Di questi tempi, anche io e l'artista Oscar Giaconia, milanese, classe 1978, rinunciamo a fare un'intervista vis-à-vis e ci serviamo di Skype. Qualche problema di connessione ci disturba all'inizio, ma una volta regolate le frequenze... partiamo!

Al momento stai esponendo contemporaneamente in due mostre, una collettiva al MART di Rovereto e una personale alla Galleria Monitor di Roma. Puoi darci le coordinate di questi progetti?

I lavori presenti alla Galleria Civica di Trento, sede del MART, appartengono a in ciclo pittorico derivante dalla mostra Green Room (BACO, 2016), durante la quale chiamai in causa Vittorio Sodano, truccatore prostetico che già seguivo da tempo, noto per il suo lavoro in Apocalypto di Mel Gibson e Il Divo di Sorrentino. Il trucco come forma di religiosa meditazione, mediazione truccata, inganno cosmetico, gioco di prestigio artificiale, magia, divenne l'ordigno-macguffin per innescare una serie di tentativi di sabotaggio ai danni dei personaggi arruolati. Li adoperai in una jam session di atti goffamente performativi, consapevole che avrei destinato tutta quella goffaggine, intesa come parodistica messa in scena differita, smarginata e asincrona, al tritatutto pittorico. I ruoli, scelti col piglio del bambino che gioca ad auto arruolarsi, dunque a travestirsi, attraversavano polarità che partivano dall'esercizio a rintracciare quel ʻmarker attorialeʼ di chi ricopre i panni militari del controllo, fino al suo oblio, al suo abbandono. Del capitano-nostromo, del fischerman, del monomane e del disinfestatore restarono solo le rispettive vestigia tradotte e tradite in pittura, ridotti a coaguli polimerici, crisalidi in-organiche, giocosamente analoghi ai bluff fossili di Phillip Gosse.

Bhulk, in un certo senso, è un'appendice, un'escrescenza-polipo di quel misfatto paraperformativo del 2016. Il “resto” come “risorsa”, in altre parole risurrezione del rimosso. La pittura avvia un lavorio di ripristino delle macerie. Del riciclo dei materiali di risulta e relativa e inesorabile precipitazione su un supporto-sudario rimane la traccia d'unto, l'alone-controfigura. Creazione di un'im-propria piccola catastrofe portatile. È uno stillicidio costante di rigenerazione e trasformazione a partire da ciò che è già stato dis-fatto: il ciclo precedente è il terreno di coltura di quello successivo e così via fino allo sfinimento, fino allo stoccaggio dell'operazione-opera in quel recesso psichico che chiamo “area di stoccaggio d'olio esausto”.

Mi sembra più interessante concentrarci sulla tua personale. Partirei dal titolo, Bhulk: cosa significa?

Bhulk è un'assurda parola-polimero, unico corpo frankeinstaniano composto da più parti. È un bricolage omofonico e onomatopeico tra ammassi e pezzi sfusi. Parola teratomorfa, arcano bouquet alieno, che condensa in sé esperimenti eugenetici, chimerizzazioni, derive e attraversamenti dimensionali tra multiversi, ologrammi e mondi brana. La lettera H è un innesto computazionale, calcolato, pari al Sinthomo con l'h di lacaniana memoria. Utilizzando una parola preesistente, come un ospite da parassitare, ecco il sopraggiungere di uno spillover, dove un'incognita biologica a metà strada tra la vita e la morte salta da un corpo all'altro, da una specie a un'altra generando l'incipit di una degenerazione: è un trapianto alloplastico non immune da rigetti. Una singola lettera può diventare un corpo estraneo, un oggetto mnestico ai fini di favorire l'attecchimento e il proliferare pandemico nel proprio tessuto immaginario. Tra l'interstizio Bull, inteso come divenire molteplice tra toro, uro, minotauro, bulldozer, bull dose, bulldog ecc. e Bulk, in quanto proprietà immanente, consistenza relativa alla materia in quanto tale (con tutte le sue possibili declinazioni chimico, informatiche e idraulico fognarie), intercede e s'infiltra Hulk, umanoide, mutante per eccellenza della cultura di massa che non cessa di fare massa, ultracorpo verde, innaturale, sovrumano. Qualcuno diceva che se fossimo verdi non avremmo bisogno di nulla.

