Scrivere sui significati de La Tempesta di Giorgione dopo il prezioso volume di Marco Poli sembrerebbe veramente temerario. Eppure i grandi capolavori sembrano enigmi difficilmente esauribili e questo vale massimamente per la nostra opera: il più enigmatico dei capolavori. Il libro La Tempesta svelata di Marco Poli è un saggio che denota la finezza e la cultura del suo autore ed è utile per fare piazza pulita di tutte le vecchie letture mitologiche su La Tempesta ma non focalizza il proprio obbiettivo: il dipinto resta enigmatico e le tesi di Poli appaiono eccessivamente dispersive e faticose. Il nostro quadro in poche parole secondo Poli è un sogno filosofico, ma anche una descrizione di fatti naturali, ma pure cela un codice politico e militare, oltre a veicolare allusioni ad Iside. Insomma: un guazzabuglio di risposte. Troppe. Meglio usare un rasoio alla Occam! L’opera altrimenti non viene riportata ad unità. Resta spezzata ed enigmatica.

I ragionamenti di Poli si basano su sovrapposizioni tipologiche che non permettono di focalizzare sulle unicità e specificità dell’opera. È il solito difetto di una certa indagine iconologica non chiaramente fondata metodologicamente. Vogliono imitare Panofsky ma errano in quanto il procedere di Panofksy funziona se devi confrontare due modelli fra di loro, o comunque più forme tipizzanti, mentre qui il problema è al contrario “non fuggire” dall’opera ma “restarci dentro” e “portarci dentro” altri linguaggi compatibili. Nessuno invece fa precedere l’analisi ad una ragionata e pregiudiziale “scelta di campo semantico”! Si tende a ridurre le specifiche del dipinto ad altri modelli operando una semplificazione riduzionistica che banalizza l’opera e la fraintende per forza, perché “la usa” e non la interpreta. La mia tesi invece riesce a dimostrare, sempre per sovrapposizioni e confronti, il perché di tutti i dettagli del dipinto.

Il “mio” metodo è molto semplice ma pure rigoroso ed efficace. Semplicemente leggo l’opera tramite l’opera. Cioè la leggo senza tralasciare nulla, senza “usarla” per dimostrare tesi precostituite ma cercando nell’opera stessa, quale visione spirituale, le ragioni che portino alla soluzione dei suoi enigmi. Non tutto si può così spiegare ma molto si può chiarificare (ab intrinseco) si riesce soprattutto ad individuare “dove cercare”, cioè a risolvere il primo dei problemi. Questo mio metodo di lettura sistematico/olistico/anagogico portato ai seguenti risultati: il comprendere il senso dell’espressione facciale della donna, la sua identità, le ragioni e l’occasione del dipinto, e la ricostruzione del contesto in cui è stato commissionato: La Tempesta è una celebrazione della politica e del ruolo imperiale di Venezia, una denuncia del pericolo turco ed è pure un’accusa contro il Papa per il rapimento della nobile Dorotea Malatesta.

Poli si concentra sul tema politico dell’attacco imperiale a Venezia, mentre non coglie l’essenziale per i tempi veneziani di allora: il pericolo turco, molto più pericoloso di quello rappresentato dal Sacro Romano Impero. Un dipinto quindi che rappresenta un preciso messaggio politico del governo di Venezia verso il Papa, al fine di chiedere aiuto contro i Turchi, ricordando nel contempo il ruolo fondamentale di Venezia quale baluardo della Cristianità. Un monito e una richiesta, un misto di avvertimento e di supplica. Appare così risolto il senso di sottile apocalitticità che chiunque evince da una sola occhiata al capolavoro che quasi trabocca una strana tensione mista ad un alone allusivo. La parte debole dell’opera preziosa di Poli, inoltre, penso si debba rintracciare anche nella pretesa di aver individuato in Cristoforo Marcello il nesso di congiunzione fra il committente, il governo veneto incarnato in una sua potente famiglia patrizia, e la corte papale.

