Sono segni le immagini riflesse dalla superficie degli specchi?
Naturalmente occorrerebbe prima stabilire cosa si intende
sia per “segno” che per “specchio”.

(Umberto Eco, Sugli specchi)

Il concetto di originalità assoluta rispetto ad opere precedenti
e alle stesse regole di genere è concetto contemporaneo, nato
con il romanticismo.

(Umberto Eco, L'innovazione nel seriale)

Il titolo che avete letto sopra non intende essere né provocatorio, né allusivo né suggestivo ma, letto insieme al suo sottotitolo, intende porsi come autosemiosico, per dirla con Eco, cioè un titolo che da solo espone e racchiude tutto il suo campo di interrogazione a livello di semiosi concernente il rapporto fra due dipinti antichi, della medesima epoca e di soggetto formalmente identico: la Madonna Connestabile di Raffaello esposta all'Ermitage e un dipinto analogo, quasi un “doppio” detenuto da un collezionista privato. Siccome formalmente il dipinto di Tortona appare assai somigliante a quello dell'Ermitage si è voluto chiaramente battezzarlo in mimesi con il nome dell'infinitamente più celebre dipinto oggi russo, evidenziando la maggiore differenza fra le due opere data dalla distanza della loro collocazione. Il sottotitolo enfatizza fino alla conflagrazione i due estremi fra i numerosi possibili a livello di tesi interpretative-identificative di tale relazione dialettica chiedendosi appunto se il dipinto di Tortona sia una sub-opera rispetto a quello russo oppure se sia un'opera che possieda una sua autonomia.

Il tema, colto a livello di semiosi, presenta una sua autonomia anche indipendentemente dal discorso autoriale-attributivo. Il problema di metodo è proprio dato dal fortissimo condizionamento derivante dalla già solidificata attribuzione a Raffaello della Madonna Connestabile dell'Ermitage. Se avessimo confrontato come in uno specchio le due opere due secoli fa, o comunque prima della denominazione di “Madonna Connestabile” del dipinto raffaelliano oggi russo, l'esito del confronto sarebbe stato più alla pari. Continuando con questo gioco ermeneutico potremmo enunciare questo altro campo di interrogazione: questa Madonna di Tortona è segno della Madonna dell'Ermitage o viceversa? Quale dipinto è epifania dell'altro? Il dipinto più celebre è conclusione di un percorso iniziato con il dipinto che oggi presentiamo per la prima volta al pubblico oppure si tratta di una sua “scia”, traccia postuma, segno del successo della sua matrice?

Oggi il “già noto” diventa dogmatico, apodittico, pregiudiziale per cui appare all'inizio quasi pleonastico porsi tali tipi di interrogazioni in quanto il “già noto” si arroga una funzione “archetipale” e pregiudiziale rispetto alla res che appare “non ancora classificata”, non ancora identificata autorialmente. Il discorso di semiosi dovrebbe anticipare il discorso di identificazione autoriale diacronica mettendo prima l'opera x davanti all'opera y, come in uno specchio, per valutarne dialetticamente e sinotticamente aspetti differenziali, connotativi e denotivativi. Quale dipinto è specchio e quale riflesso dell'altro? Questa è una domanda volutamente retorica ed euristicamente provocatoria in quanto un oggetto dipinto non è mai uno specchio, ma una singolarità.

Possiamo dire metaforicamente che un oggetto dipinto sia “specchio” della propria epoca, ma in questo caso tale qualificazione non opera in senso differenziale perché i due dipinti condividono la medesima epoca: la fine del Quattrocento, che è il periodo giovanile del Raffaello umbro, peruginiano.

Recenti analisi dell'Università di Verona confermano l'utilizzo in questo dipinto di pigmenti diffusi in quel periodo: biacca di piombo, cinabro, azzurrite, rame, ferro da terre, oro in conchiglia. Dal punto di vista formale-visivo appaiono identiche le dimensioni, le proporzioni, la scena rappresentata, in tutti i suoi dettagli, la struttura a tondo con attorno dipinti di decorazioni. Anche i rapporti tonali del manto della Vergine, con le ricche sinuosità di maggior nitore, appaiono sovrapponibili. Completa e speculare corrispondenza ma non pedissequa, cioè non totale in dettagli non fondamentali. L'imitazione pedissequa, infatti, tipica delle opere derivate, si denota per il suo “imitare anche dove non sia necessario”, mentre la Madonna di Tortona presenta piccole variazioni in alcuni rari punti come nei movimenti più chiari del manto della Madonna sul suo lato destro, più semplici e meno serpentini nell'esemplare tortonese.

