Le radici della propria terra hanno spesso un richiamo irresistibile e per Sohail Karmani è stata la riscoperta delle sue origini e dello spirito di Sahiwal.

Nato e cresciuto nel Regno Unito da una famiglia pakistana Karmani è professore ordinario della New York University di Abu Dhabi dove tiene i corsi di laurea su Potere ed etica della fotografia ed Etica dell’immagine. Autore di molti progetti fotografici pubblicati in diverse riviste internazionali per la prima volta, nel 2010, è tornato nella terra dei suoi avi. E, per cinque anni, a partire dal 2015, ha deciso di documentare la vita quotidiana della città dei suoi antenati, Sahiwal, nella regione centro orientale del Punjab, meglio conosciuto come il sito dell’Antica Civiltà della Valle dell’Indo e risalente al terzo millennio a.C. Da questa profonda ricognizione fotografica, omaggio alla bellezza, all’umanità e alla dignità di questo popolo, è stato tratto il libro The Spirit of Sahiwal, a cura di Francesca Interlenghi, edito da Skira. L’autore ripercorre a ritroso in questa intervista la sua profonda e appassionata ricerca nel territorio che ha dato i natali ai suoi genitori e il suo personale senso di fascino per la vita di villaggio che si vive nel Punjab rurale.

Lei tiene un corso di massima importanza per la fotografia oggi e cioè Power and Ethics in Photography. Quali sono i principi del suo insegnamento?

Sì, è il corso che insegno, ma, prima di rispondere a questa domanda, vorrei premettere, che il mio insegnamento non è basato su una serie fissa di principi etici e non è neppure un corso in cui cerco di inculcare ai miei studenti i modi più etici ed eticamente sensibili di documentare la realtà attraverso la fotografia.

È un corso invece in cui gli studenti esplorano le complessità filosofiche ed etiche della fotografia su una vasta gamma di generi fotografici: fotogiornalismo, fotografia di guerra, fotografia di viaggio, fotografia a fini commerciali. L'obbiettivo è consentire agli studenti di sviluppare un senso etico morale e vorrei, a poche settimane dall'inizio del corso, che si rendessero conto di un principio imprescindibile e cioè: sebbene ci siano molti modi moralmente controversi di scattare una fotografia, in realtà non esiste neppure un modo moralmente perfetto di farlo.

La ragione di ciò sta nel fatto che, l'atto stesso di fotografare, in particolare quando si tratta di un soggetto umano, comporta un inevitabile grado di manipolazione, “appropriazione” e rappresentazione. Onestamente, quando, rifletto sul mio lavoro, ci sono degli aspetti in cui, io stesso, non mi sento completamente a mio agio, ma sono anche consapevole che la purezza morale è un obbiettivo impossibile da raggiungere; mi trovo spesso, quindi, a cercare la “giusta” via di mezzo.

Quello che conta per me, quando scatto le mie foto è trasmettere un senso di dignità, empatia e autenticità, forse non sempre ci riesco, ma lascio questo giudizio a chi guarda le mie foto.

Una delle tante cose che colpiscono nelle sue immagini è il senso profondo di una memoria radicata nei luoghi e nei volti. Una realtà sospesa tra passato e presente?

È certamente vero che gli scenari da cui sono attratto sono quelli che trasmettono una realtà sospesa tra passato e presente. Tuttavia non ho intenzionalmente scelto di presentare la società pakistana come sospesa in una sorta di “fuso orario orientale”. Le foto che scatto sono basate su un mio personale senso di fascino per “la vita di villaggio” che si vive nel Punjab rurale - una sorta di richiamo ancestrale - in cui la vita quotidiana è rimasta sospesa nel tempo e non è cambiata molto nei secoli, ma non pretendo neppure che rappresentino in via definitiva la quotidianità a Sahiwal.

Le mie immagini non raffigurano neppure la vita nelle grandi città animate di Islamabad, Lahore o Karachi. Come molti fotografi, gravito verso contrasti, differenze, ciò che non è familiare e ciò che non si conosce. Essendo cresciuto a Londra, avverto un richiamo interno molto forte verso l'intramontabilità della vita dei villaggi rurali.

Come ha trovato la sua terra rispetto a quello che le avevano raccontato suoi genitori?

Quando ho visitato il Pakistan per la prima volta nel 2010, non avevo aspettative. Crescendo in Inghilterra, sono stato sottoposto a due narrative: da un lato c'erano i racconti romantici degli anziani emigrati sulla vita dei villaggi e gli stereotipi del mondo occidentale.