Se infatti il dipinto rappresenta quella che potrebbe definire in modo poetico una “lettera diplomatica in figure” allora ne consegue quale corollario logico che deve necessariamente essere esistito un preciso destinatario storico che avrebbe potuto/dovuto ostendere il dipinto presso influenti consiglieri del Pontefice al fine di sensibilizzarlo sull’utilità di mutare la politica verso Venezia. Un raffinato e astuto omaggio contenente un codice di lettura suggestivo quanto chiaro e preciso, in perfetto stile veneziano. L’anello debole de La Tempesta svelata di Poli deriva dalla debolezza del ruolo politico di Cristoforo Marcello presso la corte papale a fronte di un impegno politico così importante veicolato dal dipinto, in quanto il Marcello diventa protonotaro apostolico solo nel 1507-1508 e quindi la data di composizione dell’opera si sposterebbe pericolosamente nei pressi della data della morte di Giorgione. Va considerato, infatti, che è improbabile quale tempo di composizione dell’opera il periodo 1501-1503 in quanto corrispondono ai tre anni di pace con i Turchi, pur incerta e pagata a caro prezzo, mentre la Lega di Cambrai, che aggrava la situazione di Venezia, viene inaugurata solo nel 1509. Il contesto problematico con i Turchi e con il Papa per via della contesa Romagna/Polesine e dell’incertezza papale sull’indizione di una nuova Crociata, che favorirebbe Venezia, è già maturo alla prima calata dei francesi in Italia, quindi l’arco di possibile composizione dell’opera va allargato. Perché poi Venezia avrebbe affidato a Cristoforo Marcello l’utilizzo politico del dipinto quando avrebbe potuto rivolgersi più direttamente ai vari ambasciatori della Serenissima che stazionavano a Roma o vi passavano sotto Innocenzo VIII o Alessandro VI?

Il periodo di composizione dell’opera, infatti, va prudenzialmente collocato in un arco temporale che va dagli ultimissimi anni del Quattrocento, quando cresce il pericolo francese e nel contempo il pericolo turco con la ripresa delle ostilità con Venezia nel 1499, e i primi anni del 1500 quando era impellente l’urgenza di premere sul Pontefice affinché tornasse alleato di una Venezia che subiva una seria “ansia da accerchiamento” che minava il proprio impero. Alla fine di questo saggio indicheremo due ulteriori dati che ci permettono di ipotizzare la data della primavera del 1500 quale periodo di realizzazione più probabile del dipinto. Non solo: se La Tempesta è strumento di un messaggio politico allora l’uomo del dipinto, il “Mercurio”, cioè il nunzio latore del messaggio, andrebbe ricercato utilizzando come indizio i colori bianchi e rossi del suo vestito, le cui evidenti schematicità portano a pensare ad un blasone araldico di riconoscimento. Che sia un “Mercurio”, infatti, ce lo dice la più antica intitolazione del dipinto stesso nella cinquecentesca raccolta Vendramin, oltre che un indizio sottovalutato: la decorazione sul muro alle spalle dell’uomo mutuante chiaramente il proprio schema dal caduceo di Hermes. Da una breve ricerca sugli stemmi veneziani o di chi in quel contesto svolgeva un ruolo politico-militare per Venezia, saltano fuori molti ottimi pretendenti al ruolo che Poli attribuisce un po’ troppo frettolosamente al Marcello. Fra i molti, tutti con stemma con i vermiglio e bianco, ricordiamo: Antonio Bon dell’omonima famiglia patrizia di Venezia, politico e militare ricordato dal Guicciardini, un esponente della famiglia patrizia Ghisi, che avevano interessi e domini in Eubea, minacciata dall’avanzata turca, il nobile Andrea Foscolo, anch’egli ricoprente un ruolo politico per Venezia, Giovanni Emo, politico e militare già dipinto dal Bellini, l’ambasciatore per Venezia Niccolò Zorzi, con un nome curiosamente uguale a quello di Giorgione, lo sfortunato condottiero Antonio Grimani, esiliato, latitante e poi riabilitato, oppure, infine, un Malatesta come Roberto o come Pandolfo, al servizio di Venezia negli ultimi anni prima dell’occupazione di Cesare Borgia o appena dopo nel senso di una parallela rivendicazione di Rimini, mai tenuta stabilmente senza Venezia.

I Malatesta fecero da capitani di ventura per Venezia e Sigismondo pochi anni prima andò a combattere anche in Morea contro i Turchi, in una fase drammatica di quella continua crociata difensiva che fu la storia della Serenissima nei secoli. Dal massacro di Otranto del 1480, anzi da un certo punto di vista fin dalla caduta di Costantinopoli del 1453, la dialettica Turchi/Venezia non cessa di crescere in drammaticità ed avvicinamento geografico fino alle inquietanti incursioni turche in Friuli degli ultimi anni del Quattrocento. Se quindi Poli ha giustamente individuato il contesto politico dell’opera, tuttavia ben lungi si rivela dal definirne i precisi contorni in quanto abbiamo troppi pretendenti al ruolo di difensori di Venezia contro i Turchi e di interlocutori del Pontefice.

