Si scende alla 96esima, quindi si percorre un breve tratto a piedi. Ascensore. Lui sulla porta. In attesa.

Il pantalone sbuffa in corrispondenza del suo bacino. La morbidezza di ciò che indossa la si ritrova nelle sue guance, nella sua corporatura, e le fanno da specchio i drappi che Francis dipinge, e quelli che ha posizionato nel suo studio: sono rilassati, questi ultimi, pronti a diventare parte attiva di un nuovo setting.

La sua arte vive con lui, riempie ogni interstizio del suo appartamento – non troppo ampio – di Manhattan. Le vite che accompagnano la vita di Francis Cunningham e della moglie Kitty sono molteplici, una dietro all’altra, come fossero in fila in attesa del proprio turno. Sono pazienti, non spingono, e anche se lo facessero ampi cartoni di color bruno smunto ne attutirebbero il colpo.

È difficile scegliere una posizione entrando in quella casa. Gli occhi si mescolano con libri, dipinti, vecchi biglietti di auguri. E poi non si può stare fermi.

Bill, il cognato, con pazienza leggera aiuta Francis a spostare le sue tele, se ne fa carico, quasi come un novello Cireneo. Sono ampie, loro. Bisogna spalancare le braccia, e pare un’azione anzitutto simbolica. Accogliere quell’opera, accettarla, farla propria. Gli spazi si configurano, riconfigurano, di continuo. Ormai il corridoio non è più tale, e nemmeno la porta. Inutile suonare ora in casa Cunningham. Non c’è possibilità di aprire. La sala ha perduto le sue barriere, non è più locale elegante e distante dalla quotidianità: è un tutt’uno. Enormi tele rettangolari costruiscono nuove direttrici della visione. Si sta creando un microcosmo, e il pittore dona il primo alito di vita a questa performance che si compie, lenta, sotto gli occhi di spettatori rapiti.

Sasha, la figlia, che di performance casalinghe ne deve aver viste durante gli anni, tenta di impersonare il maestro d’orchestra in questa riconfigurazione di spazi, ma non può mai avere l’ultima parola. E il suo sorriso timido lo sa bene.

Mi avvicino. No. Mi richiama. “Si inizia a guardare da lontano”, dice. Passi indietro per ammirare l’opera nel completo, per avere chiara la composizione, il movimento, lo sguardo…

Arretro.

Quei due essere umani, imponenti, nudi richiamano inconsciamente nella mia mente le grida disperate dei progenitori di Masaccio. In Cunningham la disperazione non ha spazio, ma quell’imponenza, quella plasticità dei corpi, quegli sfondi di campiture tanto omogenee quanto penetranti giunge a un livello eccezionale.

Mi avvicino.

Tutto cambia. Si penetra la tela, si sentono le pennellate, si osserva il suo lavoro quasi fossimo i privilegiati che sostano accanto al suo cavalletto.

Cunningham, allievo di Edwin Dickinson, mutua dal suo Maestro lo spot painting, e guarda il mondo attraverso quella tecnica. L’ha sempre osservato così seppur una visione enciclopedica del suo lavoro mostri un’evoluzione. Quando pochi centimetri separano l’occhio dalla tela, la tecnica non è più solo “tecnica”, le pennellate riacquistano vita e indipendenza. Le macchie di colore mostrano il tempo perduto alla ricerca di quel tono, le ore passate su ogni singolo dettaglio. L’ossessione dell’artista.

Quella carne nuda che trova modelli in paralitici e mutilati è un trionfo di realismo figurativo in cui è lo studio anatomico ad avere un ruolo preponderante. Le sue figure, in una ipotetica iniezione di linfa vitale, non avrebbero difficoltà a girarsi su se stesse, a terminare il saltello, a “srotolarsi” da quel rannicchiamento che di tanto in tanto le assimila a bruchi in un bozzolo. Sono pronte a diventare farfalle, insomma. Anche il paralitico non appare bloccato, bensì libero di non compiere alcun movimento. E la figura mutilata del suo braccio destro contiene tanta forza da trasformare una mancanza in ricchezza.