Ma l'elemento più interessante è dato dal differente colore dei capelli della Vergine: color rame nella tavola tortonese e color bruno nel celebre dipinto dell'Ermitage. Se fosse un'opera derivata si tratterebbe di un errore eccessivamente stupido e senza senso dell'imitatore non avere ripreso il medesimo colore dei capelli del dipinto originale! Questa libertà compositiva può far propendere per una relazione fra le due opere tale da porre la nuova opera emersa quale antecedente di quella celeberrima. Questi piccoli scostamenti possono, infatti, essere segni di libertà autoriale ed epifenomeni dell'autonomia dell'opera, come i più esemplari originali del Bacio di Hayez dimostrano. A questo punto va estremizzata questo facile bivio, pur tenendolo aperto: il dipinto tortonese è segno di quello russo, oppure al contrario è la Madonna di Tortona l'archetipo preparatorio del celebre capolavoro? Sì perché il pregiudizio riduzionista (che dobbiamo contrastare) socialmente prevalente tende a posticipare diacronicamente la “nuova singolarità” rispetto alla singolarità socialmente più autorevole e forte, mentre la relazione dialettica andrebbe indagata in movimento reversibile, cioè anche diacronicamente inverso. Naturalmente se si sceglie senza discussione l'opzione dell'equazione “famoso=antecedente” e quindi “nuovo=susseguente”, allora si perimetra la ricerca su canali prestabiliti nel senso dell'attribuzione della nuova opera ad un discepolo di Raffaello, oppure ad un ignoto suo emulatore. Ma anche a tale livello resterebbero molti dubbi perché da una parte Raffaello ebbe numerosi e importanti autori coevi e successivi che furono influenzati dalla sua opera ma dall'altra proprio il grandissimo successo che ebbe in vita scoraggiò copie coeve di tipo ripetitivo. Chi avrebbe osato copiare il maestro a pochi anni dalla sua dipartita?

L'esempio del Sassoferrato, che emula la Madonna Connestabile in una sorta di omaggio misto a sfida conferma tale valutazione in quanto la “sua” Madonna nella plateale ripresa dell'originale in realtà rivela il carisma del suo autore più che la grandezza risaputa di Raffaello. La “Connestabile” del Sassoferrato appare più retorica, enfatica e cromaticamente magniloquente rispetto al suo archetipo formale. Siamo di fronte ad un'opera pienamente manieristica, del tutto autonoma dal dipinto di Raffaello. È cambiato il paradigma, siamo nel tempo del gusto e delle scuole artistiche, non più nel tempo del “grande maestro”. Nel tentare di celare la sua creatività immergendola nel modello raffaelliano l'autore esalta la propria anima artistica differenziale. Il Sassoferrato compie verso Raffaello quello che Raffaello fa verso il Perugino; solo che Raffaello perfeziona e idealizza Perugino, mentre Sassoferrato si appropria di Raffaello, “sassoferrandolo”, rivelando così l'essenza della sua opera quale carisma non raffaelliano ma raffaellita! Le due opere non sono più specchio della medesima epoca. Al contrario la tavola tortonese non manifesta quei segni di retorica, di manierismo, di “omaggio al maestro”, tipici delle copie da autori celebri. Né appare una replica commerciale o di gusto, come potrebbe essere un dipinto settecentesco raffeallita sia per la sua differente datazione che per l'assenza di alcun tratto re-interpretativo o di imitazione pedissequale.

A sua volta il discorso si complica in quanto per un confronto efficace occorrerebbe individuare con chiarezza entrambe le singolarità da confrontare, ma tale evidente operazione appare più difficile in presenza dell'evoluzione autoriale di Raffaello. Con quale Raffaello vogliamo confrontare il dipinto di Tortona? Un Raffaello degli inizi oppure l'attività della sua bottega nel culmine, romano, del suo successo? È vero dall'altra parte che Raffaello presenta una sua riconoscibilissima cifra assai meno evolutiva rispetto ad altri grandi autori a cavallo fra i due secoli ma qualche differenza è sempre riscontrabile e appare tipizzabile e schematizzabile in due Raffaelli: quello delle origini umbre, fedele riformulatore perfezionante del Perugino e quello romano, più reiterabile e riconoscibile. Nel mezzo però abbiamo un altro Raffaello: quello fiorentino, di transizione, influenzato da Leonardo. La Madonna Esterhazy esprime emblematicamente tale “terzo Raffaello”, meno riconoscibile, più fluido e “caldo”, in una parola: “sperimentale all'ombra di Leonardo”, con le sue tipiche torsioni e tensioni anatomiche.