Un altro indizio da valutare nuovamente penso sia lo stemma del carro posto sulla casa turrita di destra. Certamente corrisponde perfettamente allo stemma della famiglia Da Carrara di Padova e certamente ancora a fine Quattrocento i discendenti della famiglia brigavano per riottenere la città da loro persa per colpa di Venezia. Ma non appare credibile che di fronte alla terribile minaccia turca si chiedesse al dipinto anche di lanciare un avvertimento contro i Da Carrara, le cui rivendicazioni non penso possano aver intimorito o preoccupato seriamente la Serenissima. Piuttosto l’astuzia linguistica dei Veneziani potrebbe aver usato lo stemma dei Da Carrara per alludere ad un Pontefice connesso con la città di Carrara quale fu, ad esempio, Innocenzo VIII, con una vera e propria minaccia “per via araldica”. Che lo stemma del palazzo di destra sia da connettere ad una minaccia sembra evidente, lo ricordiamo, per il fatto che il tetto del palazzo si mostra mezzo distrutto, plausibilmente da un precedente fulmine o colpo di vento della medesima “Tempesta”, turca o divina che sia poco importa a livello semantico, e sulla parte del tetto residuato sosta una bianca cicogna, segno di intelligente attesa. Venezia aspettava un pronunciamento papale a suo favore e contro i Turchi? Alla bianca cicogna, nome di una famiglia patrizia della Serenissima avente interessi in Oriente, altro pretendente credibile quale committente dell’opera o nuncius del suo messaggio presso il Papa, corrisponde simbolicamente e narrativamente la donna con la bianca mantellina.

La donna, nuda e biancovestita, appare del tutto conforme alle allegorie della Carità o dell’equivalente Sapienza, che teologicamente è una forma di carità, ma il contesto teleologico del dipinto deve portarci a sovrapporre alla prima allegoria una seconda facile trasposizione: Venezia stessa. I connotati così apparentemente anomali nella figura di donna vanno prima riportati alla loro semplicità e poi ricomposti. Una donna nuda, madre, e posta su di un prato, come fuori da una città che diventa paesaggio su cui incombe una terribile tempesta. Il messaggio politico regge anche questa duplice stranezza e la attraversa se la consideriamo quale allegoria di Venezia regina e nutrice dei popoli e delle acque che sta per ridursi a causa dei Turchi e dei francesi a donna desolata, spogliata, denudata, ed esiliata. Lo sguardo della donna, infatti, è uno sguardo che esprime profonda sollecitudine e attenzione, come in un silenzioso monito, in una sottile e sapiente lamentela che mescola desiderio di sollecitare una risposta ad una calma regale e prudente. È la donna il motore immobile di tutta la tensione che avvolge la rappresentazione, è il suo sguardo che agita sottilmente come un potente magnete l’intera opera. Questo effetto è potenziato, infine, dalla dialettica fra lo sguardo della donna, la sua nudità e la sua anomala postura e ubicazione. Il fulmine stesso che attraversa il mezzo del cielo della scena sembra una diretta conseguenza, anticipata in figura, della collera che il restare indifferenti al richiamo della Donna può suscitare. Collera divina attratta dalla calma e pura collera della Donna stessa.

Siamo in presenza, quindi, di una nudità allegorica di tipo mistico, metafisico, e non semplicemente di un’allegoria morale. Ma l’arte antica è polisemantica per tradizione e per vocazione per cui nulla di male nel vederci in quella donna anche Dorotea Malatesta, atta a suscitare tenerezza, e arrabbiata per il suo rapimento, compiuto da Cesare Borgia in offesa a Venezia. Certamente nessuna donna storica potrebbe giustificare l’inquieta animazione della rappresentazione se non spostandosi ad un piano mistico/metastorico.

La percezione della storia non era allora meramente cronachistica ma era sempre accompagnata, nei grandi eventi, da una lettura teologica provvidenziale-apocalittica, connaturata ad una società organicamente cattolica e così sarà fino alla Rivoluzione francese/industriale. Troppo spesso la critica artistica si dimentica la visione spirituale di fondo, cattolica, che ha sempre retto la Cristianità cioè quello che si è scoperto essere “l’Ancient Regime” solo a rivoluzione compiuta. A conferma del possibile incrocio fra discorso sui Turchi e discorso sul controllo veneziano di Rimini, confinante con il Patrimonio di San Pietro, abbiamo i colori araldici del “Mercurio”, che corrispondono a quelli, fra i molti, dei Malatesta, e l’edificio sullo sfondo, quello recante il leone di San Marco, che ricorda il Tempio malatestiano di Rimini, capolavoro di Leon Battista Alberti. Il disegno originale dell’edificio, infatti, lo sviluppava in altezza a mo’ di parallelepipedo, e, in ogni caso, il curioso incrocio del triangolo con dei contorni generali di tipo “templare”, cioè propri di un edificio complessivo alieno dai canoni dell’edilizia sacra come di quella patrizia, e non corrispondente ad una porta o ad un arco di trionfo, può portare ad una citazione politica riminese dal messaggio chiarissimo, quasi letterale: Rimini appartiene alla Serenissima.

