David è l’unico impiegato dell’ufficio di comunicazione di Cecilie Hollberg. Quel fusto irripetibile che Michelangelo Buonarroti ha tratto da un sesquipedale blocco di marmo di Carrara sgobba senza sosta per la direttrice della Galleria dell’Accademia di Firenze. “Non illudiamoci, la maggior parte dei visitatori viene per vedere il David. Va bene così: io lo sfrutto. È attraente, non te lo scordi facilmente, e lo faccio lavorare. Lui attira e poi io costringo la gente a scoprire il resto: i fondi oro, gli strumenti musicali, Il Ratto delle Sabine del Giambologna”.

Cecilie Hollberg, tedesca dall’italiano non forestiero, dirige il museo fiorentino dal primo dicembre 2015. Rigorosa e frizzante, sembra amare quadri e sculture come sé stessa.

Che cosa dice dopo tre anni da direttrice dell’Accademia?

Ancora è un’esperienza incredibile perché ogni giorno è pieno di sorprese, di novità, di sfide enormi. Ovviamente non avevo pensato a tutta questa burocrazia, alle procedure che ci strangolano: da mattina a sera produciamo tonnellate di carta nemmeno utilissime. Uno si concentra più sulla parte amministrativa che sui contenuti e questo è triste. Ci sono tante difficoltà e tante soddisfazioni.

Una di queste soddisfazioni?

L’amicizia con l’Accademia di Belle Arti. La Galleria non aveva contatti con loro, eppure siamo suoi figli, a partire dal nome. Mi sono presentata lì e anche agli altri vicini: il Conservatorio Cherubini e l’Opificio delle pietre dure. Ero meravigliata che non ci fosse una specie di “facciamo squadra in questo quadrilatero” e specialmente con l’Accademia. Ora il rapporto c’è, andiamo d’accordissimo, abbiamo dei progetti comuni e, soprattutto, abbiamo deciso di muoverci insieme per la questione degli spazi.

Dopo un incidente diplomatico iniziale, no?

Avevo scritto un comunicato stampa perché nel primo anno del mio incarico c’era stato un incremento dei visitatori del 4,5 % e mi ero detta: se andiamo avanti così la Galleria scoppia, non ci sono gli spazi fisici per i turisti né per il personale. Come direttore di uno dei musei più importanti del mondo devo condividere l’ufficio. Ho pensato: se lancio questa notizia dell’incremento dei visitatori, magari c’è una reazione, qualcuno mi offre qualcosa o mi dice: sì c’è un progetto, una soluzione. Invece non successe niente. Per puro caso ho poi chiamato il direttore dell’Accademia di Belle Arti perché ci sono dei problemi nell’edificio che condividiamo. E mi fa: sì, collega, ma ho letto sul giornale che ci vuole sfrattare. Sfrattare? Io? A parte che non potrei farlo. Le giro il mio comunicato stampa anzi la invito, venga con il presidente e parliamo di questa situazione degli spazi. Da lì è nata una collaborazione e poi proprio un’amicizia. Abbiamo scritto con firma congiunta ai rispettivi ministri. Gli spazi non li abbiamo ancora trovati. L’anno scorso eravamo a un passo dalla soluzione, coinvolti tre ministeri: Beni culturali, Educazione e ricerca e Difesa. Poi è saltato tutto per motivi… Per motivi, punto. Il nostro sogno sarebbe di poter far tornare gli studenti dell’Accademia di Belle Arti in questo museo perché facciano dei disegni, degli schizzi e al momento non è proprio possibile perché ci sono talmente tanti visitatori che non c’è spazio. La gipsoteca per chi disegna è un’ispirazione.

Proseguiamo con le soddisfazioni?

La fondazione degli amici della Galleria. Ero sorpresa che non esistesse e convinta dovesse esserci. Volevo ridare ai fiorentini il loro museo perché io che vengo da fuori vedo che lo conoscono tutti, ma non ne conoscono il nome. Il museo del David, il museo dell’Accademia, lo chiamano, anche all’estero. Nessuno lo collega alle sue collezioni, ed è un problema di identità. I fiorentini ne sono orgogliosi, ma l’hanno visto solo all’epoca della scuola: ci sono le file, è pieno di turisti. Ho pensato: che tristezza! Perché a Firenze non c’è niente di più fiorentino di questa galleria. Non volevo più che il museo fosse una specie di nave spaziale parcheggiata nella città e assalita da extraterrestri, ma che il fiorentino che passeggia qui ed è amico del museo, con la sua tessera, possa entrare, che diventi ambasciatore della sua cultura, che esca da qui fiero e contento, che si dica: questo è stupendo ed è mio.

