Anno 1956. Roma, Via Mario de’ Fiori 26. È sera e in una saletta riservata di un vecchio, glorioso ristorante, il Ranieri, si cena e si chiacchiera in un misto di italiano e francese. Al tavolo siedono anche due personaggi noti. Uno è Corrado Cagli, pittore, scenografo e musicista, artista versatile come pochi, che al tempo ha già esposto i suoi dipinti tra Italia, Francia e Stati Uniti, dove ha contribuito a fondare, dieci anni prima The Ballet Society, la prima formazione del New York City Ballet. L’altro è Marc Chagall, che proprio in quel periodo lavora a uno dei suoi dipinti più famosi, Paris entre deux rives; è di passaggio in Italia insieme alla seconda moglie, Valentina Brodsky, la sua Vavà, che gli siede accanto. Dall’altro lato c’è una ragazzina di quindici anni, affascinata e frastornata, divisa fra la timidezza e la felicità di trovarsi lì.

Oggi il ristorante Ranieri non esiste più, ha chiuso dopo un’onorata carriera di circa centosettant’anni, e la ragazzina è diventata una signora elegante e discreta che conduce una vita non comune. È famosa, ha lavorato nel cinema e nel teatro, in tv e in radio, come attrice e come conduttrice. È Simona Marchini. Il pubblico televisivo la ricorda soprattutto come la segretaria dolce, ingenua e un po' svampita di Quelli della Notte mentre il pubblico teatrale la conosce, oltre che come interprete, anche come regista, soprattutto di opere liriche. La musica classica è, infatti, una delle sue grandi passioni, grazie alla quale da vent’anni è sovrintendente del Todi Arte Festival. Non tutti sanno invece della sua lunga esperienza nel mondo delle arti visive, un amore grandissimo, ereditato dal padre, Alvaro, che fondò nel 1959, nel centro di Roma, una galleria d’arte, La Nuova Pesa, che diventò presto un punto di riferimento a livello internazionale per gli intellettuali dell’epoca, un luogo di incontro e di scambio di idee e progetti dove la cultura era intesa a tutto tondo, senza confini o limitazioni. Così nel lungo elenco di nomi legati alla galleria compaiono quelli di artisti - da Pablo Picasso, al quale fu dedicata qui la prima mostra italiana con opere destinate alla vendita, a Ottone Rosai, Renato Guttuso, Giacomo Manzù, Mario Sironi, Antonietta Raphaël e Fernand Léger – ma anche quelli di poeti, letterati e registi, come Roberto Rossellini, Italo Calvino, Alberto Moravia, Elsa Morante, Pier Paolo Pasolini, Giuseppe Ungaretti.

Come nacque l’avventura di suo padre nel mondo dell’arte?

È una storia lunga. Mio nonno, muratore, a causa delle persecuzioni fasciste, era stato costretto a scappare da un paesino dell’Umbria, Moiano. Venne a Roma e qui costruì da solo la sua fortuna. Ma all’epoca c’era un’altra dimensione, un altro modo di pensare e di vivere, così mio padre, nonostante l’impresa di costruzione fondata da mio nonno, da ragazzino studiava e contemporaneamente lavorava. Quando riusciva a mettere due soldi da parte, comprava un quadretto, una litografia, oltre a un enorme numero di libri, perché amava molto sia l’arte sia la letteratura. Già per natura, poi, era un uomo molto curioso, fantasioso e questo lo portò a diventare grande amico di diversi artisti, a cominciare da Guttuso. Così nel ’59, in un periodo di grande fermento nel mondo dell’arte, un momento di dibattiti e forti polemiche tra gli astrattisti, i concettuali e i figurativi, mio padre decise di aprire la galleria.

Cosa ricorda dell’atmosfera di quel periodo così vitale e movimentato?

Erano anni meravigliosi e, in un certo senso, paradossali. Mio padre e gli artisti che frequentavano la galleria erano tutti amici fraterni, si frequentavano quotidianamente, si ritrovavano tutte le sere all’osteria… e tutte le sere litigavano, regolarmente! Si riappacificavano ma la sera dopo litigavano di nuovo. Anche a casa nostra c’era un’atmosfera vivace, si discuteva, si giocava a carte, soprattutto quando veniva a cena Corrado Cagli, che era molto amico di mio padre e di molti artisti internazionali, compreso Chagall. Erano partite interminabili. Quando mia madre lasciava il gioco, spesso chiedevano a me di prenderne il posto e io, giovanissima, andavo al liceo, accettavo ma crollavo dal sonno. Ho tanti ricordi allegri, divertenti… Ai vernissage poi arrivava tutto il mondo. C’era una borghesia molto civile, molto partecipe. Nel mondo della cultura esisteva una grande coesione, grande compattezza. Si potevano incontrare insieme Pasolini, Fellini, Mastroianni ma anche Togliatti, Campigli, Antonioni, Anna Magnani… Poi iniziarono gli anni di Piombo, le difficoltà, anche nell’azienda di mio padre, e così nel ‘76 lui decise di chiudere la galleria, anche se con tanto rammarico e tanto dolore. D’altra parte, purtroppo, c’erano problemi più grandi sulle nostre teste.

Alcuni anni dopo lei raccolse il testimone ed è iniziata questa seconda stagione. È stato facile ricominciare?

Assolutamente no. Riaprii nell’85. Mio padre era malato. Se ne andò a settembre e io un mese dopo dedicai a lui la prima mostra. Ho riaperto per incoscienza, ma ero mossa dal desiderio di cancellare il grande dispiacere vissuto da mio padre all’epoca della chiusura. Lo feci con i soldi messi da parte con i primi lavori in televisione. Ma i problemi furono tanti. Ero stata dieci anni fuori dai giochi per il matrimonio e per tanti problemi personali.

