Io sono un visionario. Con le mie opere le macchine sognano.

(Max Coppeta)

Per i 320 anni dalla nascita di Luigi Vanvitelli, abbiamo intervistato l’artista Max Coppeta che ha voluto ricordare con un video la sua installazione Flow, esposta alla Reggia di Caserta nel 2018.

Coppeta è un alchimista dell’arte contemporanea. Per la residenza reale più grande al mondo, ha realizzato una scultura che, come l’Acquedotto Carolino a cui si ispira, si aziona e innesca un perfetto equilibrio tra materia, movimento, tempo, luce e finzione. Una macchina scenica dal forte impatto emotivo che rivela il suo talento visionario, amplificato dalle note fluide del Maestro Cannavacciuolo e dai caldi movimenti di una danza in divenire.

Come nasce la scultura Flow? Perché hai scelto di dedicarla al Secolo dei Lumi?

Flow nasce dalla ricerca Piogge Sintetiche, un’indagine sulla possibilità di riprodurre eventi naturali artificialmente. Un ossimoro che racconta la nostra contemporaneità, dove il raggiungimento della perfezione estetica si avvale della scienza per superare le leggi della natura.

Una macchina scenica che racconta l’acqua nel suo essere un fluido privo di forma propria a causa della limitata forza di coesione fra le molecole. Anche la nostra società potrebbe essere definita “fluida”, oppure come dice Zygmunt Bauman, “liquida”.

L’osservazione dell’acqua, e delle sue intrinseche proprietà, mi ha portato quindi alla creazione dei corpi basculanti di questa scultura, volevo creare un corpo instabile in continuo cambiamento e dare vita ai blocchi di cristallo che fanno da supporto alle finte gocce d’acqua. Questo è stato solo l’inizio del progetto che si è arricchito di nuovi significati durante il periodo di oltre sei mesi, del suo sviluppo. I 13 archi che compongono l’installazione sono un chiaro riferimento alla gabbia toracica, costituita da 12 coppie di costole, mentre la tredicesima è la mia: volevo lasciare metaforicamente una parte di me per dar vita alla materia inerte. Il Secolo dei Lumi, è stato un periodo storico fondato sulla ragione empirica e sulla conoscenza scientifica. Anche l’arte contiene in sé l’uso della conoscenza come rivelazione e della scienza per il raggiungimento della visione estetica. Per me, quindi, l’arte deve dialogare con la scienza per raggiungere quello stato emotivo per la concretizzazione dell’ispirazione.

Flow fa parte della ricerca Piogge Sintetiche, ma nella tua ricerca ci sono state anche le Piogge Nere, sono una l’evoluzione dell’altra o hanno vita a sé?

Piogge Sintetiche è una partitura visiva di un evento naturale riprodotto artificialmente. La finzione si sostituisce alla realtà creando un inganno credibile: un artificio contro natura. L’arte invoca la magia per ridisegnare nuove regole spaziali. Piogge: non più liquide, non più inafferrabili.

La natura possiede in sé due aspetti fondamentali: quello della creazione, e quello della trasformazione, contemplando anche la distruzione. Le piogge sintetiche sono una simulazione della realtà attraverso l’artificio ed esplorano le principali caratteristiche di questo liquido che rende possibile la vita sulla Terra.

Le piogge sintetiche sono trasparenti, vivono di luce e amplificano all’esterno il loro stesso esistere attraverso superfici vitree. Al contrario le piogge nere, che contengono la più ampia tavolozza possibile del nero, assorbono la luce e vivono nel buio più assoluto, sinonimo della natura maligna, che distrugge se stessa e qualsiasi cosa che gli si oppone. Il nero è un punto di non ritorno, è un valore cromatico oltre il quale non è possibile andare. Il nero è la somma cromatica di tutti i colori, in esso sono racchiuse tutte le possibilità del colore, ma negata qualsiasi deviazione possibilista.

Hai scelto di vivere a Bellona, nota per essere stata la culla del “sarto degli artisti” Michele Sapone, diventato uno dei più intimi amici di Pablo Picasso. C’è qualcosa che ti lega a Bellona?

