Di gran moda presso la ‘classe dirigente’ venti, venticinque anni fa, l’arte contemporanea italiana è tornata ad essere figlia di un dio minore. Mentre la moda delle mostre blockbuster dilaga - e spesso i musei le ‘inseguono’ sul terreno della spettacolarizzazione... - persino in modalità ‘farlocca’ (vedi il finto ‘esercito di terracotta’), sono sempre i grandi nomi classici del figurativo (Leonardo, Caravaggio, Van Gogh...) a fare la parte dei leoni. Il contemporaneo, in Italia, 'non tira'.

Ovviamente, la riflessione più facile da fare è che l’arte contemporanea “se l’è voluta”; con il suo distaccarsi dal figurativo, con il suo quasi ‘sottrarsi’ alla percezione visiva, nascondendosi nel ‘concettuale’, ha prodotto l’autocastrazione. Che poi qui dalle nostre parti tutto ciò che sa di ‘intellettuale’ - almeno da qualche decennio in qua - puzza di elitario. Già prima dell’affermarsi politico dei ‘populismi’, s’era consolidato un senso comune che gli ha poi fatto da humus.

L’Italia televisiva, 'da bere', che ha sdoganato tette e culi sul tubo catodico - ma solo per scacciarvene la cultura - non poteva che avere in uggia ciò che non è ‘consumabile’ visivamente con facilità, e che anzi richiede un approccio più approfondito. Siamo un paese in cui si legge assai poco, in cui si studia sempre meno. E del resto, non si voleva forse abolire lo studio della storia dell’arte? In Italia! Già solo il fatto che un’idea simile sia stata concepita, e pubblicamente avanzata..., dice tutto.

Scriveva Bukowski che “l’Arte vera non solo non è capita ma viene anche temuta, perché per costruire un futuro migliore deve dichiarare che il presente è brutto”; non che questa affermazione mi trovi del tutto d’accordo, anzi, ma di certo il fatto che l’arte contemporanea sia spesso incompresa non credo si possa attribuire a una sua descrizione negativa del presente. Piuttosto, alla mancanza di adeguati strumenti cognitivi e interpretativi, a una ‘separatezza’ tra il linguaggio dell’artista e quello dell’uomo comune. A cui spesso contribuisce la critica d’arte, che ama indulgere a un linguaggio iperspecialistico, incomprensibile ai più. Contribuendo a una spirale involutiva, perché la cripticità della critica restringe l’audience, e quindi finisce per essere sempre più rivolta a se stessa, alla medesima ‘bolla’ di addetti ai lavori. Manca, in fin dei conti, una ‘educazione alla bellezza’ che sia inclusiva anche dei nuovi linguaggi espressivi, che li metta in connessione con il senso estetico comune, che fornisca gli strumenti culturali per decodificarne i ‘segni’.

Fondamentalmente, la cultura artistica ‘nazionale’ si è formata tra il Rinascimento e il barocco, ed è ferma al più all’Ottocento. È questa la ragione principale per cui l’arte contemporanea rimane, nella percezione comune, una manifestazione ‘intellettuale’, elitaria. L’idea comune di arte è intrinsecamente diversa, tra quella dell’uomo della strada e quella dell’artista (o del critico, del curatore, del collezionista...). La crescente complessità della società, la sua sempre maggiore frammentazione - così come la profonda mutazione che ha investito l’arte, soprattutto nel rapporto artista/committente - hanno via via approfondito il solco tra ciò che la società si aspetta dall’arte (e che è profondamente condizionato da un imprinting culturale ‘figurativo’), e le forme in cui invece viene prodotta dall’artista contemporaneo.

Sarebbe dunque necessario ‘ripensare’ l’arte, ricontestualizzarla. E qui risiede un’altra delle difficoltà peculiari. Un paese in cui si legge poco è un paese in cui si impoverisce il bagaglio individuale di parole. E le parole non sono strumenti per esprimere il pensiero, sono la condizione per poter pensare. Perché non si possono articolare pensieri, senza avere le parole per 'pensarli'.

Dunque (ri)scoprire il senso della bellezza, per (ri)trovarlo anche nell’arte contemporanea, richiede lo si (ri)pensi; alla luce dei nuovi linguaggi, che esprimono la complessità del presente. È paradossale che un paese come l’Italia, che certamente ha nel proprio passato una eccezionale ‘densità’ della produzione artistica, si trovi improvvisamente ‘sconnesso’ dall’arte dell’oggi. Una ‘sconnessione’ che rischia di proiettarsi anche sulla capacità futura di rinnovare questo passato, di continuare ad esserne all’altezza.

Un grande passato che si interrompe, è grande ma sterile. E destinato prima o poi a divenire ‘archeologico’. Sarebbe quindi di fondamentale importanza recuperare la sintonia tra le forme d’arte attuali e il comune senso estetico, tra i linguaggi del contemporaneo e il sentire comune.

Perché ciò accada, sarebbe necessario mettere in campo strumenti pedagogici, culturali e informativi, che tengano insieme il mondo della scuola, quello dell’informazione e della divulgazione, sino a quello della ‘conservazione’ e della ricerca. Dall’asilo al museo, passando per la televisione e i nuovi media. Un mondo disabituato a riconoscere la bellezza è un mondo che si accartoccia su se stesso, che volge lo sguardo al passato - mitizzandolo - perché non sa vedere un futuro.

Abbiamo bisogno di tornare a riconoscerci nell’arte, perché questa prefigura il domani.