Eppure la galleria tornò presto ad essere un centro culturale importante, come lo era stata negli anni del Neorealismo, con suo padre.

È vero, La Nuova Pesa diventò la “casa” dei giovani artisti degli anni Ottanta, soprattutto artisti romani molto legati al mondo della letteratura. Era venuto da me Arnaldo Colasanti, che ora è un critico letterario oramai consolidato e famoso, ma allora era giovanissimo. Mi propose di riaprire anche ai poeti e ai letterati. Dissi di sì e organizzammo incontri indimenticabili. E tutto con una spontaneità e una naturalezza che veniva solo dall’entusiasmo e dalla voglia di fare le cose. Vennero da noi grandi poeti, come Giorgio Caproni e Amelia Rosselli, per esempio. Fummo tra i primi a ospitare musica, lettura e recitazione in galleria. Aprimmo al design, con un omaggio a Ettore Sottsass. Ad una mostra arrivò anche Renzo Arbore. In esposizione c’erano opere di Piero Dorazio, che era grande appassionato di clarinetto, il quale mi chiese se secondo me Renzo sarebbe venuto a suonare con lui. Io gli dissi che mi sembrava improbabile. Invece Renzo, generosamente, venne e portò anche tutta la sua band. Fecero un concerto vero e proprio, stupendo, suonarono fino a mezzanotte. Fu bellissimo vedere l’entusiasmo di due artisti grandi su due piani diversissimi ma messi insieme dalla passione per la musica e il jazz.

E nel 2002 La Nuova Pesa ospitò la mostra di Jannis Kounellis e Rebecca Horn.

Fu un’emozione grandissima. Ero diventata amica di Kounellis e di sua moglie Michelle. C’erano un grande affetto e una grande simpatia, veramente è stata una cosa molto preziosa nella mia vita questo contatto con un artista così importante, che io stimavo da tanto tempo. Lui una sera a cena mi chiese se c’era una mostra che mi sarebbe piaciuto organizzare. Io per scherzo, ridendo, risposi “Be’, la tua!” E lui, serio, rispose “Perché no?”. Poi mi chiese se avessi desiderato anche un altro nome e io buttai lì “Rebecca Horn”. Mi disse “Bene, ci parlo io”. Di lì a poco Rebecca mi invitò in Germania, nella bella casa che era stata dei suoi nonni. E la mostra si fece. Era il 2002. Un sogno che si realizzava. Non riuscivo a crederci, ero emozionatissima! Ma ci fu un episodio buffo: la sera in cui stavamo per finire di montare le loro installazioni di arte povera, vidi Kounellis pensieroso. Gli occorrevano un cappotto nero da uomo e una sottana di seta rosa. Andai nel panico, era tardi, i negozi erano chiusi. Poi la folgorazione: il cappotto di mio padre, che conservo a casa mia, e una delle mie sottanine del corredo. Corsi a casa, frugai in tutti gli armadi, li trovai e alla fine furono inseriti nell’opera in una maniera veramente molto suggestiva.

Grazie all’arte, quindi, oltre ad ottenere molte gratificazioni professionali, ha avuto modo di costruire anche rapporti di affetto e amicizia.

Effettivamente ho vissuto un attraversamento sentimentale dell’esperienza artistica. Nelle cose che faccio ho messo sempre entusiasmo, amore, passione e tanto cuore e devo dire che non c’è persona tra quelle con cui ho lavorato in galleria che alla fine non mi abbia gratificato o voluto bene. E questo, penso, perché hanno riconosciuto in me una pulizia etica profonda. Ho avuto grandi artisti che comunque son venuti a esporre nella mia galleria, anche se la mia non è una galleria di mercato. Oggi il mercato è una specie di guerra sanguinosa, devi investire tanto denaro… Un tempo c’era una dimensione più umana e familiare anche da questo punto di vista. Venivano da noi anche il medico, l’avvocato, che magari acquistavano poco alla volta, a rate, ma consideravano l’arte parte di un corredo umanistico da lasciare in eredità, un’eredità culturale, prima ancora che economica.

L’arte come valore sociale. A questo proposito, anche lei come faceva suo padre, cerca di portare più persone possibile in galleria. Ad esempio, con Viva “una rivista in carne e ossa” che è una realtà molto originale, a partire dal titolo.

Sì, è un appuntamento mensile aperto al pubblico e dedicato all’arte e alla lettura di poesie. Collaborano tanti amici, come Claudio Damiani e Stas’ Gawronski. Ogni mese scegliamo una parola tematica e dei testi in relazione. Presentiamo uno scrittore che si racconta e legge e, insieme, anche un artista perché la galleria si fonda proprio sulla contaminazione dei linguaggi. Questo è il mio impegno, così come quello per i giovani, anche in campo musicale, un po’ come mia sorella Carla che ventisette anni fa ha creato a Trastevere un teatro meraviglioso per bambini e ragazzi. Con il maestro José Maria Sciutto, un genio della pedagogia musicale, che ha creato le voci bianche per il Teatro di Santa Cecilia e per il Teatro dell’Opera, organizzammo belle cose, come corsi nel quartiere di San Basilio e un concerto con trecento ragazzini a San Giovanni. Ho sempre cercato un rapporto con l’ambiente, con la città e con i giovani, che hanno qualità e sensibilità, molto più di quel che vogliono farci credere. E non è finita, finché avrò fiato cercherò di realizzare iniziative, anche con l’Unicef, di cui sono ambasciatrice dal ’97. Di progetti ne ho sempre tanti e sono quelli che mi tengono in vita.