Da quando hanno iniziato a lavorare insieme nel 2009, unendo le potenzialità artistiche di ognuno di loro Penzo+Fiore ci hanno incuriosito e interessato con performance, video, foto, installazioni. Dal 2016 reinterpretano concettualmente il vetro così legato alla rappresentazione della fragilità dell’esistenza umana. Alla vigilia della loro personale presso la Galleria massimodeluca di Marina Bastianello che si terrà nel mese di settembre a Venezia ho incontrato i due artisti per approfondire la loro pratica e per qualche piccola anticipazione sulla mostra.

Lavorate con il vetro e avete uno studio a Murano, uno dei posti più famosi al mondo per produzioni artistiche con il vetro. La vostra pratica coniuga, tra l’altro, l’artigianato con l’arte, la tradizione con la contemporaneità fino anche alla performance. Come nasce la vostra pratica artistica e come si è sviluppata nel tempo?

La nostra è la storia di due percorsi individuali che a un certo punto, il 2009, si innestano l’uno nell’altro portandosi dietro i frammenti di ciò che eravamo prima per dargli nuova identità. Da un lato il percorso di Andrea, nato a Murano e per questo da subito implicato nelle vicende del vetro, dall’altro la formazione teatrale di Cristina. Nel momento in cui le due ricerche convergono, si cercano da subito i denominatori comuni in grado di far sviluppare una poetica coerente. Se il primo linguaggio esplorato insieme è stato quello della performance, la scrittura a quattro mani è stato un asse portante in grado di supportare i processi di conoscenza ed esplorazione messi di volta in volta in atto. Amiamo chiamare il periodo che va dal 2009 al 2016 i nostri “sette anni di sperimentazione”, proprio perché in questa fase, durante la quale abbiamo vissuto a cavallo tra Venezia e Berlino, abbiamo letteralmente fatto esplodere le attitudini e le aspirazioni individuali per inserirle all’interno del nuovo progetto comune di Penzo+Fiore. Da qui nascono lavori fotografici, installazioni, video, performance e progetti partecipativi, dispositivi messi a punto con lo scopo di contaminare la nostra ricerca di duo che guardava verso l’esterno – ma anche la nostra ricerca di un’identità duale, intrinseca alla nostra nuova natura collettiva – con quella di altri artisti. Questo passaggio è stato fondamentale perché potessimo imparare un linguaggio comune a entrambi, nonostante i background diversi di partenza.

Poi nel 2016, con la mostra Vetro. Disordine rigido la decisione di tornare al vetro come materiale d’elezione per i nostri lavori. Non è l’unico, non costituisce una scelta estetica, ma piuttosto una forma di continuità ineludibile con quelle che erano le origini di Andrea. Per sette anni il bisogno era stato quello di prendere le distanze da questo materiale, soprattutto perché Murano costringe spesso a delle logiche di produzione e di legame con la tradizione che stavano strette. Con la mostra torinese del 2016 curata da Barbara Fragogna l’idea è stata quella di intraprendere un nuovo percorso in cui il vetro fosse un materiale capace di richiamare costantemente il fragile, un aspetto dell’esistenza umana che ci ha da sempre affascinati. Vetro però non voleva dire per forza lavorazione diretta, ma il più delle volte reinterpretazione concettuale del materiale, anche industriale.

Lavorate sempre in coppia oppure avete anche attività che gestite in modo autonomo?

Tutto ciò che riguarda l’arte contemporanea, che sia produzione di opere o creazione di progetti artistici/relazionali sono di Penzo+Fiore. Andrea Penzo porta invece avanti da solo un filone di produzione denominato “Botanica Alchemica” che è composto da opere in vetro fatte esclusivamente da lui, disegni e installazioni che dialogano con il mondo dell’arte del vetro. Questo non esclude che a volte si creino delle convergenze tra l’operato di Andrea Penzo e quello di Penzo+Fiore. È stato questo il caso dell’opera Impero, esposta per Unavetrina – progetto The Independents MAXXI – a Roma nel 2018, o dell’abito Mother Nature, ideato per la conferenza del vetro del 2018 della Glass Art Society. Ora stiamo lavorando insieme a un progetto di abito in vetro per la conferenza mondiale di Seattle del 2021. In questo caso la tecnica di lavorazione sarà quella usata da Andrea per Botanica Alchemica, ma il progetto sarà comune.

