Per voce creativa è un ciclo di interviste riservate alle donne del panorama artistico italiano contemporaneo. Per questa occasione Giovanna Lacedra incontra Valentina Biasetti (Parma, 1979).

Io è questo confine
che talvolta ti abbraccia?
O l’angelo pacato
che si posa sulla sera,
o il limite del pieno,
io sono i minuti
persi o lavorati?

(Chandra Livia Candiani)

Valentina lavora cancellando i confini che disegna, diluendo i colori e lasciandoli andare, lavora liberando nel bianco la paura del vuoto. Un vuoto che arreda di echi e di silenzi, di musica e segreti, di memorie e di sogni. Un vuoto che sonda attraverso la danza lenta delle sue donne.

Donne sospese, per metà svaporate, donne interrotte o non ancora del tutto generate. Presenze-parvenze. Proiezioni mnemoniche. Mani che non hanno braccia, volti che non hanno bocche, piedi che non hanno gambe. Ma non sono le mutilazioni di Schiele, piuttosto si tratta di mutazioni costanti, trasformazioni catturate nel mentre.

Le sue creature sembrano nascere dal bianco ed esistere nel bianco, e non avere un luogo confinabile; le sue creature sembrano cercarsi in quel bianco, farsi da sole, per esistere e svanire.

Il lavoro di Valentina è un ouroboros. Rinasce ogni volta da dove finisce.

Ogni nuova carta, ogni nuovo lenzuolo è uno zero, pesante e leggero al contempo. Ogni biancore del nuovo è confine e bisogno di sconfinare.

Valentina è come i gatti. Quando è ferma, nel silenzio del suo studio è all’erta. Scruta, nell’immobilità aspetta qualcosa. Cerca.

Il suo studio è la zona franca dove tutto ricomincia ogni giorno, ma è anche il più prezioso degli archivi. È il piccolo regno delle sue sperimentazioni, così ricco di matite a cui fare la punta, smalti, acquerelli, carte arrotolate…

Valentina Biasetti vive e lavora a Casatico di Torrechiara, Parma. Questa è la sua voce creativa per voi…

Valentina come si immaginava da grande quando era bambina?

Valentina si è immaginata grande tante volte, ma non sa bene se lo è diventata per davvero, perché spesso la vita se la ride delle previsioni.

Chi sei oggi?

Tra le tante possibilità di affermare la vita forse sono un’impronta di qualcosa su un vetro appannato, con la consapevolezza di non restare mai la stessa; sono sempre in cammino, sempre alla ricerca, ecco perché se provo a identificarmi posso solo dire che sono una camminatrice indipendente.

I vantaggi del silenzio.

Il primo dovere di ogni artista è fare in modo di concentrarsi per accogliere il silenzio e restituire questo stato di accoglienza attraverso il proprio lavoro. Il silenzio è qualcosa di diametralmente coinvolgente perché veste le cose di una forma nuova e nello stupore di questa rinnovata identità allontana la mente dai pregiudizi, la rende fertile.

C’è una relazione arcaica, un’algebra segreta in queste parole: bellezza, tempo e silenzio, una relazione che congiunge i nostri sensi in uno strato di profondità e ci coinvolge.

Io ho bisogno di silenzio come di bere acqua, ogni giorno ho necessità di questa dimensione per perdermi in quella cartografia intima che è la cosa più vera di noi e che permette la creazione.

La tua zona di comfort e la tua zona cieca.

Sono racchiuse entrambe in un unico luogo, in un perimetro di stanza breve, quello dello studio.

Dove finisce la notte?

Quando al mattino ti svegli e pensi di aver dimenticato il sogno tormentato della notte precedente ma del tuo stesso sogno assumi inconsapevolmente la forma, significa che la notte ti appartiene, ti appartiene anche nella dimenticanza del sogno perché intanto lui si è silenziosamente sedimentato nella casualità degli intenti futuri e ti parla piano, nascosto tra le righe di un libro o in un déjà vu inaspettato. Per i cacciatori del sublime, la notte è riserva naturale di creazione, per questo è una dimensione ottima in cui lavorare o almeno lo è per me, quindi per rispondere più concretamente alla tua domanda posso dirti che la notte finisce tra le mie matite.

Il colore dell’introspezione.

È il colore della fame. Dove per “fame” intendo quel buco spaventoso di tutto l’essere che ti spinge a indagare con perizia chirurgica dentro te stessa. Quando lavoro il problema fondamentale che mi pongo è quello del guardare, guardo dentro me stessa come guardo dentro le cose e i soggetti che disegno per cercare di attraversarli sovvertendone la sostanza, tutto questo è necessario e significa scavare ogni volta quel baratro che conduce alle porte dell’invisibile, per cercare di attraversarlo con tutti i mezzi possibili.

Disegni e dipingi quotidianamente, quando hai iniziato e perché?

