La rivisitazione del senso della memoria dei segni è da sempre presente nelle opere di Nicola Maria Spagnoli, dove si addensano retaggi e significati del passato. Non è un caso quindi, che l’artista, nato a San Marco in Lamis in Puglia, dedica alle protostoriche Stele Daunie, il ciclo denominato Dauni.

Il misterioso popolo dei Dauni è vissuto nella Puglia settentrionale essenzialmente tra il IX e il II secolo a.C. e tra i reperti archeologici rinvenuti in epoca moderna spiccano, appunto, le Stele Daunie, lastre funebri antropomorfe oggi conservate nel Museo nazionale di Manfredonia.

Artista colto e percettivo, Spagnoli recepisce rielaborando gli stimoli figurativi e grafici di questi straordinari monumenti archeologici della sua terra, rivisitandoli in chiave squisitamente originale e nuova. Avvalendosi di una sensibilità profonda e attraverso la sua lettura personale, lega straordinariamente il presente al passato, delineando così il continuum narrativo del suo mondo immaginifico che emerge, prepotentemente moderno, dalla antica cultura daunia.

Della Puglia, dove per tutta l’esistenza si è recato anche dopo essersi trasferito a Roma, gli è rimasto il fascino dalla cultura preistorica locale, suscitandogli stimoli per nuove forme espressive, in particolare le Stele Daunie paradigmatiche per la compenetrazione in questa cultura che l’ha enormemente influenzato. Su tele completamente bianche, con una tecnica imitante quella adottata nel Quattro-Cinque-Seicento, ad esempio per il fondo dorato delle icone o dei retabli, l’artista crea in aggetto un motivo, in colore bianco, desunto dalle articolazioni fitomorfe in oro zecchino delle tavole citate. Non solo, ma nell’impianto compositivo si ravvisano altresì riecheggianti intagli dei capitelli e dei peducci esistenti nelle chiese della stessa epoca, ove foglie di vario tipo compaiono in garbati intrecci, spesso una sorta di ramo stilizzato che si impone longitudinalmente sulla tela o innesti speculari in un ritmo circolare, in posizione scalare, non scevro da intendimenti iconologici.

Spagnoli partecipa alla mostra Segni dal silenzio allestita nel Castello di Manfredonia con alcune sue Stele Daunie, per donarle a fine evento al Museo Nazionale di quella città, a fare da intrigante contrappunto agli antichi reperti. Anche nell’altro ciclo denominato Caementa riaffiorano le radici dell’artista, che presenta tele, materiche e cementate, capaci di rievocare e raccontare i miti della sua terra, con la preziosità degli stucchi e il gioco della luce sulla superficie delle modanature architettoniche. Il rapporto tra materia e luce dà quindi luogo a sacrali e misteriosi arabeschi moderni e antichissimi al tempo stesso, ed anche questa è una riappropriazione, in virtù di capacità ed ironia, del suo mondo lontano. Teste senza figure, figure senza teste, totem bianchi, cementi su tela, in sintesi l’affermazione e la negazione contemporaneamente, “itinerario del fascino misterioso ma con un senso di profondo infinito e di smarrimento dell’Io” (M. Laura Celeste).

Le opere di questo ciclo inerpicano sulla tela cemento, essenzialmente bianco, rivitalizzando le tradizioni protostoriche, classiche e metafisiche, rendendo la materia viva, nel suo plasticismo scultoreo ed architettonico, trattandosi quindi di opere “totali” che racchiudono pittura, scultura e architettura. Significativa la magia del bianco che riveste completamente l’opera, con richiamo al concetto dei giapponesi che troppi colori producono confusione per l’occhio e disorientamento per la mente. Per contro, il bianco, nel suo svolgimento plastico, emana sensazioni diverse e gli effetti di tono scuro, in contrasto con il bianco alla luce radente, riconducono all’alfa e all’omega, principio e fine di tutte le cose. Oltre a ciò la stessa circolarità possiede un’analoga simbologia, non disgiunta dal considerare il perpetuarsi del tempo. In contrasto ed in parallelo al bianco i Bitumi, densi e misteriosi, potenti e solenni, concepiti misti a pigmenti e oggettistica tutti ancora da scoprire e indagare, usati sia per questo ciclo che per l’altro dalle macchie bianche.

L’apparente materialità delle opere di Spagnoli non sono inquadrabili soltanto come pittura ma anche contemporaneamente come scultura e architettura emanando spiritualità e senso del sacro. Sono quindi opere “messaggere”, cioè portatrici di cultura e valori. Si tratta di una ricerca nuova ed antica contestualmente, di derivazione architettonica in cui convergono la tradizione tutta italiana del Rinascimento e del Barocco unita ad una sensibilità segnica mistica e orientale. Questo è stato possibile per essere l’artista anche architetto e per possedere una manualità insolita ai nostri tempi, retaggio di maestri del passato.

La grande arte del passato non poteva rassegnarsi ad essere contaminata da Spagnoli che con il ciclo Superfetazioni ha fatto tentativi di inserimento nel contemporaneo. In realtà, oltre ai ricorsi storici più o meno pompieristici, in un recente passato abbiamo avuto il variegato Neomanierismo o la stessa Transavanguardia che ha “citato” anche il passato recente. Con spirito “citazionista” l’artista riesce, però con l’arma dell’ironia e della sdrammatizzazione, ad imporsi.