Con quale dei tre Raffaelli vogliamo confrontare il dipinto di Tortona? Estremizziamo anche qui le possibilità: l'opera ora a Tortona quale studio giovanile, prima opera di un Raffaello che ancora sperimenta in attesa di “superare il maestro”, Perugino, idealizzandone lo stilema, oppure un Raffaello così di successo a Roma da permettere alla sua bottega una reiterazione della sua opera giovanile oggi all'Ermitage? Il dipinto appare infatti, come typus, utilizzare uno schema assai semplice, pedagogico, ideale per far esercitare un giovane artista. La classica Madonna di Natività o “delle Grazie”, con occhi socchiusi e un generico paesaggio di contorno. Dipinto facile da commercializzare e reiterare, per uso devozionale privato. Neppure il retro della tavola tortonese ci aiuta in quanto i sigilli della dogana di terra dello Stato Pontificio non offrono alcun elemento individualizzante. Le opere nei secoli si spostavano tanto quanto oggi per affari, eredità, matrimoni, doni e i più differenti motivi. Che il dipinto tortonese sia uscito e poi rientrato nello Stato della Chiesa non ci dice nulla di più sulla sua indubbia singolarità; nulla di utile a meglio qualificarla. Se ci concentriamo sullo stile espressivo infine ne emergono ancora di più tratti identitari e autonomi della tavola tortonese la cui dolcezza e intimità appare superiore all'opera celeberrima che viceversa si connota per una maggiore claritas. Anche sotto questo profilo l'analisi per essere ermeneuticamente corretta dovrebbe sfrondarsi preventivamente della maggiore attenzione tutelativa e conservativa di cui ha goduto l'opera celebre rispetto all'abbandono secolare tipico delle opere appena ritrovate. La relazione dialettica appare quasi invertita fra un Raffaello più riconoscibile e una Madonna raffaelliana con una sua connotazione, con tratti di dolcezza e morbidezza più accentuati, rispetto al freddo rigore della precisione del capolavoro oggi russo. E qui si apre un altro discorso di semiosi: la “riconoscibilità raffaelliana” rappresenta un dato di minor significazione o di maggior identificazione? Paradossalmente si potrebbe dire che la tipica raffaellianità della Connestabile dell'Ermitage rende il dipinto meno interessante della sottile variazione stilistica presenta nella tavola che qui presentiamo.

I grandi autori avevano evoluzione sia interna (autocitazioni e autosuperamenti sperimentali) che esterna (il farsi influenzare da altri colleghi) per cui oggi il Musico di Leonardo non contraddice l'Ultima Cena? Quello che si vuole dire è che non è detto che sia euristicamente utile prendere la Madonna Connestabile dell'Ermitage quale archetipo valutativo per giudicare se la tavola di Tortona sia o meno di Raffaello! O si è giocatori o arbitri! Se si confrontano due opere ma una delle due viene già presupposta quale modello allora non siamo in presenza di un vero confronto ma solo di una reductio ad unitatem. Meglio valutare prima cosa sia e chi sia Raffaello e poi approcciare la singolarità nuova della tavola tortonese. L'analogia formale non appare decisiva. Invece di degradare subito il dipinto tortonese a token di un type già noto occorre considerare le due opere come due singolarità comunque autonome, nella loro fisicità e unicità. Ogni opera di valore è sia token che type. Token in quanto unica e irripetibile e type sia passivamente, se riprende modelli già condivisi che attivamente se influenza altre opere!

Per questo in epigrafe si son citati due passi del saggio Sugli specchi di Umberto Eco dove il celebre semiotico gioca ad individuare un circolo ermeneutico tra la costruzione del concetto di segno e la costruzione del concetto di specchio, ricordando come sia metodologicamente necessario definire in modo autonomo ma pure aperto entrambe le nozioni, senza che una definizione perimetri pregiudizialmente l'altra. Analogamente occorre operare nel definire la differenza fra opera d'arte e opera artistica. La prima manifesta due fattori che Eco riprende e sottolinea: l'ambiguità (polisemia) e l'autoriflessione quale rinvio dell'opera a se stessa a livello di coerenza interna. Questi tratti li troviamo entrambi nei nostri due dipinti mentre non sono rintracciabili in tutta quella fenomenologia di opere di tipo “derivato” che siano copie o repliche di gusto o commerciali o derivazioni oppure omaggi. Per loro vale la critica di Eco alla pittura di Hayez: si tratta di illustrazione, di sub-pittura che tende a dare l'idea dell'archetipo, inseguendone la riconoscibilità di massa, mentre l'opera d'arte presenta tratti di irriducibile autonomia interna anche in caso di sovrapposizione formale da “doppio”. L'opera artistica di secondo livello è un'opera solo tecnica che non condivide la visione incorporata nell'archetipo ma solo ne riprende la forma ma prima di segno. Non sono opere autoriflessive in quanto si tratta di prodotti (non opere) eterodiretti, imitativi. Né sono opere ambigue in quanto si limitano a dire quello che dicono senza mai voler o poter uscire da una logica e da uno scopo funzionale, artigianale. L'ancillarità è la loro ragion d'essere. A livello di polisemìa qui siamo ad un livello basico data la semplicità del modello iconografico e possiamo delimitarla nel dettaglio suggestivo degli occhi socchiusi della Madonna e del libro aperto dalla Vergine. Il primo dettaglio rappresenta una variazione intrigante che esprime echi mistici presenti anche nella pittura lombarda (Zenale) come nel typus della Madonna dell'Archetto marchigiana, ancora in voga a fine Settecento.

