“Nessuna cosa si può amare, né odiare, senza piena cognizion di quella”.

Con questo monito Leonardo invitava a rifuggire dal pregiudizio e dall’errore interpretativo attraverso il ricorso a una profonda conoscenza delle cose. Potrebbe sembrare un invito quasi superfluo, il suo, eppure uno degli errori che in maniera più ricorrente si commettono è proprio quello di una superficialità di giudizio che induce a sviluppare una conoscenza parziale e di conseguenza fuorviante delle cose. Nessuno ne è esente.

Un esempio lampante è il cosiddetto ritratto di Ginevra de’ Benci, eseguito da Leonardo da Vinci nel 1474 e oggi conservato presso la National Gallery of Art di Washington. L’identità della dama ritratta sarebbe dedotta in base alla pianta di ginepro raffigurata dietro la sagoma femminile (Ginevra, appunto) e dal fatto che sul retro del dipinto è riportato un cartiglio che richiamerebbe l’emblema di Bernardo Bembo, un diplomatico della Repubblica Serenissima di Venezia con cui Ginevra de’ Benci ebbe una relazione epistolare, e forse amorosa. A rafforzare questa interpretazione vi è anche una nota scritta da Giorgio Vasari che, nel Vite, nel 1568 scrisse “Lionardo ritrasse la Ginevra d’Amerigo Benci cosa bellissima”.

Non è la prima volta che si commette un errore nell’interpretare un dipinto seguendo le indicazioni generiche scritte da Vasari nelle Vite; ricordo che spesso si identifica erroneamente la Gioconda con Lisa Gherardini, moglie di Francesco del Giocondo, seguendo le indicazioni date proprio dal Vasari: “prese Lionardo a fare per Francesco del Giocondo il ritratto di Monna Lisa sua moglie, e quattro anni penatovi lo lasciò imperfetto, la quale opera oggi è appresso il re Francesco di Francia in Fontanableò", dilungandosi poi in una serie di lodi del dipinto piuttosto generiche.

Dopotutto, basterebbe un raffronto tra l’emblema del Bembo e quello raffigurato dietro la tavola di Leonardo per comprendere come questa interpretazione risulti quantomeno ardita. Soprattutto per la fondamentale mancanza del rametto di Ginepro in congiunzione a Ulivo e Palma. In epoca imprecisata, per motivi tuttora ignoti, il dipinto venne tagliato nella parte inferiore di almeno un terzo della sua altezza originaria.

Uno studio oggi conservato presso la Royal Collection al Castello di Windsor, in Inghilterra, lascia presupporre come forse dovettero essere le mani presenti nella tavola prima della riduzione, si dice indotta forse per motivi legati a un deterioramento del dipinto stesso. In effetti, osservando meglio la rappresentazione sul verso del dipinto in una immagine di repertorio, è ben visibile il danno operato dalla riduzione al disegno, ma, con mia grande curiosità, non al dipinto frontale. Questo particolare non di poco conto lascia forse presagire che il danno sia stato arrecato volontariamente, come avremo modo di verificare.

Come molti ormai sapranno, da tempo vado spiegando come tutti i paesaggi inclusi dei dipinti di Leonardo trovino una piena e incontrovertibile corrispondenza nei paesaggi lombardi lariani, dunque mi sono sempre meravigliato del fatto che questo dipinto, forse l’unico nella produzione leonardesca, presentasse un paesaggio completamente diverso dagli altri per estrazione geografica dal Ducato milanese degli Sforza. Un’analisi puntuale del paesaggio stesso, nella cui realizzazione sappiamo che Leonardo metteva molta cura affinché risultasse il più congruo possibile alla realtà, come spiega dettagliatamente nel Trattato sulla Pittura poi composto successivamente alla sua morte dal Melzi, conferma questa mia percezione.

Nel caso di specie ci troviamo infatti a Sassocorvaro, lungo la Valle del fiume Foglia, vicino al confine tra le regioni Marche e Emilia Romagna, in fronte alla quale si trova Mercatale e il lago omonimo, costruito artificialmente negli anni ’50 del secolo scorso. Sassocorvaro è famosa per ospitare la Rocca Ubaldinesca, fatta costruire nel 1475 su progetto del senese Francesco di Giorgio Martini, e divenuta celebre nel dopoguerra grazie all’opera del Soprintendente alle Belle arti di Pesaro e Urbino, Pasquale Rotondi, il quale, nascondendole nella Rocca, salvò 10.000 capolavori rinascimentali che altrimenti sarebbero stati trafugati dai nazisti in fuga verso la Germania.