Come fa?

Organizzo cose non banali, ma semplici. Per esempio un incontro di 40 minuti: dieci in gipsoteca, dieci di didattica, dieci strumenti musicali, dieci fondo oro. I visitatori uscivano come trasformati. La collezione di strumenti musicali è unica, appartiene al Cherubini, noi la custodiamo e curiamo, gli esperti la conoscono, gli altri no. Gli strumenti hanno fatto più colpo del David. Non deve essere sempre il super evento da cinque milioni per il buffet. Le cene comunque le ho abolite perché l’arte è arte e non si deve mangiare sotto al David.

Per esempio il ciclo Voci fiorentine, mezz’ora durante le aperture serali estive. Avevo invitato personaggi diversi: l’abate di San Miniato, il direttore del conservatorio, Montanari, Carlo Sisi, ognuno sceglieva un’opera che voleva spiegare, escluso il David. Era uno spot sulle aperture serali, per quelli che dicono c’è fila… D’estate puoi entrare anche la sera alle dieci. Anche ora è un’ottima stagione per scoprire il museo, ora le file non ci sono, fino a febbraio. Alla fine avevamo cento fiorentini che volevano partecipare agli appuntamenti successivi. Dal 22 gennaio saranno esposte le nuove acquisizioni, una dozzina di opere. E l’11 marzo l’ultimo incontro della serie Recenti restauri. Insomma non c’è una soglia invarcabile. Quando vado a Berlino se ho solo quindici minuti, anche dieci, anche cinque vado al Pergamon. Entri, respiri, vedi un dettaglio. Non entrare è un’occasione persa. Forse l’Italia è troppo fortunata. Un fiorentino è nato nel Rinascimento quindi la mattina si sveglia e va a sbattere con il naso contro i palazzi, anche se non vuole, il romano si trova la colonna antica sempre fra i piedi, che lo infastidisce, se vuole posteggiare.

In effetti.

Questo è un museo vivo che fa delle offerte per avvicinare. Ci sono stati assegnati due fondi oro e mi sembrava giusto far sapere il lavoro del nucleo dei carabinieri perché non in tutti i casi si riesce a confiscare le opere e poi portarle proprio nei musei statali: è stata una fantastica operazione completa che sfrutto qui nella galleria per valorizzare la nostra collezione di fondi oro che è la più importante del mondo, cosa che tantissimi non sanno. Cerco sempre, insomma, di fare una cosa rotonda. L’arte deve essere commestibile, con spiegazioni comprensibili. Io vorrei attrarre colui che non ne sa niente. Il mio compito è anche quello di aprire delle porticine dalle quali entra luce. Questi approcci funzionano e ogni volta tutti rimangono a bocca aperta, soprattutto chi non conosceva le nostre collezioni. Persone di cultura, eh. Non giudico, sono solo la segnaletica, punto il dito: “Là ci sono i gessi, lì c’è il Ratto delle Sabine, conoscerete tutti il marmo nella Loggia dei Lanzi, no? Però l’originale originale ce l’ho io, il modello è sempre l’originale, con le impronte digitali dell’artista: questo non è un gesso è una terra cruda, una roba sensibilissima, una rarità assoluta”.

Opere che la folgorano ancora, nonostante la frequentazione costante?

Non è che uno sta tutto il giorno a guardare la bellezza, uno va nell’ufficio, stretto, che condivide, ma ci sono delle opere che mi salutano ogni mattina. Il San Martino di Lorenzo di Bicci da un lato, e dall’altro un’opera dove ci sono tutti i mostri che vengono schiacciati: l’avarizia, l’invidia. E la superbia, di un rosso arancione piuttosto vivace, che quando ci passo davanti mi ammonisce, perché questo posto è una grande tentazione per diventare superbi e dirsi: “Io ho raggiunto tutto e dopo di questo non c’è più nulla. O poco”. Hai ragione hai ragione, dico alla superbia calpestata. È il mio memento mori.

Questa Madonna appesa in ufficio?

