“Chi cerca trova” questo è l’incipit con cui voglio aprire il mio racconto su Fulvio Leoncini. Sì, perché la mia talvolta spasmodica curiosità, la sete incessante che mi perseguita, mi conduce verso luoghi assolutamente inaspettati. E io, come un cane da caccia, cammino freneticamente in su e in giù a capo chino, costantemente intenta a recepire cosa di “buono” mi riporta il fiuto. E nella bolgia infernale di quel territorio troppo spesso profanato e sconsacrato che si chiama Arte, in cui adoro rotolarmi e scorrazzare, mi capita di fare scoperte straordinarie. La meraviglia! Fulvio è questo.

Era un sabato, e c'era il sole, quasi maggio a finire, il giorno era il 21, nei tarocchi rappresenta il mondo. Era il 1960 e un frate cappuccino all'ospedale di Empoli lo battezzò, allora non c'erano le feste che si fanno oggi per battesimi, comunioni, matrimoni e affini. Lo prese in braccio, gli guardo e toccò le mani dicendo a sua madre, “questo bambino ha mani belle e farà cose importanti".

Fulvio Leoncini è nato a Empoli (FI) nel 1960, ma vive e lavora a Santa Croce sull’Arno di Pisa. La sua biografia, qualora foste interessati, la potete trovare facilmente navigando in rete. Ciò che io vorrei scrivere di questo personaggio è ben altro.

Non ricordo precisamente il tempo in cui lo “notai”, un po' come nelle favole, il fattore cronologico risulta indefinito e anche poco rilevante, ma ricordo perfettamente il lampo che incise le mie retine. Un lampo, esattamente, così l’ho visto e così è scomparso dietro il velo di tenebra che pare avvolgerlo. Certi avvenimenti, talune situazioni accadono affinché ci spingiamo al di là, verso una sorta di consapevolezza, lì per lì creano smarrimento, poi piano piano si capisce e si vede soprattutto, si vede con occhi nuovi, oltre e la linea, l’orizzonte non esiste più. Quando si incontra un personaggio simile non si può non rimanerne trafitti. Ha avuto così inizio la mia perlustrazione, come fosse una piramide senza ingresso, imponente, maestosa e assolutamente criptica. Immobile. E forse proprio questa sua immobilità mi ha spinto oltre, esortandomi a non demordere… mi ha portata a ipotizzare che dentro quell’involucro silenzioso e statico si celino cunicoli mnemonici, passaggi segreti, inesplorati e, naturalmente, un tesoro inestimabile.

Sto fuori e osservo, passa il tempo senza tempo, intanto mi muovo, corro, salto e mi rigiro e poi mi accorgo di stare ancora lì, di tornare al punto di partenza e quasi mi pare di non aver percorso neanche un metro, di non essermi spostata. Tutto si riduce al confronto con quel punto preciso che sta lì e attende. Immobile. Fulvio parla incessantemente attraverso la sua debordante produzione artistica, uno sgorgare continuo di parole, racconti, messaggi che si distendono e si stratificano uno sopra l’altro, sono visioni, frammenti, ricordi.

Intrecciati, sovrapposti, graffiati, tratteggiati, incollati, strappati, incisi, bruciati, rigenerati. Sono grida, preghiere, talvolta imprecazioni, sono la voce di un uomo che contiene moltitudini. Ecco la piramide Fulvio, custode di innumerevoli passaggi, di infinite pulsazioni che il vento ha trasportato per millenni di bocca in bocca, echi di sogni vissuti che rompono il tempo e giungono qui, ora. Attendono, nonostante le tante parole scritte su di lui. Indecifrati ancora. Forse è proprio questo il potere evocativo dell’opera di Fulvio, il non letto. Le sue opere sono ruvide, crude, dai colori apparentemente cupi della terra fuoriescono guizzi di rosso vermiglio o bianchi inattesi, riflessi di uno spirito inquieto che deflagra sulle tele o sulle carte, custodi silenziose di un lascito spirituale.

Fulvio è la risultante di molteplici respiri: il pittore, l’incisore, il poeta, l’uomo. Egli fugge ogni tentativo di etichettatura, evanescente e denso allo stesso momento. Non credo sia possibile parlarne in modo razionale, proprio perché la forma della figura tangibile è superata dalla potenza astratta del suo essere. Eppure è lì. Immobile. Percepisco l’attesa, come se questo gigante di pietra si stagli verso l’alto ad esortare, a provocare la reazione di sfida da parte del passante. La cosa straordinaria è che tutto questo avviene in silenzio, in un compiuto, diplomatico silenzio. Quasi un accordo tacito tra le parti, una partita di scacchi per chi accetta la sfida. Io l’ho accettata.