Conferma dell’impostazione politica del dipinto ma pure della difficoltà di precisare il volto del committente/tramite dello stesso, la troviamo passando in rassegna i Dogi e le famiglie dogali del periodo i quali sono tutti accomunati dalla gestione della questione dei rapporti con i Turchi e dalla questione dell’espansione in Romagna e quindi dei rapporti territoriali con il dominio del Pontefice: da Agostino Barbarico a Giovanni Mocenigo fino a Leonardo Loredan, ma senza dimenticare Andrea Vendramin, la cui sfortuna in guerra unita agli ottimi rapporti con il Papa Sisto IV potrebbero ex post portare a pensare ai Vendramin discendenti quali committenti del dipinto in quanto fautori di una “rivincita” famigliare e politica pro alleanza Venezia/Roma, per lavare l’onta del recente smacco da loro sentito come macchia sulla gloria della famiglia.

Incidentalmente ricordiamo che la certezza del messaggio diretto al Papa contenuto nel dipinto la troviamo nella Chiesa dipinta sullo sfondo vicino all’albero e nella chioma dell’albero stesso: si tratta con evidenza del Duomo della Roccia di Gerusalemme, posto sulla spianata del Tempio, e rappresentato da Giorgione con certosina e impressionante precisione. La chioma dell’albero che incombe sulla Chiesa per antonomasia, e Roma è la “nuova Gerusalemme”, non a caso presenta un’anomala e simbolica forma a falce di luna inclinata, proprio per metaforizzare la minaccia turca che incombe su tutta la Cristianità. Con questi due delicati e sapienti dettagli il dipinto esprime chiaramente e potentemente il ruolo di Venezia quale difensore della Cristianità e del Papa stesso.

La Chiesa fra Gerusalemme e il possibile Tempio Malatestiano sembra invece stranamente la chiesa di S. Ambrogio di Milano. Su questo aspetto andrebbe portata avanti un’indagine accurata. Certamente in tre edifici dello sfondo, posti in vicina sequenza, non rappresentano dei meri orpelli come gli altri che sostanziano il paesaggio rubano, ma appaiono intensamente eloquenti. L’uomo potrebbe trattarsi di un patrizio veneto o veneziano impegnato diplomaticamente che ha fatto da tramite presso la corte papale, oppure di Roberto Malatesta, ultima speranza per Venezia di avere un alleato nello snodo cruciale della Romagna. E la cometa? Segno apocalittico e rivelativo, la cometa drammatizza la scena ma potrebbe conferirle invece al contrario un senso di maggiore speranza se connessa più semplicemente con il Natale di Cristo e, magari, con qualche evento storico positivo per Venezia accaduto in prossimità del Natale. Non vedo altre soluzioni in quanto non sono documentate stelle comete dopo il 1476 e prima del 1532, anche se l’assenza di documenti, nostro limite, non impedisce che possa esserci stato un analogo accadimento storico. Quindi è una cometa natalizia!

Che la Donna sia Dorotea Malatesta appare l’ipotesi più probabile per poter giustificare e visualizzare allusivamente il contesto storico-politico contemporaneo, fra Rimini, Roma-Gerusalemme e la minaccia turca di cui Venezia è porta difensiva.

È quindi il paesaggio urbano e allusivo stesso del dipinto che ci porta a Dorotea, in quanto donna nobile considerata la più bella d’Italia, promessa sposa di Giovanni Caracciolo, comandante dell’esercito di Venezia e impegnato in Friuli contro i Turchi. Dorotea parte da Urbino per andare in sposa a Giovanni e poi scompare per 3 anni, molto probabilmente rapita da Cesare Borgia e tenuta prigioniera a Gaeta. Ne nascono dei figli e alla fine questa storia vera che sembra un romanzo finirà bene con le nozze di questi tormentati “promessi sposi” ante litteram. Nel volto della donna la sua rabbia di fidanzata (il velo) nuda e sola, con un figlio illegittimo, vigilata a distanza dal suo tiranno. La vicenda di Dorotea si incrocia così bene con le sofferenze geopolitiche di Venezia da divenirne emblema, allegoria, allusione.