Typus derivante misticamente dal concetto di deliquio come esposto nel Cantico dei cantici. Il secondo dettaglio appare ancora più diffuso in quanto la “Madonna del libro” esprime la medesima spiritualità della Madonna Annunciata. Se proprio vogliamo sottolineare gli elementi individualizzanti più rari in tali due opere li possiamo così elencare:

a) sia la Vergine che il Bambino leggono il medesimo Libro scritturale, generando un triangolo semantico tra Cristo, Vergine Madre e la Parola eterna di Dio ricevuta dall'uomo, in una esaltazione dottrinale dell'Incarnazione dove è la Parola eterna di Dio l'elemento di unione e comunione fra Cristo e sua Madre;
b) i nodi isiaci sul vestito della Vergine sono due: uno alla cinta e uno al petto (di solito ve n'è uno solo, di cinta)
c) il velo di Maria stranamente le copre poco il capo, lasciando ampia parte dei capelli scoperti.

Quasi un'anomalìa. Si tratta di elementi bassamente polisemici, nonostante la rarità della loro triplice compresenza e la profondità del loro significato spirituale. Quando emerge un dipinto prima non conosciuto, con un tasso di “raffaellianità” così alto come questo, va confrontato con tutta l'opera di Raffaello e solo successivamente con l'opera dei suoi epigoni. Quando l'adesione formale risulta così elevata l'emersione di un nuovo dipinto rimette in discussione tutto il campo semantico raffaelliano il quale, come ogni campo semantico umano, è e deve darsi sempre aperto ma in evoluzione. La Madonna Connestabile di Tortona” si rivela sia raffaelliana (con un alto grado di intensità) che nuova opera riemersa, e ogni nuovo annuncio di esistenza, come ogni nuova nascita, cambia il mondo e quindi merita la massima attenzione, al di là del discorso del rapporto fra segno e suo simulacro. Umberto Eco nel suo saggio sull'Innovazione nel seriale, ci ricorda preziose distinzioni ermeneutiche nel sottolineare come il “seriale” sia una costante nell'arte antica e il suo procedimento possa produrre sia eccellenze che banalità. In altre parole la “ripetizione” di per sé non offre alcun criterio differenziale estetico e quindi la valutazione di valore tra due opere che sono reciproci “doppi” deve cercare il proprio fondamento su altri elementi che qui abbiamo cercato di accennare: indici di disinvoltura autoriale, assenza di tipicità derivative, contesto non favorevole a serialità coeve non autoriali. Eco ci aiuta nell'inquadramento della procedura di tipizzazione-identificazione anche tramite le sue riflessioni a livello di destinatario del messaggio.

Ogni opera è anche apprezzabile come messaggio, oltre che come segno, oggetto, prodotto e visione. Quale destinatario sarebbe pensabile per una copia fedele di un lavoro giovanile di Raffaello se non lo stesso Perugino? Se allora il destinatario è il titolare della bottega allora l'autore è il suo alunno, allora non ancora celebre e “in erba”. Tanto più che la maggior precisione dell'esemplare acclarato retrodata e qualifica quale matrice l'esemplare speculare ma meno perfezionista nella specificazione di certi dettagli, come ad esempio le onde del lago del paesaggio, non ravvisabili nel dipinto riemerso. Possiamo dire infine che è proprio l'assenza di tratti personalistici accentuati, l'illusione di assenza di traccia autoriale, il porsi l'opera quasi in un suo “esporre spersonalizzato”, in un “presentare oggettualizzato” che accomuna in un unitario carisma raffaelliano i due differenti dipinti. Che poi le due opere siano entrambe del medesimo periodo, la fine del Quattrocento, appare abbastanza facile indurlo. Tra la fine del Quattrocento e l'inizio del Cinquecento assistiamo ad un cambio di paradigma decisivo e quasi improvviso. La morte di Raffaello e la morte di Leonardo concausa questo mutamento nel linguaggio pittorico che possiamo sintetizzare in pochi tratti: a fine Quattrocento un preciso equilibrio induce un intenso senso di coerenza interna ai dipinti e questo equilibrio è dato dalla compresenza di modelli iconici semplici, antichi e diffusi (spesso di origine bizantina) riformulati “dall'interno” dal carisma individuale e ritrattistico (spesso con influenze fiamminghe) del singolo autore di successo. Siccome questi pittori celebri sono numerosi (Mantegna, Bellini, Botticelli, Ghirlandaio, Del Castagno, Rosselli, Filippino Lippi, Perugino, e molti altri) e operano con percorsi quasi tutti coevi ne deriva un'epoca artistica ricchissima ma pur veicolante tratti omogenei, pur con innumeri varianti e sfumature. Tutto è simile e tutto è differenziato. Al contrario dopo la morte della più grande bottega-accademia, quella di Leonardo con i suoi numerosi allievi-discepoli-amici, e dopo la morte del pittore più grandemente venerato, Raffaello, cioè colui che ha portato all'estremo l'idealismo cristiano-platonico e il perfezionismo/artificio tecnico, sorge spontaneamente il Manierismo, cioè l'epoca lunga in cui il gesto prevale sull'unicità, lo stilema sul carisma, la contaminazione sull'invenzione, la retorica sulla visione spirituale-ideale.

