La famiglia. Eravamo uno strano piccolo gruppo di personaggi che si facevano strada nella vita condividendo malattie e dentifrici, bramando gli uni i dolci degli altri, nascondendo gli shampoo e i bagnoschiuma, prestandoci denaro, mandandoci a vicenda fuori delle nostre camere, infliggendoci dolore e baci nello stesso istante, amando, ridendo, difendendoci e cercando di capire il filo comune che ci legava.

(Erma Bombeck - Aforismi)

Nella poetica di Roberto Dapoto è sovente rintracciare l’idea di un ricordo sbavato, soffuso, fuori fuoco, abbozzato, accennato, come un sussurro, un soffio - la fragilità ma allo stesso tempo la potenza imbarazzante della memoria.

Prima di focalizzarci sulla totalità del lavoro preparato per gli spazi di Officina 15, In ogni cosa tu è necessario ripercorrere le peculiarità di alcune opere, di cui si potranno trovare frammenti o parti preparatorie proprio all’interno dell’installazione.

L’artista in più occasioni ha espresso la sua personale ricerca tramite la tecnica delle stampe Van Dyke su tessuto misto, ne sono un esempio Vento, del 2015 - Dal Treno, 2014 e Anime del 2013 (presentata in occasione della mostra Livida, lieve 2017 ai Fienili del Campiaro a Grizzana Morandi e nel 2018 per Tuo il sogno, mia la ferita a PVQ322 di Pievequinta di Forlì). I soggetti di queste stampe sono visioni caduche, fragili, come paesaggi sfuggevoli o farfalle. Esistenze brevi negli occhi di chi osserva.

La stampa bruna Van Dyke è un processo di stampa fotografica brevettato nella seconda metà dell’Ottocento, prende il nome dal pittore fiammingo Anthony Van Dyck per la caratteristica colorazione bruna delle stampe, simile a quella dei toni marroni degli oli dell’artista. L’utilizzo di questa specifica tecnica di stampa nasce dall’esigenza di portare la fotografia agli albori, all’origine, per ritrovarne le caratteristiche pittoriche e il valore espressivo che ne deriva, che appartiene sicuramente più al linguaggio della pittura.

Dalla bidimensionalità della fotografia, Dapoto, sente l’urgenza di una trasposizione materica, fisica che si traduce di conseguenza nella scelta di grandi installazioni composte da molteplici stampe.

In Dal treno, per esempio, le immagini sono ricavate da 150 frame estrapolati da un video girato con il cellulare che riprende il paesaggio pianeggiante innevato mentre il treno è in movimento. L’artista alla stregua di un viandante romantico ha la necessità di congelare il tempo, di fermarsi laddove in un contemporaneo bulimico, eccentrico, frenetico, grottesco e ingombrante l’eleganza e la sintesi di visione di Dapoto ci riportano ad un’atmosfera preziosa e intonsa. I frame divengono segni - quasi a matita - come accenni di una velocità rallentata; il paesaggio portato alla sua essenza si cancella in un bianco silenzioso che, come la neve, non fa rumore.

I tessuti grezzi, e strappati rafforzano l’idea di traccia fugace, in grado però, di sapersi fermare là dove il tempo sfugge sotto lo sguardo distratto. E confermano anche la tendenza dell’artista a spingere l’immagine ad una fisicità caduca.

Un esempio è stato presentato in occasione della mostra Along This Node per la Via Della Lana e Della Seta 2018 nella sala comunale di Castiglione Dei Pepoli - Per Aria - l’installazione di spighe di Avena e Lapazio secchi con schegge di mine antiuomo, proiettili e fili di seta rossa. In questo lavoro, l’artista si è cimentato nella composizione fisica e scultorea di un ricordo - abbandonando così - l’impressione fotografica bidimensionale più pittorica e talvolta astratta. Per Aria è nata da un ricordo dell’artista, durante una visita al Parco Memoriale della Linea Gotica a Vernio che interseca i luoghi appenninici Della Via Della Lana e Della Seta. “In particolare rimasi colpito dal silenzioso rumore del vento tra i fili di erba secca e l'eco della storia che aveva attraversato quei luoghi. Immaginai cosa poteva significare essere al centro di quegli eventi, e in particolare ricordo che cercai di visualizzare l'esplosione di una granata, la terra e l’erba secca sollevarsi in aria, le pesanti schegge di metallo ricadere verso il terreno”. È sempre doveroso ricordare di come l’Appennino sia stato bersaglio di guerre e stravolgimenti, e i libri di storia sono lì a ricordarlo a noi, eredi dei testimoni.

