Si è chiuso a Bologna un evento straordinario, una mostra fotografica e multimediale, nata da un progetto di Edward Burtynsky, Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier, che ha come titolo Antropocene e che documenta, attraverso foto, cinema, realtà aumentata e ricerca scientifica l’impatto devastante ed ormai indelebile dell’attività umana sugli ecosistemi e sul volto stesso del pianeta Terra.

Ma cosa significa “Antropocene”?

Questo termine, dall’onomatopea vagamente minacciosa, fu coniato nel 2000 dall’ingegnere premio Nobel per la chimica Paul Crutzen ed è divenuto il nome dell’attuale Epoca geologica. In realtà, nella sua accezione iniziale, voleva solo definire in maniera sintetica il passaggio dall’epoca relativamente stabile dell’Olocene, che durava dalla fine dell’ultima era glaciale, grosso modo 11000 anni fa, all’epoca attuale, caratterizzata da un’elevata, generale instabilità, causata appunto dall’impatto globale della attività antropica sul pianeta.

Ma Crutzen e i suoi collaboratori avevano sottovalutato sia il successo di tale definizione che il complicato iter per dare ad essa una dignità scientifica oltre che filosofica.

Infatti, visto l’uso sempre più frequente che da allora si iniziò a fare nella letteratura scientifica del termine “Antropocene” si è deciso, nel 2009, di istituire un gruppo di studio ad hoc, l’Anthropocene Working Group, (all’interno della Subcommission on Quaternary Stratigraphy il cui operato e le cui decisioni sono sottoposte a loro volta al vaglio definitivo della massima autorità in tale ambito: l’Unione internazionale delle Scienze Geologiche che ne ratifica o meno le decisioni), per definire cronologicamente l’inizio della nuova epoca.

Dopo molte discussioni e controversie, si è deciso di far partire l’Antropocene non dall’inizio della Rivoluzione Industriale dell’Ottocento come molti scienziati proponevano, bensì dalla cosiddetta “Grande Accelerazione” dell’attività antropica della metà del XX secolo, e cioè da quando negli strati geologici di tutto il globo ha iniziato indiscutibilmente a comparire sia quello che si è stabilito essere il “marker” primario dell’attività umana, individuato nella presenza di radionuclidi artificiali, conseguenza degli esperimenti nucleari del secondo dopoguerra, sia i “markers” secondari come le microplastiche e gli insetticidi come il DDT.

Tale limite stratigrafico inferiore dal quale si inizia a considerare la nuova epoca viene chiamato nel colorito lessico dei geologi: il “chiodo d’oro” dell’Antropocene.

Tra i markers secondari che definiscono l’attuale neonata epoca geologica ce ne è uno meno appariscente forse, ma certamente più inquietante e che riguarda direttamente la biosfera: la grande quantità di specie estintesi negli ultimi decenni, tanto che gli scienziati ipotizzano l’inizio della sesta grande estinzione di massa occorsa nella storia del pianeta ed il cui simbolo, nella mostra Antropocene, è il dolente sguardo di Sudan, ultimo esemplare maschio di rinoceronte bianco del nord, specie portata all’estinzione dagli umani per una abominevole, insaziabile bramosia nei confronti del suo corno per le sue presunte proprietà taumaturgiche. Anche in questo caso l’obiettivo degli artisti si pone da un punto di vista spassionato, assolutamente non giudicante, ma con effetto dirompente espone nella sua solitudine la straziante, monolitica mole del gigante Africano con il suo occhio rassegnato di fronte al triste destino che lo attende.

In altri scatti gli artisti propongono la sconcertante geometria della erosione del suolo causata dall’attività mineraria e petrolifera, proponendone, con le immagini, la tragica macabra bellezza e portando inevitabilmente a confrontarla, attraverso altre installazioni multimediali, con la rutilante luminosa magnificenza della natura incontaminata laddove questa, incredibilmente, ancora sopravvive.

Alla fine della mostra si esce profondamente turbati e non si può fare a meno di domandarsi come si sia potuti giungere a questo punto, di chi sia la colpa, cosa succederà nel prossimo futuro e soprattutto come ognuno di noi debba porsi di fronte ad un simile scenario. Come si sia potuti giungere a questo punto è adombrato, almeno nella tradizione Cristiana, già nella Genesi, quando, per tracotanza, Adamo volle essere come Dio e per curiosa avidità precluse il Paradiso, situato nel Giardino dell’Eden, alla sua discendenza fino alla fine dei tempi.