Guido da Siena, appena restaurata. È straniera come me, mi tiene compagnia. Sarebbe meglio se fosse su un muro del museo però non c’è il contesto per lei, lo ripeto: la questione degli spazi è importante. Io aspetto ancora quello che fa la super donazione. Aspettiamo: siamo delusi, siamo speranzosi. Abbiamo provato di tutto, messo le mani dappertutto. Molti problemi si risolverebbero: il bagarinaggio, l’abusivismo, se riuscissimo a togliere la gente dalla strada, almeno in parte. Non abbiamo il guardaroba, non abbiamo un caffè, le botteghe. Manca il 42 % del personale, un restauratore per esempio non ce l’ho, me lo sta finanziando l’associazione degli amici. Anzi è una restauratrice, una fiorentina bravissima che conosce tutte le opere, adora questo posto, fa la manutenzione regolare ogni lunedì per scongiurare la necessità del grosso restauro: controlla il clima, l’umidità, spolvera e mi dice se quel mucchietto di polverina potrebbe essere un tarlo. Poi ci sono i restauratori a contratto ai quali diamo degli incarichi, la scultura michelangiolesca e il Giambologna vengono spolverati ogni mese e mezzo: otto, nove diecimila visitatori al giorno sollevano tutta sta’ roba che si appoggia, diventa un laniccio. Appena arrivata, ho fatto pulire ogni opera d’arte e tutte le modanature.

Ha una gran passione!

Chi lavora nei beni culturali non può che essere idealista. Non lo fai per i soldi, non lo fai per gli orari comodi.

Il turismo?

Cominciamo dal lato positivo: la bellezza e la cultura attirano. Bisogna fare attenzione che la cultura non diventi una meretrice. Nel mio piccolo (ride e aggiusta il tiro n.d. r.), piccolo spazio, intendo, cerco di impegnarmi per far riscoprire, amare, rispettare l’Accademia, queste opere pazzesche. Il turista che viene da fuori va bene perché la città non ha industrie che portano i miliardi, ma non il turismo a ogni costo e nemmeno questo museo a ogni costo. Qui c’è un chiaro ordine di comportamento: non ci si siede per terra, per motivi di decoro e di sicurezza, non si fa questo, non si fa quello e chi lo fa va via. Non basta il fogliettino appeso, i custodi fanno un lavoro di controllo incessante. Poi mi dà fastidio che sotto il tricolore all’ingresso ci sia l’abusivismo, quelli che vendono le schifezze. Ora sono riuscita ad avere le forze dell’ordine. Il turismo va gestito: non aiuta chiedere a chi non lo sa da solo il comportamento civile che ci aspetteremmo. Bisognerebbe invece trovare delle regole: vieterei gruppi oltre i venti, 25. Non è possibile continuare con branchi di 40, 50, 60. Bloccano strade intere, si distraggono. Con venti persone puoi spiegare, dare quello che vogliono, ovvero la sensazione di essere dentro alla città, non un corpo estraneo, oltre al fatto che più guide turistiche potrebbero guadagnare. Non dovrebbero fare tutti la direttrice San Marco- Ponte Vecchio, ma magari andare in piazza Santissima Annunziata, fare un saltino qui e lì senza aspettare l’ultimo dei sessanta, con continue ripetizioni, rimproveri. Sarebbe facile, non servono sempre le super invenzioni. Se ti fermi con pochi e spieghi, le facce si aprono e anche il più tosto non può sottrarsi al dialogo con le opere. Ma se sei una pecorella, anche io ho fatto viaggi organizzati, perdi il senso dell’orientamento, chiacchieri, ridi di quello che parla. In pochi il confronto è più sincero e il risultato è illuminante.

Dulcis in fundo, raccontiamo la soddisfazione magna? Proprio una vittoria epocale come quella di David contro Golia?

La figura del David viene svilita di continuo e un giorno mi sono veramente arrabbiata: ho visto un depliant pubblicitario con una foto del “mio” David e mi sono detta: ecco, qui vi becco. Mi sono rivolta come dovevo fare all’Avvocatura dello Stato. Cinque mesi! Solo cinque mesi e il tribunale di Firenze ha emesso un’ordinanza per la tutela dell’immagine del David: una vittoria a livello internazionale, un’apripista per i beni culturali. L’Avvocatura dello Stato è il mio eroe. Finalmente sancito il rispetto verso le opere d’arte: se fai delle schifezze non autorizzate con la mia opera adesso ti posso incastrare e tu paghi la multa. Ora va vista l’applicazione e certo non ho squadre di persone che controllano, ma se trovo un’immagine non decorosa, scatto la foto e la mando all’avvocato. Un anno fa, quando la notizia è uscita su tutti i giornali, si è fatto vivo subito il presidente dell’Opera del Duomo, è nata amicizia anche tra noi. Sono in zona, hanno gli stessi interessi e la cupola del Brunelleschi da tutelare. Tempo fa una troupe voleva riprendere il David per un film: ho chiesto una cifra importante, molto diversa da quella che credevano. Hanno pianto un po’ e se ne sono andati. Io non sono una pezzente, conosco il valore del mio David, che è una diva e non deve entrare in tutti i film del mondo.

Grazie a Cecilie Hollberg per ricordarci che Greta Garbo non girava cinepanettoni.