L’installazione In ogni cosa tu parte e amplifica il lavoro presentato da Dapoto in occasione del progetto itinerante e internazionale di mail art - Ondate/Waves - avente per tema la migrazione.

L’artista partendo da fotografie originali dei propri genitori ha raccontato attraverso quattro stati d’animo: paura, speranza, nostalgia e coraggio il viaggio compiuto dai propri cari dalla Basilicata all’Emilia-Romagna, del sentimento straziante del cambiamento e del trasferimento delle proprie radici. Le fotografie della madre e del padre si mostrano sfocate, imprecise, sfuggenti, impresse in un eterno dissolvimento, in un’impossibilità affiancata dalla presenza di paesaggi assoluti come nuvole, tramonti o montagne innevate, squarci di luce deserti e rami di alberi solitari.

In ogni cosa tu ricerca le proprie radici, cresce come un germoglio e si dirama come l’edera attraverso connessioni plurime, caratterizzata da una cifra stilistica elegante, pacata, leggera (non nelle intenzioni ma nelle forme mai eccedenti o eccessive).

In ogni cosa tu è un’istallazione a parete composta da fotografie analogiche, digitali, foto transfert, Polaroid, stampe Van Dyke, disegni, piccole opere pittoriche, abbinate ad oggetti di vario tipo: sassi, chiodi arrugginiti, ritagli di stoffa, vetri, vecchi cristalli di lampadari, frammenti di piatti antichi, tende, monete, pezzi di tappezzeria e carte da parati usurate, fiori ed erbe secche, piccoli gioielli - tutti provenienti da diverse “memory box” che l’artista ha raccolto in diversi anni. Ogni oggetto è legato ad un luogo o ad una persona della sua famiglia - dai genitori ai nonni, dai fratelli ai nipoti.

In ogni piccolo oggetto, fotografia, frammento si cela un tu - un’alterità - un altro micro organismo/universo; l’artista apre, quindi, un silenzioso dialogo nella e della propria memoria - alla stregua di un profumo - Dapoto attribuisce all’immagine una forza evocativa unica, suggestiva, intima, poetica, tattile e mobile. Tutti i piccoli attori di questa memoria sono infatti appesi e affissi in maniera provvisoria, come appunti su una grande lavagna - l’artista cerca di mettere a fuoco il tempo che sfugge e rivive sotto forma di Polaroid sbiadite e resti di tappezzeria.

Foto sbagliate, prove pittoriche, tutti i frammenti sono tentativi falliti di raggiungere un equilibrio, perché la memoria è difettosa, imperfetta: censura, nasconde, perde ma conserva, e quello che resta impresso è solo un riflesso instabile e lontano del tempo e della realtà.

Si tratta di un’archeologia familiare - dal personale all’universale, da una dimensione microscopica ad una macroscopica, sentiamo che la memoria esposta di Dapoto equivale a ritrovare il baule in soffitta che profuma ancora dei saponi della nonna, riproviamo una sensazione perturbante inconscia che scava nella nostra intimità - nella nostra memoria - che recuperiamo nelle nostre foto di famiglia, nei nostri arredi casalinghi, negli odori, tutti i piccoli dettagli che restano scolpiti nell’immaginario e ci riportano ad un punto preciso, ad un’origine personale che ci fa sentire a casa.

Immedesimandoci in quei reperti personali - immaginiamo la vita altrui, fantastichiamo sui rapporti che possono intercorrere, sull’origine di quei piccoli oggetti, sulle trame e sui fili nascosti, ma allo stesso tempo ricordiamo la nostra - la nostra vita, sotto la lente di un prisma - sfaccettata - cosparsa in tanti diversi passati più o meno recenti: dai ricami di un asciugamano alla spilla di madreperla ereditata da una bisnonna.

Tu Madre, Tu Padre, Tu Fratello, Sorella, Cugino, Nipote, Nonno o Nonna.
Tu che hai completato quello che resta del mio Io.
Tu.