C’è sempre un senso di progressione in quello che faccio e che continuo incessantemente a fare (e ri-fare), una progressione di immagini che non si conclude mai con un lavoro dichiarato come “finito” ma che ha necessità di interrogarsi all’in-finito; questo processo non ha mai avuto un inizio preciso ma coincide con una continua sensazione di fallimento e la successiva ricerca di rinascita, riposta in tutto quello che nuovamente andrò a costruire, fare e ricercare. È la cura empirica delle mie inquietudini, ma non nego che ci sia anche una buona dose di abitudine e cocciutaggine perché sono come i gatti, ho un costante e implacabile senso dello scopo.

Quanto e in che modo l’esperienza del COVID ha condizionato/contaminato la tua arte?

Non sarebbe stata la prima volta chiudermi in studio in autoisolamento volontario come processo di creazione, ma quando la scelta cede il passo a un’imposizione i parametri cambiano e con questi le riflessioni e le domande. Ci siamo trovati improvvisamente in mezzo a una condizione che ha messo a dura prova il senso di civiltà e i nervi di tutti, oggi mi ripeto che il periodo più buio, forse, sta passando, ma in futuro avremo a che fare con situazioni completamente nuove e non sarà facile, non sarà più così scontato niente. A fronte di questo mi trovo divisa in due, da un lato c’è l’angoscia che poco per volta si è trasformata in paura, mentre dall’altro sento che forse era davvero necessario fermarsi per riflettere e di questo mi faccio forza e speranza, con una diagnosi ipocondriaca di ottimismi subalterni a cui accendo un lume ogni sera.

Per quanto riguarda il mio lavoro questa esperienza è stata (e sarà) un catalizzatore di introspezione: non è cambiato il mio modo di lavorare ma lo sguardo che vuole indagare, quindi l’unica cosa che posso fare è restituire al mondo un diario quotidiano di domande, per cercare dentro al mio demone la visione più intima delle cose.

Se non fossi un’artista cosa saresti?

Vorrei avere dei parametri meno randagi per rispondere a questa domanda, ma penso spesso che non mi sia consentito: tutto morsica dentro di me e forse è questo che spinge un essere umano a cercare un altrove. Non scegli di essere un artista, è come un incidente a cui non puoi porre rimedio, senti dentro che è la sola cosa che puoi fare, probabilmente perché l’atto creativo è di per sé una negazione della morte e hai bisogno di questa negazione, per contrastare la tua tragicità.

Chi sono le creature femminili che popolano i tuoi lavori?

Le figure che disegno sono il mio specchio, si muovono nella solitudine di uno spazio vuoto lottando o giocando con il colore. Sono autoritratti che nascono dallo specchio, ma rivivono nuovamente sulla carta o sulla tela come anime inquiete tormentate dalla stessa sostanza nera che le compone. Lo specchio diviene il luogo dell’indagine di un’identità virtuale, e si fa mio complice nell’atto di restituire la possibilità di un riscatto al corpo, che annulla la sua fisicità per ritrovarsi in una dimensione Altra, una meta destinata solo ai viaggiatori che sappiano abbandonarsi all’oblio della bellezza e dell’immaginazione. Così le creature diventano angeli caduti, sirene, animali fantastici, caverne anatomiche e cercano di emergere dai vuoti profondi per raccontare la materia fisica che solletica lo sguardo e lo lascia naufragare nella sua stessa fragile esibizione.

Se un tuo quadro fosse un racconto che hai letto?

L’Aleph di Jorge Louise Borges. Borges è un autore che ho sempre amato in quanto ha la peculiarità di poter essere letto in molte direzioni e questa potenza anarchica di sguardi simultanei mi ha sempre affascinato.

Il diametro dell’Aleph sarà stato di due o tre centimetri, ma lo spazio cosmico vi era contenuto, senza che la vastità ne soffrisse. Ogni cosa (il cristallo dello specchio, ad esempio) era infinite cose, perché io vedevo distintamente da tutti i punti dell’universo.

Questo Aleph è per me lo spazio vuoto che spesso lascio respirare all’interno di ogni mio quadro.

Una poesia che veste la tua ricerca, scrivimene i versi.

La poesia è un aspetto fondamentale della mia ricerca e spesso mi è sorella mentre disegno e dipingo, non potrei mai farne a meno, poeti e poetesse sono i volti amici che spesso mi suggeriscono strade per questo avrei un guardaroba infinito di poesie con cui vestire la mia ricerca e me compresa. Ne scelgo una tra tutte e la scelgo dall’ autore a cui spesso ritorno.

C’è un limite a quanto possiamo rappresentare
E a quanto di una cosa buona sia buona cosa. Meglio sperare
Nella più essenziale traccia, un barlume spettrale –che c’è e non c’è,
qualcosa che non arrivi a farsi scena, posato solo perché sia
dissolto, così che, quando come deve svanirà, non ingeneri alcun senso di perdita
sulla sua scia.

