L’ultimo giorno del penultimo mese dell’anno e segnato dall’inaugurazione di quattro nuove mostre personali. Espressioni differenti confluiscono negli ambienti separati ma comunicanti della galleria per donare anche questa volta esperienze diverse, ma sempre emozionanti, nell’incontro con l’arte.

L’arte di Donata Fazzi è spesso definita come quella dei cieli. In effetti la fotografa si può serenamente concepire come una “corteggiatrice delle nubi” perché, come il celebre inglese Constable, percepisce il cielo come “un lenzuolo bianco appeso” e, dunque, come una superficie aperta e inesauribile per l’ingegno creativo. La ricerca del grande romantico di una possibile dimensione trascendente oltre l’orizzonte è completata da Fazzi non più con il pennello ma con la lente fotografica. E, dunque, non è più la descrizione dell’immaginazione affettiva tramite la mano, ma la registrazione della fenomenicità impercettibile per l’occhio tramite l’obbiettivo della macchina. Di conseguenza non si tratta di una visione romantica, irreale, irrazionale e desiderata invano, ma di una documentazione superlativa della realtà che restituisce all’essere la speranza dell’eden terreno. L’estetica del sublime non prevede più quella devastante di una cosmica forza superiore (illustrata dal Romanticismo, da Constable fino a Turner), ma l’assoluta sincronia tra essere e natura. Fazzi restituisce, con il proprio operato artistico, la veridicità di un avvenire reale dove il bello e il sublime coincidono senza la necessità di abbandonare la terra.

La relazione di Ruth Helena Fischer con il mondo del balletto la porta a elaborare il suo fare artistico come una Danza di espressioni utopistiche, melodiche e poetiche. Il colore a volte si estrania dalla tela e si ritira in cumuli, accantonamenti di materia cromatica. A volte invece esplode e divora la tela in eruzioni cangianti e scoccanti. La figura non è contemplata in quanto forma ma in quanto presenza, espressa non solo dalla materia pittorica, ma spesso anche di altra estranea e organica, come nei collage, veri è propri incontri si fisico e metafisico. I graffi, le scritture, le sgocciolature e i versamenti di colore liquidissimo sono i gesti che accompagnano una “danza” artistica che trasforma la tela in un vero e proprio palcoscenico dello spleen creativo. La nota lirica e giocosa sovrasta quella drammatica e trasforma l’espressionismo astratto di Fischer in un romanticismo vivace e repentino, pieno di intensa passione, destinata a commuovere l’occhio fruitore. Il rapporto luce-colore definisce lo spazi e la sua tridimensionalità, creando “ricadute” in profondità o zampilli e fuoriuscite dalla tela. La progressiva semplificazione della visione, di carattere primordiale, porta a una essenzialità della raffigurazione che dimostra l’armonia interiore di chi osserva e di chi è osservato.

La linea, il tratto, il disegno e dopo il colore, la luce l’impostazione raffigurativa. Il sorriso, l’ironia e dopo la narrazione, la raffigurazione, l’armonia d’insieme. Il gioco, la musica, il divertimento e la passione e dopo la pittura e la ragione. La libertà e dopo l’arte. Michelangelo Del Brocco si serve di queste gerarchie per dimostrare che l’artista non deve seguire il sistema dell’arte, bensì dedicarsi all’arte per liberarsi da ogni sistema. La volontà di dipingere per sentire e non per ragionare porta l’artista a una non curanza dello stile e a un fare disinvolto che parte al disegno e arrivare a una progressiva regressione dalla forma e l’approdo a una semplicità essenziale, originaria, che avvicina l’intimità creativa a quella dello spettatore. Quest’ultimo si trova a confrontarsi , da una parte, con immagini formalmente riconoscibili, dal rinascimentale studio a carboncino fino alla caricatura pubblicista, e dall’altra, con “improvvise” perdite di senso che inducono a un atteggiamento più analitico e riflessivo. Dall’fruitore dell’opera ci si aspetta di dialogare con essa non tramite la facoltà del pensiero ma con attitudine cognitivo -affettiva che dura più a lungo delle emozioni e che ha una diversa incisività rispetto alle passioni e, dunque, ogni forma di affetto: sia quella soggettiva, cioè riguardante l'interiorità della propria individuale affettività, sia quella rivolta al mondo esterno.

Una brulla distesa di terreno, la calma solenne di una cattedrale romanica, l'arabesco dei rami sullo sfondo della luna invernale... di queste cose necessito come il pane che mangio … (A.F.P.) Queste poche parole abbracciano efficacemente l’impegno creativo di Silvia Presazzi. La breve descrizione di paesaggi fattisi stati d’animo portano a capire la necessità vitale dell’artista di creare per sentire e vice versa. La china è tecnica prediletta per Presazzi in quanto consente una varietà di forme espressive individuali illimitate. Il tratto della penna tradisce più do ogni altra tecnica la diversità di temperamento che guida la mano disegnatrice. Questa stimolante fusione di disegno e pittura orienta l’artista verso soluzioni quanto calligrafiche tanto tonali, immerse in una luce abbagliante prodotta da un contrasto netto e ogni presente tra forma e atmosfera. Lo stagliarsi degli alberi sulla limpidezza della carta bianca raggiunge quasi un effetto fotografico di negativo senza, però, l’inversione di chiaro scuro rispetto all’oggetto. L’immagine, così, appare immersa in un ambiente “sterile” , protetto da ogni contaminazione biologica, dove “l’arabesco di rami” ha senso in quanto simbolo, geroglifico, scrittura tradotta dalla natura stessa.

Testo di Denitza Nedkova

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