama: “Ho cercato con molta fatica di tagliare il cielo in due. Uno per il mio amante e uno per me. Ma il cielo continuò a muoversi e le nuvole del suo territorio entrarono nel mio. Ho provato a spingerle via con entrambe le mani. Sempre più forte. Ma il cielo continuava a muoversi e le nuvole del mio territorio entravano nel suo. Ho preso un divano e l'ho posizionato al centro. Ma le nuvole continuarono a galleggiarvi sopra. Ho costruito un muro nel mezzo. Ma il cielo ha iniziato ad attraversarlo. Ho scavato una trincea. E poi ha piovuto e il cielo ha creato delle nuvole sopra la trincea. Ho cercato con molta fatica di tagliare...”

Anche Sislej Xhafa tenta di delimitare uno spazio di libertà. Con l’ausilio di un’obsoleta insegna al neon, Xhafa chiama questo territorio “PARADISO” e posiziona nella sua zona d’utopia un tavolo con alcune sedie attorno. Le sedie di plastica e l'ombrellone ricordano le notti d'estate delle classi popolari... Se il cielo di Gupta è indivisibile, che ne è del paradiso?

Contrariamente alle preoccupazioni politiche di Gupta e Xhafa, quelle di José Yaque si concentrano su un registro più materiale. La sua tecnica è strettamente legata al soggetto dei suoi dipinti, alla ricerca del colore e del pigmento. Yaque dissotterra il sotterraneo, rivelando ai nostri occhi un repertorio nascosto di rocce e minerali.

Mescolando i colori con le sue mani direttamente sulla tela, Yaque crea forme materiche regolari e ondulate che ricordano quelle della superficie terrestre. Azufre I e Azufre II rappresentano i cristalli gialli dello zolfo, un minerale vitale ma ambivalente, poiché dotato di un potere distruttivo in quanto costitutivo della polvere da sparo. Avendo scelto un elemento presente sia nella natura che nell'industria, Yaque vi riconosce una dualità vicina alla sua ricerca plastica: dipingendo i diversi strati terrestri, l'artista si sbilancia verso l’astrazione.

Juan Araujo opera per sovrapposizioni. Servendosi dell'appropriazione sia come strumento che come fine, Araujo lavora con archivi di biblioteche, con la pittura, l’architettura, il cinema, cercando di reinterpretare la modernità. Nella serie di opere esposte, Araujo segue l’elaborazione dei Seagram Murals di Rothko: una serie di tele dipinte alla fine degli anni cinquanta dopo i viaggi in Italia, e la corrispondenza con Antonioni, a cui l'artista prende in prestito un’immagine de L’Eclisse. Nel film il regista riserva grande attenzione al colore, all'architettura e alla qualità fotografica. Araujo conta quindi su una moltitudine di influenze che hanno ispirato l’iconica serie di Rothko. Le immagini sono proiettate sulla parete con l’aiuto di una lavagna luminosa, aggiungendo così un nuovo intermediario tra lo spettatore e l'immagine originale, di cui non smetteremo mai di rintracciare i riferimenti.

In tutte queste opere le corrispondenze si delineano attraverso ricerche comuni o tramite affinità più spontanee. Per affrontare un’esistenza la cui direzione ultima è già determinata, gli artisti assemblano le loro opere utilizzando una logica seriale, come l’affermazione di un rituale, il desiderio di una collezione o di un repertorio.

Le fotografie dei cieli scattate da Stieglitz furono un trionfo della soggettività, grazie a cui l’arte e la tecnica divennero due poli dialettici della trasposizione del mondo nel suo equivalente. Allo stesso modo gli artisti collezionano stelle, scavano nella terra, lacerano il legno o costruiscono il loro paradiso, cercando di tradurre i loro stati interiori.

Juan Araujo nasce nel 1971 a Caracas, Venezuela. Vive e lavora a Lisbona, Portogallo ; Chen Zhen nasce nel 1955 a Shanghai, Cina. Muore nel 2000 a Parigi, Francia ; Shilpa Gupta nasce nel 1976 a Mumbai, India. Vive e lavora a Mumbai, India ; Ilya Kabakov nasce nel 1933 a Dnepropetrovsk, Unione Sovietica, Emilia Kabakov nasce nel 1945 a Dnepropetrovsk, Unione Sovietica. Vivono e lavorano a Long Island, Stati Uniti ; Kiki Smith nasce nel 1954 a Norimberga, Germania. Vive e lavora a New York, Stati Uniti ; Hiroshi Sugimoto nasce nel 1948 a Tokyo, Giappone. Vive e lavora a New York, Stati Uniti ; Sislej Xhafa nasce nel 1970 a Peja, Kosova. Vive e lavora a New York, Stati Uniti. Kan Xuan nasce nel 1972 a Xuancheng, Anhui, Cina. Vive e lavora a Pechino, Cina ; José Yaque nasce nel 1985 a Manzanillo, Cuba. Vive e lavora a L'Avana, Cuba.