Un freddo giorno di dicembre, in una piccola stanza, due persone si incontrano e fanno una piacevole chiacchierata sull'arte, con una bellissima falena morta, una piantina di rose e un libro per bambini. L'artista che intervisto si chiama Giovanni De Lazzari, lavora tra Bergamo e Lecco, è un disegnatore, un esploratore, un pensatore. La sua mostra Giorni Segreti vi parlerà di lui alla Fondazione Pini di Milano fino al 6 marzo, ma intanto ve ne propongo un piccolo saggio.

Mi incuriosisce innanzitutto questo titolo Giorni Segreti...

Giorni Segreti è il mio Titolo, è il titolo che in realtà avrei voluto dedicare a una raccolta di poesie che non ho mai pubblicato, a cui sto lavorando da diversi anni. Sono ʻgiorni segretiʼ quei giorni che l'artista dedica alla ricerca e che non sono condivisibili, per loro stessa natura, con lo spettatore. Questo vuol dire che l'osservatore si pone davanti all'opera ignorandone il percorso di formazione, ovvero proprio ciò che avviene in quei giorni. Questa mostra tenta di svelare, almeno in parte, quel processo, esponendo sia le opere finite che i taccuini. I taccuini sono il luogo dove provo e sviluppo le idee: finché non le esprimo attraverso un disegno o uno scritto non sono chiare neanche a me, non ne capisco i limiti. Non possedendo occhi rovesciati verso la mente, quando immagino una struttura ho bisogno di vederla per capirne il funzionamento. Solo allora posso iniziare a elaborarla e tendere verso la realizzazione di un'opera.

Quanto tempo ti richiede l'elaborazione di un'idea?

Moltissimo tempo. È per questo che faccio poche mostre. Quando ero ragazzo, e non ero così cosciente della mia lentezza, desideravo continuamente esporre. Poi crescendo ho capito che la maturazione dei miei pensieri è lenta e mi sono accettato. Dall'inizio del mio percorso, nel 2000, penso sempre le stesse cose, ritorno sempre sugli stessi pensieri. Non ho un ampio ventaglio tematico. La mostra alla Fondazione Pini include lavori che produco dal 2008, ma se tu guardi a tutto ciò che ho fatto prima di quell'anno troverai gli stessi soggetti, solo più immaturi dal punto di vista della tecnica. Io ho sempre pensato ai miei cani, alle mie rose tagliate...son lì.

Emerge con forza dalla mostra il tuo rapporto con la natura. Ce ne puoi parlare?

Sì, mi ispiro quasi costantemente alla natura, elaborando suggestioni di cui si alimenta il mio immaginario. Il primo dipinto che ricordo di aver visto nella mia vita, da bambino, e che è rimasto per me fondamentale, è il San Giorgio e il drago di Paolo Uccello. Lì la natura è una presenza determinante, è il territorio simbolico che produce l'immagine, i personaggi, le apparizioni. È il luogo misterioso e misconosciuto che suscita inquietudine e paura nell'uomo. Mi sento profondamente vicino a quel modo di sentire. Nutro una sorta di timore reverenziale per la natura: nel suo procedere ciclico è nascosto il segreto dell'eternità.

C'è un'opera esposta, in particolare, in cui lasci trapelare questo tuo rispetto profondo per la vita della natura?

Il disegno dal titolo Cenotafio rappresenta una radice con una foglia su cui è adagiata una vespa. È una sorta per me di monumento attraverso il quale ho cercato di dare dignità a una vespa morta che ho trovato in un prato. È difficile considerare la mortalità di un elemento così piccolo pari alla nostra condizione. Osservo spesso questi materiali che trovo nei campi. È una forma davvero di reverenza, di grande amore.

Mi è sembrato di capire che un altro tema presente sia quello dell'intreccio. Ce lo spiegheresti nel lavoro dal titolo Abbracci? Da dove scaturisce la scelta di fare un trittico?