(Mark Strand, Una suite di apparenze)

Sei una donna, come ti relazioni al sistema dell’arte italiano e come lo senti?

Scomodo. Per una donna difficilmente le cose sono semplici anche se oggi tendiamo a pensare che molte barriere siano state abbattute la realtà ci ricorda che non è così; dunque, se sei donna e pure mamma, devi mettere in conto tante difficoltà e non solo in campo artistico.

Ma io mi assumo le responsabilità della mia scelta, faccio quello che faccio e l’unica cosa che mi interessa è un buon lavoro e una ricerca il più possibile autonoma da poter mettere in discussione con altri artisti che stimo, questo processo per me significa “sistema dell’arte”, il resto appartiene al commercio ed è differente anche se necessario, in quanto l’opera deve essere immessa in un substrato sociale per assumere una sua identità.

Se un tempo l’arte era preghiera, oggi, invece, buona parte del substrato sociale ha la pretesa di farla sembrare una banana appesa al muro con lo scotch, ed è qui che andrebbe fatta una distinzione: si deve cercare di distinguere quello che viene concepito come “contemporaneo”. Per un artista il problema non è quello di essere a tutti costi “contemporaneo”, ma di essere un artista e sapere che il suo lavoro è responsabilità di una testimonianza.

La tua ricerca ha una radice autobiografica?

Qualche volta si tratta di costruire, altre di dimenticare e spesso di perdonare o di perdonarsi e in questa disciplina dell’errore si ciba la radice autobiografica di tutto il mio lavoro.

Scegli tre delle tue opere, scrivimene il titolo e l’anno, e dammene una breve descrizione.

Caverne anatomiche, 2019.
Ovvero, come qualcosa che ho perduto ma che ancora ricordo. In questo lavoro e in tutta la serie delle Caverne anatomiche la negazione dei corpi ritaglia lo spazio all’invisibile per lasciare solo un frammento del ricordo dentro stanze lattee della memoria.

Esercizio epidermico sulla sensualità, 2019.
In questa serie la sensualità del soggetto, come il tessuto polposo di un frutto spalancato, viene isolato dalla sua dimensione modificandone relazioni e identità, declassandolo a peso che polarizza lo spazio, nel tentativo di trasformarlo e di renderlo in-forme.

Giorni Saturno, 2020.
Giorni Saturno nascono nel periodo di quarantena e sono il tentativo di trattenere un vuoto, di trattenere Il vuoto.

L’opera d’arte che ti fa dire: “Questa avrei davvero voluto realizzarla io!”?

È una installazione che mi devastò per la sua potenza: l’ancora conficcata nella parete (nel cuore) di Claudio Parmiggiani che vidi alla Biennale di Venezia del 2015 e qualche anno prima a Parma a Palazzo del Governatore.

Un o una artista del passato con chi avresti voluto farti una chiacchierata?

“L’immaginazione non è uno stato mentale: è l‘esistenza stessa” scriveva William Blake, penso che mi ci sarei letteralmente persa a parlare con lui.

Un o una artista contemporaneo di cui visiteresti volentieri lo studio?

Ne avrei una lista infinita, ma tra tutti scelgo David Hockney e Luc Tuymans.

Un o una artista che avresti voluto esser tu.

Sofonisba Anguissola.

Un critico d’arte o curatore con il quale avresti voluto o vorresti collaborare?

A questa domanda rispondo con l’immagine di una porta aperta, senza fare nomi, perché le sinergie hanno passi lenti e si consolidano attraverso la stima reciproca e il tempo.

In quale altro ambito sfoderi la tua creatività?

In questo senso non mi faccio mancare nulla, ogni cosa che faccio diventa un pretesto per sperimentare anche se a volte questo mi porta a combinare dei pasticci enormi, un esempio lampante ne è la cucina, fortunatamente in questo caso avendo un marito chef mi salvo in extremis la cena.

Work in progress e progetti per il futuro.

A causa dell’emergenza COVID-19 molte mostre che avevo in programma quest’anno sono state rimandate, ne avevo fissate tre solo tra marzo e maggio, mostre che dovremo recuperare, ma sarà necessario farlo un passo per volta, per capire come potersi muovere in un terreno che ad un tratto è diventato molto scivoloso. Quindi per ora posso solo dire che i progetti ci sono ma ancora in una situazione di congelamento. Mi auguro di riuscire al più presto a riprendere l’attività espositiva perché mi manca, mi manca il contatto con la gente e la possibilità di un dialogo aperto e sincero con chi guarda.

Il tuo motto in una citazione che ti sta a cuore.

Per noi l’arte è un’avventura in un mondo sconosciuto, che possono esplorare solo quanti siano decisi ad assumersene i rischi.

(Mark Rothko)