In occasione, della Via Della Lana e Della Seta, il nuovo itinerario che attraversa l’Appennino collegando la città di Bologna alla città di Prato - un trekking che percorre paesaggi incredibilmente selvaggi e altri fortemente connotati dalla splendida archeologia industriale legata alle lavorazioni tessili - Officina 15 a Castiglione dei Pepoli (tappa intermedia dell’itinerario) ha ospitato due progetti di arte contemporanea di due giovani artisti: Intrecci di Vincenzo Gentile e la performance Potendo Possedere di Agata Torelli.

L’artista Giorgio Morandi sosteneva che “nulla è più astratto del visibile.” Astrarre, ridurre, sottrarre, levare, togliere sono tutti sinonimi e azioni volte a semplificare e a portare all’essenza la forma e anche il colore. L’assenza può divenire presenza solo se scarnificata di orpelli inutili. Non esiste operazione più complessa che semplificare, e su questo assunto potrebbero concordare un altro grande artista come Bruno Munari e lo psicanalista, antropologo e filosofo Carl Gustav Jung.

Sintetizzare significa scegliere e attraversare la materia, manipolarla, conoscerla - mettere in luce la bellezza dell’imprescindibile infinitesimale. Ecco che l’artista Vincenzo Gentile come un alchimista, un mediatore, un agente naturale irrompe nella materia viva degli oggetti, delle cose per indagare la memoria e la pittura.

In Landscape la tela - un tessuto di lino che originariamente apparteneva alla nonna - viene ricontestualizzato per lo spazio virtuale di una pittura ossessiva - ripetuta - avvenuta tramite l’impronta da ossidazione del ferro. La ruggine è il prodotto - la reazione a processi - procedimenti attraverso i quali le materie si incontrano e si intrecciano - scontrandosi. Ma la ruggine è anche tra i primi pigmenti ad essere stati utilizzati dall'uomo, dalla preistoria a oggi, e continua a venire impiegata nella formulazione di colori.

Nella pittura di Gentile è possibile e doveroso rintracciare punti (intrecci) di genesi con il mezzo fotografico, basti pensare che l’ossidazione agisce alla stregua di esperimenti fotografici come i Rayogrammi di Man Ray, gli esperimenti fotosensibili di Luigi Veronesi, o i disegni fotogenici di William Fox Talbot. L’ossidazione come i primi esperimenti di impressione fotografica hanno il pregio della sintesi della forma, e in questa modalità produttiva si riscontrano similitudini anche con le tecniche di calcografia, monotipia o la stampa a ruggine Romagnola che dal ‘700 ad oggi viene ancora praticata in bottega.

Nella pittura di Gentile l’estetica dello scarto è rediviva - lamiere, placche, travetti, tubi e altri pezzi di ferro di vario tipo, provenienti da edifici e magazzini abbandonati, scarti dei cantieri edili, sgomberi di cantine, ritrovamenti casuali spesso inaspettati - questo materiale consunto e eroso produce il pigmento ruggine che disposto nella spazialità della tela assume le peculiarità per tonalità e cromia della pittura tradizionale. La fantasmagoria della forma lascia l’impronta alla stregua di una pennellata che potrebbe derivare da una gestualità lineare e precisa - di respiro antico e originario - come nella pratica zen. Anche nell’arte orientale, linearità, sintesi e riduzione della tridimensionalità a favore di una bidimensionalità sono caratteristiche forti e imprescindibili.

La pittura di Gentile si rifà a una cosmogonia di segni autentici - originari sospesi in una dicotomia interessante tra dato fenomenico naturale e oggetto industriale - una sintesi tra pesantezza (il ferro) e una leggerezza soave (il tessuto). In Landscape siamo assorbiti da un paesaggio che ha origine nel passaggio - nel contatto di più elementi - un tripudio visivo di sottili fasci dalle tonalità ibride rosse - arancioni - marroni - costituisce il profilo di una natura selvaggia - precaria - ancora da scoprire nelle infinite possibilità del reiterare. I tondini in ferro che compaiono in prossimità dello spazio espositivo sottostante la tela, sono lì in contrappunto a dimostrare una fisicità; l’avvenuta trasfigurazione sul tessuto - come un simulacro - una sacra sindone - tra sacro e profano - ne conserva la verginità - la purezza - l’anima tonale - l’appuntamento consumato con la materia.

In una contemporaneità spesso afflitta dal tutto e subito, dall’effimero digitale, dall’inconsistenza immateriale dei dati - Gentile trattiene e conserva la traccia di un accadimento, di un processo, di un intreccio. La memoria si tinge dei colori dell’ossidazione del ferro - e ne deriva un simbolismo prezioso, ma allo stesso tempo povero, naturale. È la dicotomia strutturale e poetica che rende il lavoro di Gentile un’operazione coraggiosa e interessante, dove la pittura può riscoprire i suoi limiti e le sue fragilità ma anche le sue possibilità.

A dilatare la forza della visione, un suono affilato, tagliente e ripetuto rende plastica e scultorea la nostra visione. Ricorda alcune composizioni di musica sperimentale - fino ad arrivare a quelle più note di matrice industrial - (da Iannis Xenakis a Einstürzende Neubauten) - siamo attraversati dalla vertigini, dalle voragini di queste affilate interpretazioni di spazio. Gentile disegna - di-segni, dipinge il tempo con il tempo. Questo paesaggio è uno spazio. È lo spazio della memoria.

“Cos’è disegnare? Come ci si arriva? È l’atto di aprirsi un passaggio attraverso un muro di ferro invisibile che sembra trovarsi tra ciò che si sente e che si può” (Vincent Van Gogh).

Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s’abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.

(Eugenio Montale, I Limoni da Ossi di seppia, 1925)

Un verità ci interroga: cosa possediamo?
Da cosa e da chi siamo posseduti a nostra volta?

L’artista Agata Torelli è da sempre interessata a esplorare il corpo in maniera anticonvenzionale - ma non solo, anche lo spazio - il linguaggio e i limiti di tutti e tre. Nella performance Potendo possedere l’area del giardino di Officina 15 viene totalmente invasa e ramificata da fili rossi. L’intreccio che si ricrea nell’ambiente naturale traduce il potere che deriva dalla costituzione di una trama, di una rete, di un’intersezione resa visibile dal colore del filato, ma onnipresente nella quotidianità della realtà. Una mappatura espansa che sembra indicarci la direzione verso una centralità, come una piramide rovesciata, siamo alla ricerca di una dea, di una via. Tutta la struttura, o meglio la sua tensione, volge e convoglia, si riversa in un unico punto, nel corpo dell’artista, eleggendo la bocca come centro nevralgico.

Ecco che il desiderio utopico di interiorizzare il possesso si rende carne e verbo, parola muta, flusso incostante di energia e materia, ecco l’implodere di un fenomeno da sistema plurimo a scansione intima, personale, univoca. L’artista raccoglie la vastità di uno spazio attraversato dalle relazioni, dagli intrecci, dagli incontri, dagli scontri, e lo fa visceralmente, focalizzando su di sé l’origine e la fine in uno scambio ciclico di collisioni e sospensioni.

Un’antica leggenda cinese parla del filo rosso del destino, dice che gli dei hanno attaccato un filo rosso alla caviglia di ciascuno di noi, collegando tutte le persone le cui vite sono destinate a toccarsi. Il filo può allungarsi, o aggrovigliarsi, ma non si rompe mai.

(Da Touch - serie televisiva 2012-13)