Sono andato per la prima a volta a Bellona all’età di 13 anni, mi recavo con la mia famiglia per vedere le mostre di grandi artisti come Picasso, Vasarely, Hartung, Baj, Arp e tanti altri, il luogo magico si chiamava CUII (Centro Umanistico Incontri Internazionali). Era sempre una grande emozione vedere da vicino i grandi maestri dell’arte. Per un lungo periodo non ho più avuto notizie di quel luogo, ma il ricordo in me era sempre vivo. Dodici anni più tardi, partito da Capua, mi ero perso e mi sono ritrovato a pochi metri dal CUII e improvvisamente mi sono sentito chiamato da questo posto e ho deciso così di viverci.

Nel luglio 2013 sono stato invitato, dal un mio caro amico, Giuseppe Caputo e da Vincenzo Cenname, sindaco di Camigliano, a presentare un libro che conteneva tutta la storia che mi aveva accompagnato a Bellona: Il sarto di Picasso di Luca Masia. Non mi sentivo all’altezza di questo compito e dopo diverse resistenze, decisi di accettare. Fu proprio in quel giorno che conobbi Patricia Sapone, la figlia di Michele “il sarto degli artisti” e suo marito Giuseppe Vinciguerra con i quali è nata una meravigliosa amicizia. Qualche anno più tardi conobbi anche Antonio Sapone e la moglie Aika, e credo che porterò sempre con me le parole dense di umanità di questa nobile famiglia che ha sostenuto e valorizzato i più grandi artisti del ‘900.

Hai esposto a Los Angeles e a Tokyo, come è stato esporre nella residenza reale più grande del mondo?

Ogni esposizione ha la sua storia, il suo luogo, le sue difficoltà e le sue emozioni. Cerco di vivere sempre con molto distacco qualsiasi evento, cerco di non farmi mai travolgere dall’importanza del posto, altrimenti dovrei ogni volta chiedermi se ne sono veramente all’altezza. Come prima cosa cerco di immergermi nell’atmosfera e nella storia che l’ambiente mi suggerisce, e poi cerco di entrare in armonia con esso.

L’opera, seppur contemporanea, deve diventare un prolungamento della storia passata senza creare fratture estetiche e concettuali. Nel caso della Reggia di Caserta, il compito è stato molto arduo perché ero stato chiamato ad un confronto, non solo con lo storico palazzo, ma anche con l’Acquedotto Carolino con la sua estensione di 38 km. Concentrare tanto spazio e tanta bellezza in pochi metri, è stata la grande sfida, il movimento delle strutture basculanti di Flow e le immagini riflesse negli specchi hanno restituito ed amplificato il senso di precarietà dell’opera nel suo racconto d’acqua.

Dialogare con un passato così lontano è sempre una grande sfida, perché vuol dire creare un ponte attualizzando forme, materiali e contenuti. Attualmente mi trovo ad affrontare un nuovo percorso con il passato, nello specifico con il barocco napoletano con alcune opere della Fondazione De Chiara De Maio a cura di Davide Caramagna e con il sostegno della Baccaro Art Gallery.

Come è nata l’idea di coinvolgere nel video, il maestro Lino Cannavacciuolo e il corpo di ballo Skaramacay di Erminia Sticchi? Credi che il fatto di provenire dal mondo della scenografia, abbia influito?

Ho sempre amato profondamente le composizioni del maestro Lino Cannavacciuolo, le note del suo violino ispirano da sempre il mio lavoro, e solo dall’anno scorso abbiamo iniziato a collaborare insieme. Ho realizzato per lui alcune copertine dei suoi album, la sua musica e le mie opere dialogano come se appartenessero alla stessa matrice di pensiero. Quindi nella produzione del video non potevo non affidarmi alle note mistiche del violino di Lino.