Una delle caratteristiche del vetro è la sua fragilità che è anche una delle caratteristiche dell’uomo contemporaneo. C’è nella vostra pratica anche un’analisi di questo tipo? Un’analisi cioè influenzata anche dall’antropologia o dalla sociologia?

Sicuramente sì, anzi il ritorno al vetro nel 2016 nasce proprio dal fatto che pur usando altri linguaggi, ci siamo resi conto di quanto il nostro discorso artistico si riferisse all’idea di fragilità. Una fragilità che nella nostra visione si trasforma presto nel suo opposto, la forza profonda che nasce dalla consapevolezza della fragilità. Nel 2014 per una performance a Roma abbiamo fatto incidere due fedi con la scritta “Sono fragile”, all’interno di una riflessione sull’amore. L’uomo è, al contempo, una moltitudine in sé, che lo costringe a fare i conti con il suo inconscio e con le spinte istintuali e irrazionali che lo animano, dall’altro è essere sociale, immerso in un tessuto di relazioni che partono dalla sua complessità come individuo per avvicinarsi e interfacciarsi a quella degli altri. Antropologia, sociologia e prima ancora psicologia ci aiutano a creare la giusta sensibilità per leggere questa complessa rete di dialoghi sotterranei che sono alla base delle nostre visioni artistiche. Il dialogo poi può essere con tutto, si può entrare in connessione con chiunque e con qualunque cosa, come artisti, ma sempre a partire da questa consapevolezza di fragilità che per noi significa friabilità, imperfezione feconda, varco attraverso cui far passare ciò che ha davvero senso. Qualcosa di molto lontano dall’uomo monolitico e tutto d’un pezzo che sembra avere oggi una nuova primavera…

Nascono da qui alcuni dei nostri lavori più controversi, come Real, la creazione di un sistema di divinazione che ci ha permesso di entrare in contatto intimo con persone appartamenti a luoghi e a strati sociali diversissimi da quelli che costituiscono il nostro mondo abituale, aprendoci spiragli di realtà insospettabili prima di quel momento. Oppure i lavori più spiccatamente relazionali, che passano attraverso la messa a punto di conferenze, giornate di studio, esperienze corporee e formative, nelle quali coinvolgiamo sempre con una certa trasversalità artisti e non.

Ci interessa l’umano nella sua espressione più contraddittoria e di confine, a volte anche imperscrutabile, magica, spirituale… Così come ci interessano i contesti in cui si va a operare, tanto ricchi del mistero del loro stesso essere in bilico, sempre, perché sono fatti di un’umanità impossibile da ridurre a semplice mappa… il territorio è un’altra cosa, come direbbe Bateson.

Sono rimasto molto colpito dall’opera che lo scorso anno avete presentato a Dolomiti Contemporanee, un’opera che sfidava la forza di gravità. Potete raccontarci qualcosa in più di questo progetto?

Quella è stata una bella sfida… anche perché il contesto stesso di Dolomiti Contemporanee impone un certo livello di messa in discussione. Siamo stati invitati da Petra Cason a presentare un progetto per Brain-tooling, la mostra co-curata da lei con Gianluca D’Incà Levis, Riccardo Caldura che si è svolta all’interno del Forte di Monte Ricco a Pieve di Cadore l’estate scorsa. Il concept della mostra riguardava l’arrampicata come metafora della condizione dell’artista, della ricerca che porta verso l’alto, della sfida che va contro l’istinto di conservazione per indagare ciò che non ha, apparentemente, una ragione reale. Abbiamo deciso di affrontare la sfida su due livelli. Da un lato quello più spiccatamente visivo che ha dato vita a un’installazione che significasse di per sé arrampicare: una serie di chiodi di vetro da inserire nei pertugi già esistenti di una parete tutelata, e quindi impossibile da forare. Dai chiodi in vetro pendeva una bava trasparente a cui era attaccato un peso in piombo. La forza di gravità è il vero limite con cui lo scalatore si deve misurare, una forza che, nel nostro caso, era sorretta dalla fragilità del corpo pieno ma effimero del vetro.