La generazione dei miei genitori spesso ricordava intensamente e bonariamente del passato il che mi rendeva un po' scettico, mi chiedevo, se fosse stato davvero così bello per quale motivo gli stessi decisero di emigrare in UK? D'altro canto, credo però, di aver interiorizzato nella mia menta questa concezione stereotipata occidentale del Pakistan come un luogo cupo, in mezzo agli estremisti e ai militanti e intollerante agli perfetti estranei, in particolare agli occidentali.

Quando sono stato lì invece, sono rimasto stupito dalla straordinaria diversità, dalle forti contraddizioni e dalla sorprendente umanità dei pakistani. Ad esempio, nel cuore della città di Sahiwal si trova una chiesa tipicamente anglicana che poteva essere benissimo un villaggio della campagna inglese; non molto lontano si trova Hira Mandi, il vivace quartiere a luci rosse di Sahiwal. La città è anche sede di un’attiva e grande comunità cristiana e da come mi raccontò un parrocchiano ci convivono dodici diverse denominazioni religiose che vivono fianco a fianco tra i quartieri sunniti e sciiti. Oltretutto, nonostante la cultura conservatrice, non è raro vedere transgender - kusrehs - confondersi in un bazar pieno di uomini con la barba lunga e donne in niqab. Non sto cercando di dire che il Pakistan è una sorta di santuario liberale in stile scandinavo e non sto nemmeno cercando di alleggerire quelli che sono i seri problemi di sicurezza che affliggono il Paese. Quello che dico è che, al di là degli stereotipi, sono stato, devo dire, piacevolmente sorpreso di scoprire una società complessa molto vibrante con persone calorose, ospitali e umane come mai prima io abbia incontrato.

Un'altra cosa è il suo focus sugli sguardi e in particolare sugli occhi di Sahiwal che brillano come pietre preziose. Quanto è un omaggio alla sua terra e ai suoi fratelli? E quanto conta la bellezza di questo contesto?

Sono certamente un romantico. So che sembrerà un cliché eccessivamente sentimentale, ma quando scatto una foto la scatto con il cuore. Prima di premere il pulsante dell'otturatore, ciò che sto guardando attraverso l'obiettivo deve catturarmi ed emozionarmi in qualche modo. Quando sfogliate le pagine del mio libro, effettivamente vi sto portando in un viaggio molto personale ed emotivo e, sì, gli occhi, svolgono un ruolo importante in questo viaggio e, se mi permette un altro cliché, è vero che gli occhi sono lo specchio dell'anima.

Non so se il mio lavoro possa essere un omaggio a Sahiwal perché per molti aspetti sono un estraneo. Non ho mai vissuto in Pakistan e penso che sarebbe presuntuoso da parte mia far passare questo messaggio ma se la gente di Sahiwal, con il tempo, volesse identificarsi nelle mie foto, mi sentirei molto onorato.

Scrive a proposito dei due bambini innocenti e orgogliosi di essere fotografati da lei che rappresentano un esempio degli unpeople dei nostri tempi e in questo caso la sua fotografia vuole essere un tributo alla resilienza e alla loro esistenza.

Sì, in particolare vorrei spiegare una foto che ho scattato in una discarica di Sahiwal in Pakistan. È un'immagine straziante di estrema povertà. Ero molto riluttante a pubblicarla e mi sento ancora un po’ di disagio a volte, forse condizionato dall'idea di poter essere catalogato tra i fotografi che sfruttano l'immagine della povertà. Eppure quando ho fatto le riprese non mi sono sentito imbarazzato perché, per quanto ricordi dell'epoca, la mia presenza ha portato tanta gioia nei volti di quei bambini; mi seguivano, quasi inciampavano tra loro rincorrendomi e mi gridavano nella loro lingua: "Zio, zio! Scattami una foto!".

Dopo averci riflettuto, alla fine ho deciso di pubblicare questa foto. Mi piacerebbe credere che questi bambini innocenti, ai quali nessuno presta la minima attenzione (al di là delle loro famiglie), si sentirebbero immensamente orgogliosi, se solo sapessero che qualcuno, al di fuori della miseria del loro mondo, potesse semplicemente vederli e riconoscerli come se ci guardassimo contemporaneamente negli occhi.

Purtroppo, ci sono tantissimi bambini che vivono in queste baraccopoli. Sono, come dico nel libro, gli unpeople dei nostri tempi, vale a dire persone che sono state effettivamente cancellate e dimenticate dallo Stato e dal mondo, in generale. Se non li avessi inclusi nel mio libro, mi chiedo se anch’io avrei preso parte a questa “abitudine” di cancellarli dalla nostra memoria collettiva. Perciò ho deciso di dedicargli una doppia pagina, un tributo alla loro esistenza e alla loro notevole resilienza.