Con Erminia Sticchi c’è un legame di vecchia data, abbiamo lavorato a diversi progetti e ricordo con entusiasmo Il Giocoliere (2005), uno dei primi spettacoli con scenografie virtuali, che interagivano con attori e ballerini, con il montaggio di regia in real time. Di Erminia ho sempre stimato la sua grande energia e lo sguardo profondamente contemporaneo e fuori dagli schemi. Gli studi di scenografia sono stati determinanti nel concepire l’opera nello spazio e contaminare i linguaggi per uno scopo unico. L’arte non può essere suddivisa per settori espressivi o valori comunicativi, l’arte è espressione viva del sentire, e si deve avvalere di tutti i mezzi e linguaggi per arrivare alla sua totale completezza.

Prima dell’esposizione alla Reggia di Caserta, Flow è stata esposta nella versione di soli 5 moduli a Torino e a Milano. Ci sono voluti ben 6 mesi per la realizzazione della versione completa. Ce la racconti?

Prima dell’esposizione alla Reggia di Caserta, Flow è stata esposta in diverse occasioni, nella versione ridotta a soli 5 moduli, in occasione di Step Art Fair nel 2015, la Prima Fiera d’Arte in Italia dedicata alla scultura. In quell’occasione, Flow fu presentata, da Art1307, con le opere di Eric Johnson, essendo le nostre opere, entrambe realizzate con materiali innovativi, fu un’occasione per mettere a confronto due generazioni e inaugurare una nuova concezione della scultura.

L’anno successivo Flow partecipò a Paratissima promossa da Art in Gallery che espose, nella sezione GAP, Ensemble of Drops - solo show, un’attenta selezione di opere dalla ricerca Piogge Sintetiche, caratterizzate dalla loro unicità espressiva, linguistica e tecnica in continuo dialogo con la luce. Piogge Sintetiche venne così ben accolta, che Art in Gallery inaugurò, il mese dopo, la mostra personale Suspence a cura di Antonello Tolve. Un gioco che coniugava l’attesa e la sospensione al filo sottile della meraviglia.

Solo nel 2018, Flow è stata esposta nella sua versione completa di 13 moduli alla Reggia di Caserta. Ha avuto un lungo processo di progettazione e realizzazione, ci sono voluti circa sei mesi di lavoro per vedere il suo completamento. La complessità realizzativa è legata al movimento basculante, e alla scelta dei materiali, in questo caso una lega di alluminio, che oltre alla leggerezza, garantisce una spinta molto dilatata nel tempo. I vetri, invece, sono cristalli extrachiari con una molatura a 45° per garantire il massimo della luce riflessa e della brillantezza.

Flow si basa su rapporti precisi di forze. Una fusione tra Arte e Scienza in un’opera che è in parte cinetica, in parte geometrica, matematica e soprattutto estetica. Infatti, l’hai definita una macchina scenica, potremmo dire per ricongiungerci al titolo completo, dagli equilibri precari liquidi. Qual è la poetica che si cela dietro questi termini?

L’idea alla base di Flow è quella di raccontare l’acqua, senza l’acqua e di trasferire la forza energetica della natura, ma con materiali tecnologici. L’equilibrio precario appartiene alla fragilità dell’uomo ma anche alle regole della natura che ci circonda e non dovremmo mai dimenticare che questo sistema è fragile e può mutare da un momento all’altro. Noi stessi viviamo in uno stato di movimento perenne, legato al continuo stato della Terra di cui siamo ospiti. L’arte e la scienza sono sempre stati in dialogo, è un legame imprescindibile, per fare un’opera necessitiamo di strumenti, come protesi del nostro corpo con cui lavoriamo la materia e la trasformiamo dandogli un nuovo significato e nuova vita.

Cynthia Penna, curatrice, ti ha definito come il punto di congiunzione tra i due movimenti novecenteschi, l’Arte Cinetica e la Light and Space. Come vivi questo importante compito di proseguire e portare avanti la tradizione e l’eredità dell’Arte Cinetica nel mondo?

Per mia fortuna, ho saputo di questo compito e ne sono diventato consapevole da poco tempo, farsi carico di due correnti così importanti è una grande responsabilità concettuale, ringrazio Cynthia Penna per avermi responsabilizzato in tal senso, mettendomi in contatto con le opere e gli artisti che l’hanno rappresentata. Cerco di non lasciarmi condizionare troppo dalla conoscenza passato per trovare sempre nuovi spunti di ricerca.