Felice Cimatti, nel saggio che accompagna la mostra, parla per le tue opere di “pittura figurale”. Potresti chiarirci che cosa intende?

La figurazione è pari a un'esca-simulacro. È la pelle secca della cosa, un adescamento, un escamotage. Un tranello che fa da ritornello, cioè da tentativo di ritorno al proprio centro che manca, un contrappunto ricorsivo nel processo di ricerca. In una parola sola è un'allodoxia, un falso riconoscimento e, aggiungerei, un falso problema. La figuratività, in un primo momento potrebbe sembrare l'ancoraggio, la conseguenza ʻfunzionaleʼ al processo produttivo, ma il gioco degli equivoci cede presto il passo all'assenza di messaggi, di narrazioni e di simboli. L'ingresso nel figurale non è una scelta, è una condizione, è un attenersi al fatto, come l'appostamento senza aspettativa del parassita.

Ci fai fare un giro per le due stanze della mostra descrivendoci cosa si può vedere?

Come nella scena immaginaria di un delitto, non cercherò di risalire al corpo o al fantasma dell'opera, ma alle sue tracce: due stanze, nella prima un trittico di iconostasi taurine, nella seconda un dittico di umanoidi incubati, ricettacoli di protesi e pezzi sfusi, il simulacro gonfiabile di un teschio alieno precipitato in un terrario e, in ultimo, l'erezione di una colonna ʻstiliticaʼ di grugni di maiale disidratati. Il tauro centrale Bhulk (The Bulldoll) è una grande biopittura, lavoro in pelle bovina, patchwork tassidermico di pezzami misti. Si staglia come una silhouette primitiva in quello che sembra essere un acquario marcescente, infestato da organismi indistinti, forse batteri, alghe, muschi, muffe, spore, parassiti o plasmidi. Emergono a mio avviso due indici singolari e incongrui: l'occhio trapiantato di mucca, reso vitreo dalle sue ruminazioni-remuginazioni metaboliche e la cosa-lamella che orbita in zona genitale, incarnazione-sinthomo, traccia mnestica di una sessualità pulsionale, artificiale, non riproduttiva. Una riemergenza sexuale. A protezione di quest'ultimo due guardie del corpo, due bulldozer cornuti, i ʻgorillaʼ taurini Bhulk (The Bulldose). La condizione del loro essere corpo è quella di non sapere d'esserlo. Sono ʻoblio incarnatoʼ, direbbe Felice Cimatti, derivati dal coagulo di liquami proteici. Pur essendo composti da quelli che potrebbero sembrare pezzi ʻqualunqueʼ, dove qualunque sta a indicare né questo né quello, si rivelano possibili figure della singolarità pura.

Nel dittico Mr.O. il soggetto è la sequenza, assoggettato e coincidente con la sua trappola-container. Un duetto binario di teste d'androide isterico misteriche, composte da sedimenti e detriti oggettuali si depositano rispettivamente su un letto di bioplastica e di tartan, quest'ultimo materia-marker ricorrente e virale nei processi di gestazione e incubazione delle immagini.

I-O-I-O è un’imago, vanitas ortopedica, ritrovamento di un teschio di un cucciolo d'asino affogato in una cisterna d’irrigazione. L' io-io del ragliare allarmato ormai inudibile e invisibile del somaro, in quella che si potrebbe chiamare residuo infantile di una violenza primaria, fa il verso all'io ortopedico a sostegno della propria identità. L'abitudine ragliante e ronzante nel dire i-o-i-o si rivela il principale ostacolo sulla strada del ritrovamento del corpo e della sua immanenza. Il teschio è rovesciato, alcuni innesti biologicamente altri gli fanno assumere sembianze da mutante, da criptide, un essere scientificamente inesistente.