Il Quattrocento è la pittura nel suo sorgere come arte-scienza autonoma mentre il Manierismo è già la restituzione esemplare della ricezione sociale e storica della pittura. Nel Quattrocento non si sente la “storia dell'arte”, tutto è vergine e nuovo. Nel Manierismo la pittura danza dentro una galleria di specchi. La ripetizione di forme di successo da omaggio amicale o da sfida virtuosistica diventa canone seriale. Paradossalmente più il pittore manierista diventa “di genere”, come saranno magnificamente Guido Reni e Daniele Crespi, più diventerà un idolo di massa. Mentre l'autorialità di fine Quattrocento emerge con forza in un’arte che è infinita variazione interna di modelli comuni e condivisi, l'autorialità manieristica si fa spettacolaristica e tutta estroflessa per stupire il pubblico. Non più riconoscimento interiore di ciò che già si conosce ma esibizione e recita di un “teatro del nuovo”.

A fine Quattrocento l'opera è simbolo e condensazione-ramificazione di segni. Nel Manierismo l'aspetto segnico svanisce e l'opera si fa oggetto-allegoria-pedagogia decorativa, esibizione di un'autorialità di gusto e non di visione. I nostri due dipinti esprimono invece entrambi pienamente i sensi della fine del Quattrocento, rappresentandone i due poli colti nella medesima struttura formale: la dolcezza intima e atmosferica il primo e il perfezionismo tecnico e artificiale il secondo, quello dell'Ermitage. Non c'è nulla infatti di realistico in questa Madonna e l'artificio della variazione-individualizzazione del modello antico arricchisce la rappresentazione di dettagli irreali resi in naturalezza: che si vedano le onde della riva del lago a grande distanza, le due minuscole figure umane che camminano lungo il lago, una delle quali recante un grande scudo luminoso, la stessa fascia trasparente annodata sul petto della Vergine è tale in quanto così “deve essere” in una visione ideale che fa a meno di riscontri.

Il Quattrocento in pittura produce opere che sono sia “segni” nel loro complesso che “sistemi formali” inclusivi di corredi di segni dove abbiamo sia la fabula che il discorso. Se “è segno ciò che può essere interpretato” (Eco, Segni, pesci e bottoni. Appunti su semiotica, filosofia e scienze umane) il Manierismo produce opere che sono esemplari di un allegorismo piano, monodimensionale, che dice quello che indica e indica quello che dice, per cui induce e genera un'interpretazione perimetrata al confronto fra reciproche influenze stilistiche. Si è persa la koinè. Il dipinto manieristico non è segno ma segnaletica del proprio stile, gesto-decorazione, presenzialismo autoreferente. Caravaggio è stato l'ultimo leonardiano nel sovrapporre gesto e visione, movimento fisico e movimento semantico. E lo faceva quando già era rimasto solo il gesto nella ripetizione della forma di successo. Tutto questo per ribadire come la Madonna di Tortona sia raffaelliana e non raffaellesca, e pienamente e tipicamente opera quattrocentesca in quanto opera organica, tanto intensiva quanto estensiva nella sua dimensione di coerente e concentrata unità di stile, linguaggio e semiosi. Per tentare una conclusione occorre allargare un attimo il discorso sui fondamenti dell'ermeneutica dell'attribuzione autoriale nella critica della storia dell'arte per sottolineare come si tratti di un'attività interpretativa che presenta varie criticità e problematiche, in parte colte dal nostro amico Umberto Eco.

Come possiamo definire questa attività? Proviamoci: sostenere che un dipinto antico x sia dell'autore y in assenza di documenti e di prove di passaggi di proprietà dall'autore antico ad oggi è una dichiarazione che presuppone un giudizio di valore comparativo fra i tratti identificativi dell'autore x e i tratti identificativi dell'opera x. Confrontare due identità, una oggettuale e una soggettiva a sua volta frutto di induzioni e deduzioni da un gruppo di opere ritenuto dell'autore y. Operazione probabilistica e giudizio sintetico, qualitativo, simile a quello del giudice che deve decidere se ha ragione la tesi dell'accusa w o della difesa z in merito all'attribuzione del fatto q (che svolge il ruolo del dipinto x) al soggetto v (che svolge il ruolo dell'autore y). Ci sono tre problemi di metodo quasi sempre insolubili messi in evidenza da Eco nella sua opera I limiti dell'interpretazione (capitolo: “Falsi e Contraffazioni” e, per il concetto di contesto: “Semantica. Pragmatica e semiotica del testo”):

