Per voce creativa è un ciclo di interviste riservate alle donne del panorama artistico italiano contemporaneo. Per questa occasione incontro Samantha Torrisi (Catania, 1977).

Tracce minime e delicate del passaggio umano. Luoghi che sembrano apparizioni, a metà tra la dimensione onirica e l'impronta mnemonica. I dipinti di Samantha Torrisi hanno una forte accezione evocativa. Sono scorci di una natura senza tempo, permeata di attese. Si estendono in una nostalgia che riempie gli occhi. E appaiono soffici, come la morbidezza di un affetto.

Samantha usa la pittura a olio sfruttandola al meglio in quella che è da sempre la sua peculiarità: l’estrema lavorabilità della pasta cromatica, agevolata dalla lentezza nell’asciugatura. Questo permise, qualche secolo fa, al grande Leonardo di elaborare la tecnica dello sfumato e, con essa, la prospettiva de’ perdimenti ovvero l’interposizione, tra lo sguardo dell’osservatore e l’orizzonte, dell’aria come corpo fluido o pulviscolo atmosferico, capace di sbiadire e raffreddare i toni cromatici, rendendo sempre meno definiti i dettagli e i contorni. Una strategia che divenne sapienza tecnica dal genio di Vinci in poi.

E anche nelle opere di Samantha Torrisi si percepisce questa perdita di dettagli e contorni, questo sfumare di una natura che appare come luogo fuggente, questa voluta mancanza di nitore nella messa a fuoco, perché in fondo il ricordo è cosi, mai troppo nitido eppure indelebile.

Samantha Torrisi vive e lavora all’ombra dell’Etna. Questa è la sua voce creativa per voi.

Chi sei?

Una persona semplice, ma con una dozzina di anime tutte insieme (citando Bufalino).

Dove ti nascondi quando non vuoi essere trovata?

Di solito mi metto in macchina e vado verso un luogo sconosciuto, oppure raggiungo la mia “Montagna” (così noi etnei chiamiamo il vulcano).

Se fossi un luogo?

In questo momento della mia vita sarei un bosco, dove il silenzio che abita gli alberi mi avvicina più a me stessa. In passato sarei stata un non-luogo, forse perché non sapevo ancora cosa volevo.

Se non fossi un’artista chi saresti?

Una detective, per la mia capacità d’intuizione in certe situazioni, o forse per la mia passione per i gialli e i polizieschi. Però mi piacerebbe fare l’agronomo.

Dove vanno a finire i sogni quando non si realizzano?

Probabilmente nei nostri gesti e nel quotidiano, perché continuano a vivere dentro di noi.

La pittura, perché?

Contestualmente alla pittura ho utilizzato anche altri mezzi per esprimere ciò che pensavo, come il video e la fotografia, ma sentivo che in quella esperienza mancava sempre qualcosa che invece si completava con la pittura. Così ho capito che quello era il mio linguaggio. Attraverso la pittura riesco a esprimere l’emozione delle cose per come le percepisco realmente.

Quale credi sia il compito di una donna-artista, oggi?

Le donne continuano a vivere in un mondo ancora troppo maschilista e misogino, e anche nell’arte c’è ancora molto da fare in questo senso. Penso che si debba mantenere la propria identità adesso più che mai. Essere donne-artiste ci dà uno strumento in più con il quale far sentire la nostra voce.

È vero che la scaturigine di un’opera è sempre autobiografica?

È inevitabile che lo sia in qualche modo, a prescindere dal tema trattato o dal mezzo utilizzato. Si fa ciò che si sente e che si è, pur non rimanendo avulsi dal contemporaneo e dalla società in cui viviamo. Diversamente risulterebbe un bluff, senza contenuto e che avrà vita breve.

I tuoi paesaggi sono reali o visionari?

Sono reali ma carichi delle mie suggestioni. Nel Libro dell’inquietudine Pessoa dice: “È in noi che i paesaggi hanno paesaggio. Perciò se li immagino li creo; se li creo esistono; se esistono li vedo”.

Da dove nasce questa tua ricerca?

Ho sempre cercato di cogliere l’essenza delle cose, che sia un paesaggio visto di corsa dal finestrino di un’auto, la scena di un film o di un video clip fermata in un frame impercettibile.

Quanto c’è di onirico nella tua pittura?

L’onirico sta nelle atmosfere che cerco di ricreare andando oltre la semplice visione della realtà.

Un lavoro tuo che ti sta maggiormente a cuore e perché?

L’Albero è un dipinto del 2004 che fa parte della mia collezione personale. In quel periodo ho capito che avevo voglia di paragonarmi agli alberi, che lottano anche sferzati dal vento o che stanno lì in silenzio anche da soli, e stanno bene così.

Che ruolo ha la memoria nel tuo lavoro?

La memoria è ciò da cui scaturisce in particolare il mio lavoro sul paesaggio. Ivan Quaroni, nel testo della mia ultima personale curata da lui nel 2017, lo definisce un auto-paesaggio, una sorta di autoritratto attraverso i luoghi fatto proprio di ricordi.

Tu, in cosa credi?

Credo nella Natura. È in Essa che trovo tutte le risposte.

A ispirarti, influenzarti, illuminarti ci sono letture particolari?

Ci sono letture, c’è cinema, c’è molta musica. Mi nutro di tutto quello che mi incuriosisce, mi appassiona, mi stimola intellettualmente e mi suscita emozione, perché mi cattura e mi comunica cose sconosciute o, allo stesso tempo, mi parla di ciò che è già dentro di me.

Scegli tre delle tue opere per raccontarti…

Di passaggio, un dipinto di grandi dimensioni del 2006, in cui è ancora evidente l’influenza data, fin dagli inizi del mio percorso, soprattutto dal cinema (in particolare quello di Wim Wenders) e da un’esperienza più underground. Un Bosco del 2013, uno dei primi di una lunga serie a cui sto lavorando tuttora. Portami al mare del 2016, è un lavoro a cui tengo molto e da cui è nato il progetto Dalle parti di me, la mostra personale del 2017 alla Galleria KōArt di Catania. In questo dipinto è racchiuso tutto il senso della mia visione del paesaggio che va al di là della mera rappresentazione del reale, trasfigurandosi in una dimensione più intima e legata al ricordo.

L’opera d’arte che ti fa dire: “Questa avrei davvero voluto realizzarla io!”?

Tempesta di neve di William Turner. Spettacolare per la percezione che si ha della forza della Natura attraverso le suggestioni evocate dal colore e dalla luce… e anche per sapere cosa si prova a stare legati all’albero di una nave in mezzo a una bufera!

Un o una artista che avresti voluto esser tu:

In verità nessuno, ma ne avrei voluti conoscere molti. Sicuramente Gerhard Richter tra i viventi, per me il più grande, e quel genio contemporaneo a 360 gradi che è Björk.

Tre aggettivi per definire il sistema dell’arte in Italia

Provinciale, opportunista, chiuso.

In quale altro ambito sfoderi la tua creatività?

Mi piace costruire, riutilizzare e restaurare gli oggetti.

Work in progress e progetti per il futuro

Sto lavorando soprattutto per un’importante collettiva a Milano in autunno, che vedrà diversi miei lavori accanto a quelli di altre bravissime artiste, e una personale a fine anno che sarà curata da Francesco Piazza, nella galleria di Giuseppe Veniero a Palermo. In mezzo altri piccoli - ma non meno importanti- progetti e collaborazioni.

Il tuo motto in una citazione che ti sta a cuore

“Non importa quello che stai guardando, ma quello che riesci a vedere” (Henry David Thoreau).