Sulla destra del dipinto, dunque, si può riconoscere il paesaggio della Valle del Foglia che include Mercatale e i rilievi appenninici in direzione di Lunano, dove nel 1213 San Francesco fece tappa nel suo viaggio verso San Leo. Sulla parte sinistra del dipinto, invece, è presente tra i rovi di ginepro un arco molto importante per la corretta individuazione del luogo rappresentato, e di conseguenza della dama ritratta. Sto parlando dei resti della Porta della Costa, andata distrutta nell’assalto portato alla città dall’esercito dei Montefeltro il 26 agosto 1446. Da questa Porta si può osservare Mercatale e la Valle del Foglia esattamente come vengono dipinte sulla destra dell’opera, con piena corrispondenza anche dei singoli rilievi collinari.

A questo punto, analizzando più a fondo i dettagli della tavola, risulta più semplice ricostruire l’identità della dama ritratta da Leonardo e le circostanze in cui questa committenza è stata fatta. Abbiamo accennato a come il dipinto fosse originariamente più grande di almeno un terzo dell’attuale proporzione, e di come le mani, con ogni probabilità, richiamassero in qualche modo il disegno preparatorio conservato a Windsor. C’è un dipinto di Lorenzo di Credi, artista molto vicino a Leonardo da Vinci in quanto allievo del Verrocchio, che ci aiuta a superare tutte queste presunzioni, contribuendo a dare una lettura più consona alla circostanza cui si fa allusione nell’opera, e cioè un matrimonio.

Dal punto di vista della fisionomia, le due dame presentano le stesse caratteristiche. Questo elemento, però, potrebbe essere stato indotto da un effetto manieristico da parte del di Credi nei riguardi del più talentoso Leonardo. Ma è nella parte posteriore del dipinto che troviamo la risposta definitiva ai nostri interrogativi. Avvalendomi della collaborazione di un caro amico esperto di araldica, Fabio Bianchetti, ho potuto approfondire l’anomalia dell’emblema ritratto sul retro, che risulta caratterizzata nella parte inferiore da una erosione curiosamente geometrica, tanto da richiamare alla mente uno di quegli scudi usati in araldica. Della parte tutt’ora visibile, abbiamo già detto di come non vi sia corrispondenza puntuale con l’emblema di Bernardo Bembo, motivo per cui con fermezza respingo al mittente l’ipotesi che la dama ritratto sia Ginevra de’ Benci.

La Palma e l’Ulivo, invece, lascerebbero pensare più a una Sforza, in questo caso del ramo pesarese. Il rametto di ginepro e il contesto marchigiano della Valle del Foglia ritratto sulla parte frontale del dipinto inducono quindi a propendere per Ginevra Sforza, figlia del Signore di Pesaro Alessandro, fratello di Francesco Sforza, duca di Milano. Dal punto di vista strettamente araldico, però, negli stemmi della famiglia degli Sforza l’Ulivo e la Palma appaiono disgiunti; il fatto che nell’emblema ritratto dietro la tavola siano invece rappresentati congiunti a formare un uroboro suggerisce una circostanza che lo stesso dipinto di Lorenzo di Credi lascia chiaramente intendere dal particolare dell’anello ostentato dalla giovane donna, ovvero un matrimonio.

Ecco allora che l’anomalia relativa alla geometrica abrasione speculare sottostante all’emblema di Ginevra Sforza non è più così immotivata, e lascia presagire la presenza di uno stemma che nel caso di specie è quello del suo sposo, Giovanni II Bentivoglio (detto anche Bencivoglio, da qui l’appellativo Ginevra de’ Benci), che di Leonardo da Vinci era amico fraterno, tanto da essere ritratto con lui almeno un paio di volte da Benozzo Gozzoli (a Firenze, nella Cappella dei Magi, e a San Gimignano, nella chiesa di Sant’Agostino). I due stemmi sembrerebbero addirittura completarsi nella descrizione di quell’uroboro rappresentato dal rametto di Ulivo e dalla foglia di Palma, espressione suprema del matrimonio spirituale, di cui l’anello tenuto in punta di dita da Ginevra è espressione simbolica anche nella gestualità rituale contemporanea. Tra l’altro, va ricordato che Ginevra Sforza di Alessandro era figlia illegittima, e che della madre non si conoscono le generalità.