a) “tutti i criteri per stabilire se qualcosa è il falso di un originale coincidono con i criteri per stabilire se un originale è autentico, quindi un originale non può essere usato per smascherare le sue contraffazioni” (questo è predicabile anche nella valutazione comparativa tra un x non ancora attribuito e un t già attribuito all'autore;
b) “i giudizi di autenticità sono frutto di ragionamenti persuasivi fondati su prove verosimili anche se non del tutto inconfutabili e accettiamo queste prove perché è più economico accettarle che passare il tempo a metterle in dubbio” (l'attribuzione quale ragione di riduzione semplificativa del “nuovo” al “già dato come acclarato”, fondata quindi sulla “presupposizione” più che su una vera e libera interpretazione;
c) l'attribuzione punta a confrontare la nuova opera x con il contesto definito dall'insieme delle opere già attribuite all'autore y, e possiamo con Eco definire il concetto di “contesto” come “l'ambiente in cui una data espressione (uno o più giudizi qualificativi ad esempio) occorre insieme ad altre espressioni appartenenti allo stesso sistema di segni”.

Quindi un insieme di simultaneità, un codice relazionale e ambientale. Ma anche il rapporto fra contesto e opera appare circolare e non univoco. Anche sotto questo profilo si potrebbe ribaltare il rapporto fra opera nuova e opere già attribuite iniziando al contrario a rileggere le opere già attribuite alla luce dell'opera nuova e non viceversa secondo la più facile presupposizione (che non è di per sé interpretazione). Resta infatti una criticità di base non autofondantesi: il contesto, come l'identità, non sono dati immobili ma in evoluzione in quanto “sistemi di relazioni” presentanti un lato interno (relazioni fra opere già attribuite) e un lato esterno (opere simili, opere del o dei maestri e opere dei discepoli dell'autore y) quindi una nuova opera non può essere posta in una mera posizione di “oggetto che passivamente subisce l'insieme di opere già attribuite” quale “macchina validante univoca”! L'attività ermeneutica è un circolo non un’attività asimmetrica e unidirezionale!

Su cosa si fonda quindi il confronto proprio di ogni giudizio attributivo? A parità di condizioni storiche, tecniche e temporali si fonda sull'isomorfismo dello stile. Cos'è lo stile allora? Il tipo di pennellata e i tipi di pigmenti usati insieme alle tipologie di variazioni iconografiche più utilizzate? Lo stile è un concetto già di per sé problematico in quanto sinestetico, cioè risultante di una serie numerosa di fattori, tecniche e lingue differenti. Gli autori poi non mutano il proprio stile nel loro percorso di vita artistica? Non ricevono molteplici influenze da altri autori? Il confronto dovrebbe porsi fra le invarianze dello stile di y con i tratti differenziali e unicizzanti dell'opera x. Ma come si enucleano queste “invarianze”? Cosa fa di Raffaello oltre il suo tempo il Raffaello nel suo tempo? Qual è il Raffaello che in un suo nucleo non muta nella sua vita artistica? Si procede per generalizzazioni graduali. Il Raffaello maturo assorbe il Raffaello iniziale o tardo? Ho preso in prestito da Eco la sua definizione semiotica di contesto perché a questo livello linguistico non fa differenza tra un testo e un dipinto da qualificare. Sempre siamo di fronte ad una sfida di ricostruzione di una coerenza fra singolarità e contesto più ampio. Contesto significa nell'etimo “insieme ad una tessitura”, cioè coerenza di x con un ambiente-sistema relazionale z, che lo stesso x però contribuisce a definire!

Il contesto in cui inserire l'opera nuova dovrebbe profilarsi secondo la tripartizione che introduce Charles Morris: semiotica sintattica, semantica e pragmatica. Il dipinto come declinazione di linguaggio, quale insieme di significati, cioè di “segni interpretati” e quale fatto-prodotto, cioè esito di un procedimento di costruzione-ricezione. Possiamo completare questo “discorso sul metodo di inquadramento attributivo” con questa definizione del circolo identità-contesto o in altre parole del circolo “identità singolare-identità autoriale”: l'opera x è ascrivibile all'autore y quanto il rapporto dell'opera x con se stessa genera il medesimo profilo/codice del rapporto delle opere di y con loro stesse, intendendo con “profilo/codice” la semiosi sintattica-semantica-pragmatica dei componenti dell'opera con l'opera nel suo insieme come unità organica.

Penso che ora sia più chiara la necessità di una maggiore coerenza di metodo nel discorso attributivo. La Madonna di Tortona presenta questa triplice omogeneità con l'opera di un Raffaello così riletta senza escludere a priori tale nuova tavola? Ogni dipinto è in se stesso opera di linguaggio, codice-sistema segnico e fatto, oltre a potersi vedere anche come “documento” in rapporto alla sua epoca storica. Chiaramente nessuna opera, neppure se fatta dal medesimo autore in un tempo quasi coevo è un vero “doppio” nel senso di piena intercambiabilità-indiscernibilità in quanto presenta giocoforza sempre variazioni materiali-formali in quanto l'autore è una persona umana e non una macchina industriale replicante. Si tratta di “pseudo-doppi” ciascuno dei quali è “il tipo di se stesso” (Eco, La falsificazione nel Medioevo). Pure va considerato l'aspetto della finalità dell'eventuale imitazione-duplicazione.