Qual è stata l'emozione di rivedere la sua terra dalla prima volta del 2010? Quali le sensazioni provate?

Essendo nato e cresciuto in Inghilterra, mi sono spesso chiesto come sarebbe stato il Pakistan e come mi sarei sentito se un giorno avessi visitato il Paese. Quando è successo è stata ovviamente un'esperienza emotivamente gratificante; mi sono riconnesso con le mie radici più profonde, l'incontro con una famiglia che non avevo mai conosciuto e che si era prodigata, in gran numero, per venire ad incontrarmi. La cosa che più mi è rimasta impressa, però, è stato il fascino del luogo. E questo mi ha portato a tornare numerose altre volte negli anni. Dopo ogni viaggio, mi ritrovo ad essere ancora più attratto e con un incredibile desiderio di tornarci e scoprire di più. C'è una qualità mistica inafferrabile in quel posto che è impossibile esprimere a parole. E, in termini puramente fotografici, ciò che mi ha colpito di più sono stati i colori vibranti, la qualità della luce e gli sfondi, ma soprattutto i personaggi del luogo caratterizzati dai loro volti unici e le storie straordinarie che portavano con sé.

Al di là dell'aiuto del suo fratello maggiore e dei suoi parenti che l'hanno aiutata a scoprire anche zone che da solo non avrebbe mai potuto trovare, come è entrato nelle "grazie" della sua gente e come è riuscito a superare ritrosie e timidezze? Credo ci siano dei codici non scritti che si trasmettono tra le persone. È vero?

Sono cresciuto in una famiglia tradizionalmente pakistana a Londra. I miei genitori parlavamo tra di loro in Punjabi quindi, parlando Punjabi e Urdu, ho potuto spiegare il perché volevo fare quelle foto e ho potuto passare molto tempo a parlare con loro. Non avevo bisogno di un traduttore. Questo aiuta enormemente a sviluppare l'intimità. Inoltre, in genere, tendo a essere molto paziente e posso rimanere molto tempo in compagnia di estranei. Penso che se ci spendi del tempo e mostri un interesse genuino, si possono superare la timidezza e le barriere e trovare il momento giusto per “catturare la vera anima di una persona”.

Nel suo libro scrive: "Nei colori grezzi e terrosi delle campagne del Punjab ... c'è qualcosa che trovo straordinariamente rassicurante". Come è riuscito a cogliere queste luci calde e dorate?

C'è qualcosa di unico nella luce in Pakistan. Non sono sicuro di poterlo spiegare a parole. Inoltre, sono particolarmente attratto nello scattare durante le “ore dorate”. Quando sono in viaggio per fotografare, mi piace alzarmi prima dell'alba e catturare la vita nella luce del primo mattino. Allo stesso modo, mi piace anche girare nel tardo pomeriggio, poco prima del tramonto. I colori vibranti e le lunghe ombre che si ottengono conferiscono alle immagini un aspetto molto “caravaggesco”.

Il suo interesse fotografico per cinque anni si è focalizzato sulla narrazione del suo popolo. È un progetto concluso? E oggi, su quali altre realtà sta lavorando?

Le foto nel mio libro sono quasi interamente scattate a Sahiwal. Rappresentano una frazione della straordinaria diversità del Pakistan. È un luogo così visivamente ricco che potrei anche immaginare di dedicargli la mia intera carriera fotografica. Non nascondo che al tempo stesso mi interessa molto anche Gaza, dopo aver visto un documentario di un regista irlandese che mi ha ispirato a raccontare storie di vita quotidiana.

Ultimamente sto lavorando agli Emirati Arabi, c’è un mondo oltre i grattacieli e le Ferrari! E ci sono molte storie che meritano di essere raccontate.

Mi incuriosisce anche molto il Mezzogiorno. Mi piacerebbe fotografare Napoli, credo sia una città tra le più interessanti; e andare oltre quella Napoli rappresentata da Gomorra nei libri di Roberto Saviano. Penso anche alla Sicilia, a Palermo. C’è qualcosa a livello emotivo che mi attrae verso queste città.

Come ha reagito la gente di Sahiwal di fronte alle sue fotografie?

È ancora un po’ prematuro valutare la reazione del popolo di Sahiwal. Il libro dovrebbe essere pubblicato sul mercato internazionale tra qualche mese. Ma quello che posso dire è che molti di loro trovano sconcertante il fatto che io sia affascinato da ciò che per loro è la vita di tutti i giorni.