Questa installazione pensata per gli spazi di Officina 15 In ogni cosa tu è un atto d’amore verso la memoria. Ci racconti come nasce?

Sì, è esattamente un atto d’amore verso la memoria, nasce dal desiderio di indagare le mie radici, la mia storia, di riunirne tutti i frammenti e i ricordi che per anni ho accumulato. Fin da piccolo, infatti, avevo la mania di collezionare oggetti in piccole scatole, inizialmente senza una ragione precisa, poi più recentemente mi sono accorto che ogni oggetto era legato ad un luogo, e ancora più recentemente ho capito che più che ad un luogo ogni oggetto era legato ad una persona. È stato quando ho ritrovato un vecchio album di famiglia che ho pensato di riunire le vecchie fotografie a tutti i miei oggetti, e che di fatto quegli oggetti erano delle fotografie poiché mi rimandavano ad un preciso “qui e ora” esattamente come in una fotografia.

Come ti sei avvicinato alla fotografia? Hai un ricordo preciso?

Molto presto, ho sempre avuto interesse per la fotografia analogica in particolare. L’aspetto che mi interessa maggiormente è poter manipolare l’immagine fotografica proprio come nella pittura. Ho quindi sperimentato diverse tipologie di antiche tecniche di stampa fotografica risalenti agli albori della fotografia, quando era quasi una tecnica artigianale: Cianotipia, Stampa Van Dyke, Stampa alla carta salata, Gomma bicromata, ecc. L’immagine fotografica è sempre il punto di partenza, ma essendo la fotografia fatta di luce sento il bisogno di darle il peso della materia.

Quali sono gli artisti che ami di più, che ti ispirano e perché? (Penso anche a fotografi, visto che nella tua ricerca la fotografia ha un ruolo determinante)

Sicuramente tutto il lavoro fotografico di Gerhard Richter incentrato proprio sulla differenza tra materia pittorica e immagine fotografica. Ovviamente Christian Boltansky e la memoria, e Hiroshi Sugimoto e le sue foto “sfocate”. Ammiro tutti i fotografi “Cameraless” in particolare Susan Derges, Adam Fuss e Garry Fabian Miller per la sperimentazione di diverse tecniche fotografiche ottenendo risultati espressivi nuovi. Uta Barth e le sue immagini“seriali” di atmosfere distratte e lontane. Sophie Calle per la capacità di raccontare delle storie accostando diversi linguaggi. Felix Gonzalez Torres, per la straziante poesia delle sue istallazioni fotografiche. Luigi Ghirri per avermi insegnato a pensare per immagini. Moira Ricci e la potenza dei suoi fotomontaggi. Annegret Soltau per l’interessante binomio ricamo/fotografia. E molti altri, questi solo per citarne alcuni.

Cosa pensi di un social interamente dedicato alle immagini, come Instagram? (Utilità, dimensione estetica, ecc…)

Penso sia utile come un valido mezzo per diffondere una maggiore educazione visiva. Spesso mi capita di ritrovare le influenze di molti grandi fotografi nei profili di Instagram. In un certo senso molti di loro lo hanno anticipato, in particolare se pensiamo agli scatti di Luigi Ghirri. È interessante che oggi cosi tante persone comunichino così apertamente solo utilizzando delle immagini.

Una delle ultime mostre che ti ha particolarmente colpito in positivo?

Sicuramente Fotografia Europea a Reggio Emilia, in particolare l’ultima edizione era incentrata sull’Oriente. Trovo sempre incredibile quante possibilità espressive possa offrire il linguaggio fotografico.

In ogni cosa tu. In quali “cose” ti rivedi, da artista e uomo?

Anselm Kiefer paragona l’artista ad un girasole, i piedi piantati per terra ma la testa rivolta alla luce, alla verità. Onestamente amo tutte le cose usate, cose che hanno avuto una qualche utilità in passato, ma che ora sono come sospese e ne trattengono soltanto un’eco. “Cose impolverate”… che sono inspiegabilmente legate ad un qualche ricordo, non importa se sia un mio ricordo o se posso solo immaginarlo… in un certo senso lo avverto. A tal proposito mi viene in mente una poesia di Alda Merini:

Non so se esistano le ali della farfalla, ma è la polvere che le fa volare. Ogni uomo ha le piccole polveri del passato che deve sentirsi addosso, e che non deve perdere. Sono il suo cammino.