L’opera di Fulvio è un racconto continuo, una narrazione che parte da un punto, l’io, per poi irradiarsi all'essere umano in generale, una linea che si dipana attraverso metafore diverse, dando vita ad un racconto unico, un’osservazione su sé e sul nostro tempo, il titolo potrebbe essere sempre lo stesso, il titolo per Fulvio ha poca importanza.

Da Pulsionale, progetto degli anni '90 che indaga la materia carne di cui siamo fatti e la provenienza di essa a La Bestia dentro, a cavallo del millennio, questo groviglio umano irrisolto e il tentativo di risolverlo, passando per Nomine Domini dove Fulvio torna ad essere più intimo e nello stesso tempo più rabbioso nei confronti del potere religioso. Ossarotte, contiene invece le sue ferite, la sua stanchezza e la consapevolezza della vittoria dell'indifferenza. In Elettroshock si “narra” - parola che possiamo utilizzare a ragione, benché si tratti di dipinti - l’atrocità alla quale può portare questa macchina infernale ufficialmente abolita ma, purtroppo, in modo illegale ancora in utilizzo. L’artista intensifica le immagini attraverso frasi, come “ho perso tutti i denti”, con accanto l’immagine di una bocca ridotta in frantumi.

Le Spose violate è un progetto purtroppo sempre troppo attuale, una denuncia e un dolore grandi come il mondo verso l'imbecillità umana, più che altro appartenente al genere maschile. Qui Fulvio sceglie l’abito nuziale che diventa il simbolo dell’oltraggio, del crimine verso la donna che, prima ancora di essere tale, è la madre, colei che genera l’umanità, sempre più spesso dis-umana. Ne I Maiali dal cuore in alto Fulvio utilizza invece come soggetto il maiale, che ci dà tutto che si dà tutto, ma per noi è maiale e basta, l’artista in qualche maniera si identifica con questo animale, l’artista è come il maiale che, quando è vero, autentico, si dona completamente alle fauci della massa famelica. In Erosoeros, Leoncini ritorna a cercar di sondare la distorsione dell’umanità, in questo caso tutti i generi compresi, nei confronti dell’eros. Ne Le Mutazioni, l'uomo è mutante, in questo tempo sempre meno uomo, sempre più ... altro.

Straordinaria anche la serie 13 stazioni per Lady Chatterley, opere realizzate su ispirazione del romanzo L’amante di Lady Chatterley di H.D. Lawrence. Considerato uno dei più grandi capolavori della letteratura erotica venne per questo messo al bando in tutta Europa. Fu pubblicato per la prima volta proprio a Firenze nel 1928. Fulvio esalta, con le sue magistrali opere, la scelta di Lady Chatterley che si allontana da quel freddo e industriale mondo che la circonda, regno dell'aristocrazia e degli intellettuali, per ritirarsi assieme al suo amante in una vita governata dalla tenerezza, dalla sensualità e dall'appagamento sessuale.

Tutto questo è Fulvio Leoncini, volendo fare un excursus veloce dall’alto, ma poi ci si rende conto che da lontano si vede soltanto il complesso e che solamente scendendo, avvicinandosi, è possibile notare le perle, le velature, le filigrane. E così scendo nuovamente, torno a girare in tondo lungo il perimetro della parete che lo riveste, qui posso intravedere, nelle sottili fenditure, l’"anello che non tiene", le impalpabili lame di luce che ne fuoriescono. E qui cedo nuovamente allo sconforto, perché quello che ho scorto io non è che una minima parte dell’intero, ho la consapevolezza che dietro, dentro la piramide, si cela molto altro ancora. Un mondo o forse molti mondi, molteplici esistenze. E domando a me stessa e a voi, cosa è l’artista? Intendo quello vero, quello con la A maiuscola?

L’artista autentico è uno scrigno prezioso e sacro che contiene meraviglia e orrore, che custodisce pulsazioni, lacrime e sangue, che racchiude in sé terra e aria, acqua e fuoco. L’artista è il pieno e il vuoto, è quella creatura eletta che brucia senza fine, che rinasce come la Fenice, sempre nuovo, sempre diverso. A lui soltanto appartiene l’atto del creare, proprio per questo, egli, è sublimemente vicino a Dio.

A noi non resta che goderne, senza porsi troppe domande, senza accanirsi in sterili, miserabili tentativi di descrizione o catalogazione. Così, perdersi e ritrovarsi nelle molteplici vibrazioni del suo incessante, continuo divenire.