Nel caso di Abbracci è legato a una suggestione innescata da due immagini che ho visto: da una parte, la lotta tra due serpenti per il territorio e, dall'altra, il loro accoppiamento. L'identità formale tra queste due situazioni così lontane, la morte e la vita, mi ha entusiasmato. Ho cercato di elaborare un disegno che, all'interno di una conformazione a intreccio, alluda a entrambe le possibilità perché volevo ragionare sulla condizione di ambiguità dell'immagine. E poi ti dirò, questi animali sono piacevolissimi da disegnare, sono pura linea. In realtà non si tratta di un trittico, ma di un'opera divisa in tre parti, tre rielaborazioni di posizioni analoghe assunte da questi rettili. In effetti, come accennavo prima, si può intendere tutto il mio lavoro come un lavoro in serie. Non mi basta un'immagine, ovvero raramente ho considerato un'immagine adeguata a manifestare la pienezza espressiva di un soggetto. Quando osservo un elemento naturale, prima cosa, mi sento profondamente inadeguato perché è complesso formalmente, e da molti altri punti di vista; seconda cosa, so che disegnando non riuscirò mai a eguagliare quella complessità. Il mio lavoro sarà sempre un lavoro di sottrazione, di sintesi e quindi una sola possibilità non mi basta.

Come si fa a raggiungere una così elevata precisione nel disegno?

Faccio tanti studi e cancello anche nel lavoro finale. Il disegno, almeno per me, è un ambito complesso dove non si smette mai di sbagliare. C'è tanto ripensamento all'interno delle forme e nell'atto finale sto molto leggero in modo che riesca a intervenire con una lieve cancellatura. Il segno poi non è un segno unico è un segno stratificato. Un segno unico non funziona, tende a trasformare la forma in un insieme omogeneo dal punto di vista espressivo, mentre per riuscire a rendere una variabilità anche all'interno di una linea devi sovrapporre. Quindi traccio un segno su un altro segno su un altro segno ancora. C'è un bellissimo saggio di Gombrich sullo studio di Sant'Anna, la Vergine e il Bambino di Leonardo in cui lo storico delinea il processo di sviluppo dell'idea nella metodologia leonardesca. È un disegno che continua a esprimersi per sovrapposizioni, per pentimenti, per sconvolgimenti dell'idea precedente e alla fine ciò che ottiene è un disegno che è quasi indecifrabile, ma che registra tutti i passaggi del pensiero. Leonardo non era mai soddisfatto e continuava a rielaborare la sua opera inseguendo un'irraggiungibile coincidenza tra immaginazione e resa concreta.

La maggior parte delle opere che esponi sono effettivamente disegni, puoi chiarirci quale significato ha per te questa tecnica?

Amo disegnare, semplicemente perché è bello, fisicamente bello. Certe cose le scegli per quello, per la sensazione di felicità che ti procurano. Poi mi piace l'idea di poter creare uno spazio o l'illusione che quello spazio esista, attraverso il semplice tratteggio a matita. È un'apertura su altri luoghi mentali.

Alla Fondazione Pini proponi anche dei lavori molto diversi, dei parallelepipedi a cui hai sottratto gli angoli inserendovi delle figure: che significato hanno?

Queste opere mostrano come il mio immaginario funzioni per stratificazioni e compenetrazioni di immagini, ma anche per vuoti e distanze. A me interessa più il rapporto tra le immagini che le immagini stesse. La superficie bianca del parallelepipedo è un involucro, una porzione di realtà omogenea. Se inizi a scavare sotto questa apparenza trovi stratificazioni di significati, che prima non ti erano visibili. Per questo tipo di opere sono partito da una suggestione innescatami dalla osservazione dei fossili. Quando scavi una roccia, scopri in profondità delle presenze, strati di segni, che il tempo ha casualmente accumulato. Sfrutto questa idea di sedimentazioni naturali e casuali per ricercare connessioni significanti e non casuali tra immagini che colloco ai margini. Per me porre qualcosa al margine significa conferirgli la massima importanza, sia dal punto di vista estetico che dal punto di vista concettuale.