Questo tipo di installazione nasce dalla visione immediata che abbiamo avuto dopo esserci confrontati con lo spazio espositivo. Però Dolomiti Contemporanee è anche lavoro con il territorio e con i contesti di montagna. Noi amiamo creare dispositivi euristici che ci permettano di sfruttare l’occasione che ci troviamo davanti, per accrescere la conoscenza collettiva e personale rispetto a un tema. Allora abbiamo innervato l’installazione precedente di lastre in vetro incise con una raccolta di parole e frasi nate da tre incontri organizzati in montagna sull’arrampicata vegetale, animale e umana. Un modo per indagare il tema proposto dalla mostra, far nascere nuove domande, dare qualche risposta, ma soprattutto creare uno scambio sensato e profondo con chi il territorio lo abita.

Ho letto che siete finalisti al Combat Prize con l’opera Time già presentata lo scorso anno alla Galleria massimodeluca. Un’opera anche questa molto complessa e affascinante. Credo valga la pena raccontarla con le vostre parole.

Time, nella sua prima versione, nasce nel 2018 per partecipare alla mostra Lux-Lumen di Fondazione Berengo organizzata per la Conferenza Internazionale del vetro della Glass Art Society di Seattle. Si tratta della rivisitazione di un rezzonico, il lampadario classico della tradizione muranese, che viene pensato con linee più geometriche e un innesto di materiali diversi, tra cui la cera e i crani di animale, segno concreto del deterioramento dovuto al tempo. In qualche modo Time è un oggetto rituale che si presta a diverse modalità espositive, ognuna della quali declina uno specifico aspetto del tempo. Può essere composto, scomposto o dinamico, una partitura che si aggrega con modalità in relazione al luogo e alle motivazioni che lo conterranno. L’oggetto esce dalla sua dimensione statica per farsi tempo attraverso tre modalità. La consunzione (l’effetto del fuoco): le candele, bruciando, segnano il tempo con il loro creare a terra delle stalagmiti di cera che rimandano alla clessidra. La performance (oscillazione): l’opera stessa viene usata come elemento d’azione performativa, che accompagna l’oscillazione del lampadario a un countdown di date che costituisce il punto di congiunzione tra il tempo e la materia corpo, partendo dall’anno di esecuzione per arrivare all’anno di nascita della persona più longeva nel momento in cui la performance viene eseguita. La scomposizione (il ritmo dei frammenti): l’opera conquista lo spazio attraverso la sua deframmentazione ritmica. Al premio Combat abbiamo proposto quest’ultima versione, gli elementi costitutivi del lampadario separati e disseminati sul piano orizzontale, sezioni di un organismo di cui si vogliono mettere in evidenza le singole particelle, una scansione ripetitiva che conduce al processo stesso di esecuzione, lento e paziente. Simbolicamente ricorda quelle parti di corpo a cui deve essere soffiata dentro l’anima per prendere vita.

Quali sono i vostri progetti futuri?

Sull’immediato stiamo lavorando a una nostra personale per la galleria che ci rappresenta in Italia, la massimodeluca di Marina Bastianello. In questo caso indaghiamo il concetto di popolo in un momento storico in cui ci appare urgente dare una nuova definizione a un’entità che davamo forse per scontata. Tutto ruota intorno a una rilettura dell’opera di Pellizza da Volpedo Il Quarto Stato, a cui contrapponiamo un nostro ILQUARTOSTATO, un’installazione che ricalca le dimensioni dell’originale primonovecentesco, e che è costituita da una serie di frammenti di cornici non più adatte a contenere quei volti che facevano da protagonisti nel quadro di Volpedo. Una mancanza di riferimenti che si riverbera negli altri lavori, tutti volti a interrogare l’essenza stessa del popolo nel suo farsi, tra le altre cose, entità politica. Come di consueto ci piace affiancare all’installativo anche un momento di riflessione e scambio, per questo l’incontro tra Fausto Bertinotti e Pietro Gaglianò che terremo negli spazi del nuovo museo M9 di Mestre, per sviscerare il concetto di popolo in una prospettiva storica, artistica e sociale a cavallo del cambio di millennio.

Neanche questa volta il vetro sarà assente, si dice infatti che sia esso stesso il quarto stato della materia, un solido che in realtà appare chimicamente come un liquido cristallizzato. Sarà presente in varie forme all’interno della mostra, rievocando sempre quel concetto di fragilità a noi tanto caro.