Mentre l'autore originale può autoduplicare una sua opera solo per certe finalità (esercizio giovanile, insegnamento a propri allievi, oppure scopi commerciali per l'eccesso di richieste date dal suo successo) un autore differente può imitare fedelmente il medesimo “tipo di opera” solo per altre finalità: omaggio, sfida, esercizio virtuosistico oppure simile scopi commerciali in questo caso di tipo “derivato” cioè dipendenti dal successo della prima riconoscibile opera. Occorre quindi chiedersi per questo ultimo caso quanto fosse celebre la prima originale opera e quanto sia riconoscibile come “opera di Raffaello” la sua presunta copia o altre copie, se e dico “se” esistenti. L'assenza di copie conosciute dell'opera k, conosciuta mondialmente come opera di y, è anch'esso un dato ermeneuticamente importante, seppure negativo, e gioca a sfavore della tesi della lettura dell'opera x quale opera-copia di autore differente. Ricordiamo, infatti, che ogni valutazione valoriale è anche una valutazione probabilistico-statistica. Ricordiamo, infine, una semplice ma acuta considerazione che Eco evidenzia più volte sul tema delle procedure di autenticazione: “…le tecniche con cui si stabiliscono le caratteristiche di Oa (l’originale) sono le stesse con cui si identifica Ob (la presunta copia). In altri termini per dire che una riproduzione non è la Gioconda autentica occorre che qualcuno abbia analizzato e autenticato la Gioconda originale con le stesse tecniche con cui si decide che la sua riproduzione è diversa” (Eco, La falsificazione nel Medioevo).

Questa nota di Eco ci appare metodologicamente molto importante in quanto suscita e stimola un atteggiamento sempre critico anche verso il “già noto” e abbassa il rischio di relativizzare in senso riduzionistico il “non ancora noto”. Oltre a ciò tale indubbia considerazione ci aiuta a comprendere come il rapporto tra Oa e Ob sia e debba essere sempre reciproco, circolare, reversibile e come al centro dell’attività ermeneutica occorra porre la migliore procedura di autenticazione possibile, la più completa e complessa e inclusiva, e non la singola opera già nota con le sue specificità. Proceduta che deve essere comune alle due opere da confrontare, per cui la stessa opera già nota nella sua attribuzione deve essere riletta e riconsiderata, cioè ri-autenticata, altrimenti stiamo replicando una presupposizione e non un vero confronto il quale implica un terzo elemento omogeneo e comune dato appunto dalla procedura di autenticazione, cioè dall’insieme di elementi, dati e analisi che devono avere ad oggetto entrambe le opere, sia Oa che Ob. Tale procedura deve anche considerare altri elementi, differenziali, come, ad esempio, una possibile differenza di epoca relativa (all’intero dello stesso arco temporale autoriale), e l’assenza o la presenza di altre copie già autenticate come copie, con cui successivamente confrontarsi, oppure anche la presenza di allievi o imitatori non noti dell’autore di Oa.

Altra considerazione di rilievo riguarda il tipo di linguaggio utilizzato nel processo di attribuzione il quale non può essere che un linguaggio connotativo e solo apparentemente tratta ente denotativo. Se, infatti, lo scopo del processo è un’attribuzione che ancora non è data si trattas, quindi, di un processo creativo-costruttivo. Anche il linguaggio, dunque, deve essere chiarificato e usato in modo omogeneo in rapporto all’opera Oa e all’opera Ob, insieme a questa consapevolezza di tale sua natura. Il linguaggio denota quando indica, nomina, classifica secondo classi già codificate, rinvia a riferimenti già dati, mentre connota quando qualifica aggiungendo qualità e proprietà, mutando le classificazioni, riformulando i significati, contribuendo a definire il contesto che indaga. Denotare è operazione estensiva che esprime un'efficacia formale, presupponendo un distacco fra chi osserva e chi è osservato. Connotare implica un'operazione intensiva, che muta la materia su cui interviene e usa come segno i dati che assume riconfigurandone le relazioni. Denotare formalizza, e considera il proprio oggetto come un fatto da includere in un campo di riferimento già dato, mentre connotare considera i propri oggetti come segni ed esprime un'efficacia performativa, perimetrando nuovamente i campi di riferimento. Per denotare correttamente va fatto riferimento a un patrimonio già ampiamente condiviso e pertinente come campo semantico o linguistico o tecnico mentre per connotare correttamente occorre seguire criteri di coerenza sistematica, interna ed esterna. Più si denota più si rischia di rinviare ad anticipazioni e presupposizioni, eludendo il nucleo ermeneutico-metodologico del discorso. Lo scopo della connotazione è il medesimo della finalità del discorso attributivo: costruire (o non costruire) una nuova qualificazione relazionale fra x e y, fra un'identità oggettuale e un'identità autoriale-soggettiva, similmente a come si ricostruisce il nesso causale in diritto penale.