Si chiude con U.P.D. CALABIYAU, un dozzinale assemblaggio suino, erezione totemica del basso, eleva verticalmente, come giustamente osserva Andrea Zucchinali nel suo studio. Il predatore di ossessioni, ciò che per sua natura rovista orizzontalmente nel fango. “Feticcio, mostruoso anellide mutante, esso sembra scrutarci dalla disturbante profondità delle narici-cavità oculari, evocando il meccanismo di rotazione assiale che Rosalind Krauss individua alla base del processo di generazione dell'informe batailliano”.

Mi sembra di capire che l'indagine sui materiali sia fondamentale per te...

Il pensiero visivo cui appartengo si condensa in un'istanza delle sostanze. Tutto si sostanzia nelle sostanze impiegate: oli, grassi, polimeri, leganti proteici e sintetici, guarnizioni, pelli e supporti in-organici concorrono all'unisono affinché la materia-martire si possa incarnare e cicatrizzare sul supporto-sudario. Le sostanze implicano una sorta di corrispettivo atletico di gestualità muscolari traducibili attraverso il lasciapassare del linguaggio. Questa escalation la chiamo “passaggio polare dalla mistica alla mestica”, intermezzato dalla mnestica, equivalenti ai tre luoghi psichici lacaniani. La trascendenza simbolica del linguaggio (mistica) impastato con l'immanenza reale e irriducibile della sostanza (mestica) intermediato dal tessuto spugnoso, dal ricordo filtrante e patogeno dell'immaginario (mnestica).

Qualche appunto sui colori invece?

Gli alchimisti erano grandi appassionati delle scorie di lavorazione. Fondarono una scienza eretica che facesse risorgere dalle ceneri, feccia e residui vari, quei colori muti, fangosi, malati ed escrementizi che erano soliti chiamare “terre fetide”. Bruciavano e calcinavano i resti dei loro campioni producendo il colore, ma sarebbe meglio dire il non-colore della morte per eccellenza, il caput mortuum, la ʻtesta di mortoʼ. Il fine ultimo era quello di raggiungere, attraverso la ricerca della putrefazione, la resurrezione. È qualcosa che osservo spontaneamente nel processo di lavorazione prodigiosa dei formaggi, il Mysterium casei e le sue oscure cantine-santuario di trasformazione, o nei vini da dolce. Affinché siano deliziosi e zuccherini, si sottopone la materia prima a tre forme di trattamento naturale direttamente sulla pianta, congelamento-essiccazione, decomposizione. Corrompendosi e fermentando, formaggi, vini e colorazioni spontanee che ne derivano dal trattamento, ringiovaniscono, risorgono. Sospetto sempre la strisciante possibilità di perdere il controllo all'interno dei non-colori. Le loro cromie melmose, livide, ammuffite, marce e terrose non sono una scelta, ma una condizione fisiologicamente irreparabile. Mi consegno senza rimedio ʻall'essere cosìʼ di questo stato entropico di colori acromatici, degenerati, vegetativi, virulenti, assurdamente sovraccarichi di vita. Ne emerge una materia cerosa, collosa, in cui l'agglutinamento invischia e annulla il ritaglio, intrappola i fantasmi e cancella la nominazione.

Come ha avuto inizio questo tipo di ricerca?

Cerco per ri-cercare, è un macinare puramente ricorsivo, una coazione a ripetere indipendente da ciò che si produce. Si stabilisce con il linguaggio un rapporto computazionale automatico, cioè da automa. È come giocare psicoticamente con uno Yo-Yo. In una parola, non posso uscire da quella macchina pittorica che coincide con il (mio) corpo stesso. Non posso uscire dal linguaggio. È una ricerca impossibile che non esclude tuttavia l’impossibilità della ricerca. L'inizio e la fine possono coincidere, come un nastro di Möbius, dove il sopra e il sotto, il prima e il dopo vengono meno. Come un guanto rovesciato o un tubo di gomma il dentro e il fuori giacciono sullo stesso lato della superficie. Non c'è inizio e non c'è fine perché è il fine stesso a mancare. Il fine è la sua assenza di fine.