Dipingere è uscire da se stessi, dimenticare se stessi, preferire l’anonimato a ogni cosa e rischiare talvolta di non essere in accordo con il proprio secolo e con i contemporanei.

(Balthus)

La pittura come il punk non è morta. Affatto. Ella risplende come corpo in grazia fa, di tutta bellezza, in ottima forma, riesce continuamente a rimettersi in gioco, dai secoli nei secoli, la vedi trasformarsi, trascendere se stessa, dalla mera rappresentazione, alla sua trasfigurazione e astrazione completa - dalla minuzia del trompe l’oeil - alla complessità spaziale della prospettiva per arrivare alla sua decostruzione e ricostruzione all’alba di uno dei secoli più all’avanguardia di sempre.

Come un flash, una cometa preziosa la vedi attraversare il cielo della storia - dal naturalismo di Giotto alle pennellate fauves selvagge e ribelli - dai dettagli scolpiti preziosamente dalla pittura fiamminga agli schizzi feroci dell’espressionismo astratto.

La pittura racconta a noi stessi più di quanto possiamo immaginare a una prima sterile impressione. Ella ci vizia con una moltitudine di possibili visioni sul mondo - un mondo che trasforma impietoso se stesso. La pittura mette a fuoco con atteggiamento critico, e insidia la bellezza del e nel dubbio che ci rende liberi.

In Adrian, George, Peter, Sofia e Tamina, alla galleria bolognese P420, l’esposizione promette di farci venire un leggero mal di testa (come enuncia lo stesso comunicato stampa). Mette in campo cinque artisti, cinque paia di mani e di occhi, cinque visioni, cinque possibili sguardi del senso intrinseco del fare pittura oggi, cinque differenti provenienze geografiche: Adrian Buschmann (Katowice, PL, 1976), George Rouy (Sittingbourne, UK, 1994), Peter Shear (Beverly Farms, Massachusetts, US, 1980), Sofia Silva (Padova, IT, 1990), Tamina Amadyar (Kabul, AFG, 1989).

Differenti formati, stili e tecniche tutti con la volontà di andare oltre la rappresentazione, oltre il risultato, oltre l’oggetto. In questa mostra la pittura mette in scena se stessa senza orpelli e falsi miti - ella esiste per la pura gioia di esistere. Ella riflette sul gesto insito nell’atto stesso della creazione - ella diventa pura azione.

Ella danza come nei tratti leggeri e abbozzati del polacco Adrian Buschmann in Dancing (dla chwistka) (2013) - una coralità di figure evanescenti, senza peso e profondità, sono attraversate dal vuoto cromatico che le ingloba, i gesti emergono eleganti e senza pretese come vibrassero nello spazio oltre la cornice. E oltre la cornice Buschmann non a caso va in lavori come in Abstrakte Bildidee dove cannucce colorate trapassano la tela come una sacralità profana, il segno diviene materia attraversata come il corpo di San Sebastiano. L’irruzione dell’oggetto reale ritorna preponderante anche in Self While Dancing (2019), dove la classica sbarra per l’allenamento dei ballerini viene veramente posta ai piedi della figura rappresentata, anche qui fuggevole e accennata.

Il corpo torna in maniera totalmente differente nelle tele dell’inglese George Rouy, in A Conversation #1 (2018) e A Secret #2 (2018). L’artista celebra la lussuria della forma, nell’abbondanza, nella rotondità, nell’opulenza di umani dai tratti primitivi - originari, di terre lontane e pure - dove la nudità diviene una preghiera dai toni scarlatti: peccati, segreti, conciliazioni, tutto sembra penetrare lo sguardo di chi osserva. Rouy riesce a instaurare un voyeurismo erotico, caldo, sensuale, dall’attrazione virulenta e sussurrata. I seni plastici bilanciano l’onda di questo andare pittorico, fluido, corporeo. I soggetti del giovane artista britannico fanno della pittura la genitrice di nativi all’alba di un blu che sul fondo sembra la giusta luce per una nuova era.

Nei lavori dell’americano Peter Shear, invece, la rappresentazione viene frammentata, isolata; solo alcuni tratti, come pennellate selvagge o campiture e macchie di colore si trovano a riflettere sullo spazio della pittura stessa. In Copenhagen (2018), Almond Milk (2018) e Janus (2018) - l’artista si affida a cromatismi vividi, accessi, prepotenti e graffianti nel loro manifestarsi. Materico e affamato.

L’italiana Sofia Silva diverte lo sguardo e la pittura stessa, la interroga con intelligenza, come quando racconta nello scritto che accompagna la mostra che “il pensare pittorico necessita di educazione ma procede per intuizioni”. La Silva grazie all’utilizzo di tecnica mista dove collage e segno si confrontano nel campo di battaglia della tela, l’artista questiona i diversi piani temporali, attraverso una narrazione a tratti allucinata, in-consapevole ma determinata a scoprirne il mezzo, il tramite. Una pittura intima, personale, femminile, connotata da pennellate di smalto rosso come in L'Anello di fidanzamento (2017), troneggiato dal fallico dito roseo ritratto in primo piano, o come in Porky (2018) dove una giovane donna dalla bocca aperta sembra volere inghiottire la curiosità di chi osserva. I tratti delle pennellate anche qui sono leggeri, accennati, dinamici, volti a definire l’indefinibile della memoria o del sogno. Del tutto affascinante l’uso dello spazio della tela in Gamine Gamin (2018-19) e Leek.Starlet (2019) dove il collage determina una visione frammentata, scucita, paradossale, metafora di una mente intuitiva, rapida, attratta perennemente da stimoli e appunti visivi - in questo senso la pittura si fa carico di un prisma irrisolto di impulsi e vibrazioni.

I contorni e le linee si inabissano, la rappresentazione cede il passo al colore in modo totalitario nei lavori della tedesca Tamina Amadyar in 7/11 (2018), Nolita (2018) e Azur (2018), le diverse tonalità cromatiche si trovano disciolte e vulnerabili l’un l’altra in un confronto tra corpi celesti, gialli, viola, arancio. È sovente un dialogo a due tonalità. Come una relazione pericolosa. Le trasparenze diventano confini tellurici, zone di incontro dove la dissoluzione è l’unica soluzione possibile. Nessun scenario che sia connotato dalla realtà nelle grandi tele della Amadyar se non la volontà di scoprire tramite una pennellata feroce che la pittura racconta se stessa nell’atto di seduzione cromatica.

Adrian, George, Peter, Sofia e Tamina è volutamente un’esposizione che seduce, che conduce lo sguardo e l’attenzione verso l’interno di un’anima millenaria e irrisolta come la pittura. Una battaglia feconda tra lo ieri, l’oggi e il domani, oltre i confini di una pennellata, di un gesto, un cromatismo, una cornice. La pittura che seduce oltre se stessa.