Parafrasando Heinz Von Foerster nella denotazione chi guarda il mondo lo fa attraverso la serratura del proprio sguardo, come se esistesse un mondo oltre di essa, distinto dall'osservatore, mentre nella connotazione non c'è serratura ma chi guarda è parte del mondo che osserva e, osservandolo, lo modifica. Lo sguardo è epifenomeno del mondo. Un'ermeneutica corretta per opere d'arte antiche (specie se non godiamo di documenti in merito) non può che muoversi con uno scopo ricostruttivo e fondarsi sul corpo stesso dell'opera, i cui limiti ne definiscono l'identità e la cui fisicità è di per sé matrice delle sue possibili interpretazioni. Lo riconosce Eco nelle sue riflessioni sul rapporto fatto/interpretazioni, applicabile non solo ai testi ma anche ai dipinti: “Il testo diventava il parametro per giudicare le sue interpretazioni anche se erano le interpretazioni che potevano dirci cosa era quel testo” (Il pensiero debole vs i limiti dell'interpretazione); e ancora: “un curiosa qualità dei fatti è dimostrarsi resistenti alle interpretazioni che non legittimano...”. La polisemia, quindi, non è senza limiti, né indeterminata ma appare delimitata implicitamente dalla struttura stessa dell'opera e dall'opera quale corpo e struttura. Lo stesso concetto di “significato” va riportato nel discorso comparativo a scopo attributivo nel suo senso originario, medioevale, di “fare di un qualcosa un segno”, essere capaci di farsi segno, cioè qualificare, direzionare, generare interpretazioni. Significare genera una relazione fra x quale res e x quale segno (Eco, Per una storia della denotazione, Semiosi illimitata e deriva). Riguardo infine al confronto formale-stilistico va riportata ad unità la molteplicità di fattori che fungono da componenti di tale dimensione-valutazione. Ci soccorre l'estetica medioevale-tomistica con la sua ripartizione dei criteri formali del bello in tre approcci: proportio, integritas e claritas.

A fine Quattrocento, infatti, non si dà una visione sistematica-filosofica alternativa a quella tomista. Sebbene essa non basti ad esaurire la qualità espressiva e tecnica della pittura di questo periodo, rappresenta però il sistema più compiuto di lettura di un'immagine (e della relazione fra due immagini-oggetti) dal punto di vista della forma, cioè della loro struttura vista come autonoma rispetto al significato o ad altre interpretazioni derivate. Questi tre attributi sono aspetti del medesimo concetto di “forma” quale organizzazione interna, unità organica, determinazione delle quantità (Eco, Scritti sul pensiero Medioevale: Il problema estetico in Tommaso d'Aquino. I criteri formali del bello; Integritas, proportio e claritas). Entrambe le nostre opere manifestano un'identica forma quale proporzione, sia intesa quale insieme delle relazioni interne di misura che intesa quale concordanza fra figura e sua funzione segnica di oggetto di devozione che nella terza accezione di efficacia dell'opera ad esprimere valori di armonia, cioè di unità e coerenza interna, ponte continuo fra essenza ed esistenza. Identiche pure appaiono se le apprezziamo sotto il profilo dell'integritas intesa quale compiutezza ed equilibrio fra, possiamo dire, quello che l'immagine figura e quello che suscita può suscitare, oppure quale rapporto fra l'opera quale tutto e le sue parti costitutive. Concordanza che qui appare identica anche fra l'opera quale singolarità e l'opera quale corrispondenza ad un modello tipologico (la Madonna del Libro).

A livello di claritas le due opere possono divergere o avvicinarsi. Se intendiamo la claritas quale capacità di veicolare un senso di luminosità le due opere divergono in quanto quella tortonese appare più nivea e quella dell'Ermitage appare più dorata e tersa. Se intendiamo la claritas quale capacità espressiva le due opere sono distinguibili ma presentano entrambe una notevole capacità espressiva-relazionale, cioè una certa capacità di irradiare la loro essenza. In tutti questi casi in questa comparazione la claritas non appare discriminante potendo un autore variare questi aspetti producendo più opere con il medesimo soggetto al variare del committente e/o del contesto di lavorazione (per la propria bottega, per se stesso, per il proprio maestro, ecc.). Che il nuovo possa sempre riposizionare il quadro ampio della visione. Che il nuovo dia uno sguardo nuovo a ciò che sempre muta insieme all'umanità: il corredo delle sue visioni. Solo la Differenza permane. L'Identico è metafisica o illusione.