È curioso annotare che nella direzione dettata dal dipinto, sul lato destro, si trova Piagnano con il suo castello, abitato in quegli anni dal Conte Gianfrancesco Oliva, uomo d’armi legato a Leone Sforza, fratello di Alessandro. Gianfrancesco Oliva nel 1441 sposa la vedova di Leone Sforza, Marsibilia Trinci, e con buona probabilità qui cresce la figlia illegittima di Alessandro, Ginevra, nata nel 1440. Forse è proprio per questo motivo che Leonardo dipinge Ginevra Sforza a Sassocorvaro, con la Valle del Foglia e Piagnaio sullo sfondo: perché è qui che Ginevra crebbe.

A questo punto non escluderei nemmeno il fatto che Marsibilia Trinci fosse la di lei madre. Marsibilia apparteneva alla potente famiglia dei Trinci di Foligno; Alessandro Sforza era figlio di Muzio Attendolo, capostipite della famiglia Sforza, e la madre era Lucia Terzani di Torgiano, luogo non distante da Foligno. Conoscendo le dinamiche “politiche” con cui si formavano i matrimoni e le figliolanze, all’epoca, non escluderei la possibilità che la scelta di far crescere Ginevra con una Trinci (posto che non ne fosse la madre naturale) la troverei abbastanza fondata. Tutto questo contribuirebbe a superare l’unico elemento che di questa attribuzione ancora non trova una collocazione ragionevole, ovvero i due campanili presenti sul margine destro del dipinto.

Si narra che là dove oggi sorge una zona industriale, un tempo vi fosse una fortificazione, detta “barchetto”, ma al momento non mi è dato di trovare le pezze giustificative di una tale ipotesi, che, se confermata, darebbe definitiva conferma a tutto l’impianto sopra descritto. Non escludo però che la conformazione estremamente aguzza dei campanili possa addirittura essere una indicazione della destinazione bolognese della sposa, a cui parrebbe riconducibile anche la fortificazione con colombai che si intravede in colore azzurrognolo, presente a Mercatale ma in una costruzione successiva al periodo in cui il dipinto venne steso. Addirittura la zona è piena zeppa di ginepri, gli stessi che Leonardo rappresenta nell’opera e che forse inficia con una sua impronta. Resta il fatto che tutte le anomalie relative a questa opera assumono una connotazione più logica, supportata da fatti comprovabili, e convergono unanimemente sulla figura di Ginevra Sforza e sul matrimonio che questa ebbe con Giovanni II Bentivoglio nel 1464, dopo esser stata sposata in prime nozze col cugino di lui, Sante, a cui diede due figli.

Per quanto riguarda i motivi che hanno suggerito una censura della tavola, invece, possiamo forse avanzare l’ipotesi che fosse stato lo sfregio di qualcuno che avesse interesse a eliminare dal dipinto celebrativo di queste seconde nozze proprio lo stemma araldico dei Bentivoglio, forse divenuto sconveniente in associazione alla famiglia degli Sforza, oppure sconveniente di per sé, ma chiaramente non lo sapremo mai con certezza. Forse è addirittura plausibile pensare che il mandante di una simile cesura possa esser stato addirittura Papa Giulio II, che nei riguardi del Bentivoglio aveva un astio particolarmente spiccato, tanto da cacciarlo in malo modo da Bologna nel 1506.

Nel 1512, supportato da Luigi XII, Giulio II consegnò la città di Pesaro ai Principi Della Rovere, della sua stessa casata ligure. All’epoca Pesaro ospitava una fornitissima biblioteca, voluta dagli Sforza e citata anche da Leonardo nel Manoscritto L:
Dì primo d’agosto 1502 … in Pesaro la libreria”.

Unitamente alla biblioteca, il palazzo ducale di Pesaro ospitava anche una importante quadreria, con opere di Perugino, Mantegna e altri, che subì un incendio devastante nel 1514. Possiamo ipotizzare che l’opera subì un danneggiamento durante quell’incendio, che suggerì un rimaneggiamento delle dimensioni dell’opera (che era pur sempre di Leonardo), oppure, volendo pensar male, trovato il dipinto nella fornitissima pinacoteca di Palazzo Ducale, Giulio II decise di sfregiarlo al fine di estromettere la parte relativa al Bentivoglio, dando poi la colpa all’incendio. Poco importa. Ciò che importa è ricollocare il dipinto nella sua corretta dimensione rappresentativa.