Di chi sia la colpa, di quale razza, tradizione, cultura attuale o del passato, me lo sto chiedendo io stesso mentre scrivo queste righe, al caldo dei miei 21 gradi (si sa, Bologna è una città fredda e noi vogliamo stare al calduccio, che diamine!) in una casa dove sono giunto dal lavoro col mio potente SUV da 360 cavalli... e allora capisco, arrossisco, alzo lo sguardo e nello specchio di fronte alla scrivania vedo riflessa la brutta grinta di uno dei tanti colpevoli.

Cosa succederà nel prossimo futuro? Semplicemente, come ha sempre fatto in passato di fronte a eventi ben più catastrofici dell’avvento dell’Antropocene, “Il Pianeta Azzurro”, surriscaldato dall’effetto serra, scavato e crivellato dall’attività estrattiva e mineraria, privato di migliaia di specie animali e vegetali, si adeguerà alle nuove condizioni modificando un po’ le sue ecozone, ampliando i deserti, cancellando l’Artico, innalzando i mari e così, con una scrollatina di spalle, decimerà la popolazione di interi continenti, costringerà a migrazioni epocali milioni di esseri umani rispondendo in questo modo, irritato e stupito, alle provocazioni del suo più invadente abitante.

Infine come porsi di fronte a un simile scenario? Alcuni, soprattutto gli ambientalisti, in nome del principio di precauzione, auspicano un blocco del devastante progresso tecnologico e addirittura preconizzano la decrescita con un romantico e forse utopico ritorno a modi di vivere più sostenibili. Altri, come i Transumanisti, raccolgono la sfida e rilanciano, convinti che con la geoingegneria, l’ingegneria climatica e genetica e l’informatica si potrà impunemente interferire con le leggi della natura in una illimitata fiducia nelle “magnifiche sorti e progressive” del genere umano con l’aiuto della scienza e della tecnologia.

Tutte queste posizioni sembrano non tenere conto che noi siamo natura, siamo immersi in essa e ne facciamo parte.

Che i movimenti filosofici, religiosi o correnti varie di pensiero ci abbiano indotti a ritenerci fuori dalla natura, come spettatori su di un palcoscenico riparato, come predoni rapaci o come zelanti custodi di un qualcosa che comunque è altro da noi, ciò costituisce un tragico, fatale errore.

Personalmente non condivido l’irragionevole ottimismo del Transumanesimo e credo che si illuda nonostante i suoi illustri padri fondatori, tra cui il gesuita proibito Pierre Teilhard de Chardin, che nel mirabile tentativo di conciliare Darwin con la Tradizione Cristiana, riteneva “l’Evoluzione andare verso lo Spirito Personale e attraverso questo verso il Personale supremo che è il Cristo Universale”, e affermava che l’Umanesimo, con le sue radici in Grecia, andasse abbandonato definitivamente e soppiantato da un nuovo umanesimo, ispirato all’uomo pienamente evoluto che si eleva al di sopra di sé per raggiungere il suo vero fine nell’essere sovra-umano.

Io credo invece che oggi lo stesso progresso scientifico con l’immensa, stupefacente mole di conoscenza che ci offre rispetto al passato, dovrebbe mostrarci in chiara evidenza ciò che né le filosofie né le religioni erano riuscite a farci capire, e cioè che la chiave per comprendere, nella loro interezza e complessità le leggi della natura, e quindi il nostro ruolo in essa, ci sfugge in progressione logaritmica rispetto alla velocità delle nostre scoperte, perché evidentemente trascende le nostre facoltà.

Tornando un attimo alla geologia e alla stratigrafia, per la datazione delle rocce (secondo il principio della successione faunistica) si usano i fossili guida, e cioè i resti pietrificati di organismi che per essere tali devono soddisfare precisi requisiti. Ossia devono avere la più ampia distribuzione geografica possibile, grande abbondanza di popolazione, e quindi devono essere facilmente ritrovabili nelle rocce sedimentate nel periodo della loro esistenza. Ma soprattutto devono avere avuto una rapida evoluzione e quindi una durata temporale assai limitata permettendo, così, a chi li studia, di ottenere un’elevata precisione nella datazione.

Ecco che forse l’homo sapiens, continuando ad agire come ha agito finora, sarà, per un osservatore del futuro, un eccellente fossile guida.