Epifania di una pinacoteca, realizzata con il lavoro e l’ostinazione di soli due occhi e due mani, ma non c’è alcuna abitudine. Si cadenza una continua innovazione, dove le opere del primo periodo aprono il sipario: sono di piccole dimensioni, tendono all’astratto non per il soggetto bensì per l’approfondimento coloristico portato avanti dall’artista. È lì, su quelle tele di bellezza memorabile, che si consolida lo spot painting. È su quelle tele, e spesso solo su alcuni dettagli di esse, che Cunningham passa interi pomeriggi alla ricerca della colorazione perfetta.

Tuttavia gran parte della carriera di Francis Cunningham è segnata da tele di superfici importanti, uomini che assumono dimensioni a tratti giganti – “big men”, li chiamano in famiglia -. Qui le campiture sono date con pennellate sfuggenti, una sull’altra, e creano “macchie” di colori nuovi, ravvisabili solo a distanza ravvicinata. I paesaggi che circondano – senza sovrastarle – le figure richiamano alla mente le volumetrie di Giotto, quelle fenditure nelle rocce presenti in alcuni degli affreschi delle scene francescane di Assisi che creavano, forse per la prima volta nella storia dell’arte, una monumentalità prospettica.

Il nudo, elemento che accomuna i ritratti dei modelli di Cunningham, è tanto evidente quanto etereo. È il nudo della natura, delle origini. E, forse, non è un caso che i nudi dell’artista newyorkese richiamino la statuaria classica e non si fermino al decantato Rinascimento. “I corpi rinascimentali erano bloccati”, non si stanca di osservare. “Io ho guardato la Grecia classica, le sue statue. Ho studiato la sezione aurea, e ho voluto romperne i codici”. È così che Francis Cunningham giunge a un realismo assoluto, dona l’eventuale possibilità di movimento a quelle figure le cui proporzioni, come lui stesso afferma, “sono musica”.

La verticalità delle tele del secondo periodo lascia spazio agli ultimi lavori, per lo più still life – orizzontali – del suo studio. L’umano è pressoché scomparso, ne si avverte la traccia solo quando tra gli oggetti che silenziosi posano per lui in uno studio inondato dalla luce di New York (dalla quale si protegge con sottili veli) vi è un suo dipinto “antico”.

Assenza-presenza.

Sì, perché nelle ultime tele di Cunningham gli ampi spazi non gridano ad alcun horror vacui, bensì sono intrisi di vita. Non manca nulla. C’è tutto. E questo “figurativo-non figurativo” è il suo ultimo approdo, quasi si fosse dato il compito di chiudere un cerchio. “Si torna sempre ai propri inizi”, afferma lui. Quel che rimane, intatta, è la tecnica. Il suo vanto, seppur raccontato con umiltà. Quella tecnica che necessita il movimento dello spettatore per essere compresa, il suo sguardo profondo.

Una lente di ingrandimento, appoggiata sul tavolo, invita a comprendere che dietro alla facile etichetta di “figurativo”, anche nell’arte di Francis, c’è dell’astratto. E le sue pennellate lo dimostrano.

La stessa lente di ingrandimento sosta accanto alla postazione di Kitty per permetterle di leggere senza affanno. Lei, che forte e silenziosa guarda il marito senza stanchezza. Guarda tutto, conosce tutto dell’opera di Francis. Ma non un segno di stanchezza, di annoiata “pre-conoscenza”. I nudi che la circondano, i sessi maschili e femminili che riempiono alcuni dei sui orizzonti visivi l’arricchiscono, e non infastidiscono, come potremmo pensare succederebbe a “signore di una certa età”. Gli occhi di Kitty seguono attenti, e forse anche orgogliosi, lo svelarsi di una pinacoteca mobile privata alla presenza di ospiti rapiti. E Francis si aggira, attento e leggero, in quegli spazi che lo abitano.