Dopo aver rappresentato opere d’arte conosciute firmate da grandi artisti del passato o personaggi contemporanei in vesti e pose classiche con particolare riferimento alla pittura fiamminga di Rembrandt e Ferdinand Bol, l’artista pugliese attua la strategia delle superfetazioni. Si tratta di una rivitalizzazione ed attualizzazione dell’arte pittorica all’insegna di una ironia che altri, successivamente, adotteranno ma con in più la riscoperta di una manualità ormai quasi del tutto dimenticata dai contemporanei. Lo scopo è quello di affidare il colto all’incolto, avvicinare all’arte chi non se né mai interessato, curioso dei risultati che sono tra i più svariati ma che, nel contesto, si rivelano esaltanti e provvidenziali.

L’artista ha esposto in luoghi prestigiosi, tra questi: nel 1977 al Museo delle Terme di Diocleziano a Roma; nel 1985 e nel 1995 al Castello cinquecentesco dell’Aquila; nel 1993 al Palazzo ducale Sforza Cesarini di Genzano; nel 1997 e 1998 nella chiesa di San Bernardo a Roma; negli anni Novanta in diversi eventi di ArteRoma al Palazzo dei Congressi e itinerante; nel giugno-luglio 2002 al Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo in Roma con oltre 150 opere e 150.000 visitatori. Tra i critici che hanno scritto di lui: Paolo Portoghesi, Paola Watts, Claudio Strinati, Carlo Giulio Argan, Roberto Luciani, Vittorio Sgarbi, Romani Brizzi, Wally Paris. Sue opere sono in molti musei e istituzioni pubbliche italiane: Complesso del San Michele, Archivio di Stato e Collegio Romano a Roma, Museo Sanna e Pinacoteca nazionale ex Canopoleno a Sassari, Castello dell’Aquila, Castello Federiciano di Manfredonia, vari comuni e chiese. Alcune anche negli Stati Uniti d’America dove più volte si è recato e in Cina.

Nicola esordisce negli anni Sessanta con opere, soprattutto su carta e su supporti di fortuna, in parte recentemente riproposte in pubblicazioni dedicate al periodo coloristico. Negli anni Settanta troviamo le prime mostre personali (Spoleto, Pompei), tuttavia quelle decisamente innovative le abbiamo a Roma con Superfetazioni (1986, Palazzo del Collegio Romano sede del Ministero Beni Culturali) e con il già citato Caementa che dà il via al “Nuovo Barocco Romano”, una corrente artistica ispirata alle linee sinuose del Barocco storico ma fortemente attualizzato e materico e, in concomitanza, il filone musical-concettuale come la performance itinerante al seguito di uno dei primi tour dei teutonici Amon Dull II e le opere dedicate a diversi miti della musica. Importanti esposizioni seguiranno quali From Rembrandt to Disney, Play with Art, Caementa Picta, Pulvis et nihil, Come gli ultimi giorni di Pompei e poi le provocazioni concettuali ma a sfondo sociale di Patrimonio S.p.a e Perle ai porci, D’après il Novecento romano in più luoghi istituzionali fino ad arrivare alla sfida alla temporaneità della natura umana nella sconvolgente Ars longa vita brevis dell’autunno 2007 al MiniMuseo.

L’artista non è quindi riconducibile ad alcuna scuola ma potremmo dire che è riconducibile fra il postmoderno e l’apparente contrasto concettuale, la sua è insomma un’arte ‘camaleontica’ da buon cultore della poliedricità, dell’interscambio fra le espressioni artistiche come della molteplicità comunicativa. Quindi decisamente uno sperimentatore, un ricercatore che si serve della tecnica, di quella degli antichi maestri come di quella che oggi offrono la tecnologia e le altre scienze, che può apparire anche un decoratore così come un provocatore ma avendo come obiettivo sempre l’immagine.

Per questo anche le sue espressioni più recenti, i suoi ‘happening’ e le ‘performance’ come quelle di natura che possiamo definire politica non dobbiamo intenderle ‘sociologicamente’ anche se il suo lavoro a volte si basa soprattutto su fatti di cronaca, i suoi lavori ed eventi hanno sempre un risultato finale estetico nella più classica tradizione dell’arte italiana, la sua è un’arte che ha avuto in pratica corsi e ricorsi storici ma che ha anche, e deve avere, solide radici nel nostro passato, in quello che sappiamo fare di più nel nostro Paese senza diventare “cloni” di mode esterofile com’è avvenuto, a volte, con certa transavanguardia o con la pop-art d’importazione.

Appartenente alla categoria degli artisti-architetti, Spagnoli è da decenni direttore del MiniMuseo di San Marco in Lamis, divenuto nel tempo un centro culturale originale per l’arte e l’architettura contemporanee e non solo, da lui fondato che, da iniziale rilevanza locale, ha avuto un riscontro di pubblico e di critica, anche internazionale, sempre crescente. È fotografo sui generis e progettista surreal-razionalista. Un artista però anche generoso, fra i pochi che non hanno pensato solo a se stessi, essendosi dedicato, per decenni, nel MiniMuseo o come Presidente della Federazione Italiana d’Arte Figurativa, alla scoperta e valorizzazione di altri artisti nonché alla scrittura e alla critica come nelle collaborazioni con le riviste L’isola che non c’era, Emozioni, Raro e Raropiù e in queste ultime ad una particolare “didattica” ovvero a parlare e dibattere di Storia dell’arte e di artisti attraverso l’arte delle copertine di dischi e poster.