Il 30 luglio, a circa tre anni dalla scomparsa di Carlo Del Bravo, professore di Storia dell’Arte all’università di Firenze e studioso di fama internazionale del Rinascimento e dell’arte toscana dell’800 e del 900, gli Uffizi hanno ricevuto le 455 opere della sua collezione.

Un tesoro di opere d’arte, tra dipinti, sculture e disegni dal ‘500 al ventunesimo secolo, con capolavori del Tribolo, Jacopo Vignali, Giovanni Battista Foggini, Ingres, Pio Fedi, Giuseppe Bezzuoli, e lo straordinario San Giovannino del Rosso Fiorentino, ultimo quadro del genio manierista rimasto in mani private. È una donazione fatta da Lorenzo Gnocchi, anch’egli professore all’ateneo fiorentino. designato dal Maestro suo erede universale.

Questa donazione ha come conseguenza il restauro e l’allestimento, nei prossimi mesi, di due sale dedicate della Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, ove mostrarla. Spazi per molti decenni chiusi al pubblico perché utilizzati come uffici, con una veduta spettacolare sui monumenti di Firenze che sempre incantava Del Bravo quando si affacciava a quelle finestre.

La collocazione del lascito Del Bravo alla Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti è particolarmente appropriata, dato che lo studioso è stato per decenni membro della Commissione per la valutazione e le nuove acquisizioni della Galleria, che in quegli spazi si riuniva regolarmente. Nello svolgere questa sua funzione Del Bravo ha rappresentato un modello culturale all'avanguardia per scelte e indirizzo metodologico, caldeggiando acquisti di importanza fondamentale fra cui i disegni di Pietro Benvenuti, il celebre Paesaggio a Grizzana di Giorgio Morandi, la stele marmorea di Lorenzo Bartolini.

È in preparazione anche una mostra su Carlo Del Bravo come collezionista, studioso e maestro di generazioni di studenti, e un catalogo scientifico completo di tutte le opere della sua collezione. Secondo la politica delle Gallerie degli Uffizi per il territorio, alcuni gruppi di opere dal Lascito Del Bravo saranno esposte a San Casciano Val di Pesa, luogo di nascita e della prima infanzia dello studioso.

Molte sono le considerazioni che suscita questo lascito. Non sappiamo se un periodo di tre anni possa essere imputabile alla burocrazia italiana che batte ogni record nel numero di pratiche richieste per il passaggio di proprietà di opere artistiche. Ma il trasferimento non sembra essere venuto dalla volontà del Maestro, quanto piuttosto dal desiderio del suo erede di perpetuare la di lui fama, legando il suo nome anche ad opere di maestri dell’Ottocento come, per citarne alcuni, Giuseppe Bezzuoli, Léon Bonnat, Antonio Ciseri, Raffaello Sernesi, e a dipinti di amici artisti come Bruno Innocenti, Giovanni Colacicchi, Renzo Dotti e Rodolfo Meli.

Siamo indotti a pensare che non sia stata facile una decisione come questa. Il trasferimento dell’eredità ricevuta da parte di Lorenzo Gnocchi gli fa onore perché è controcorrente. In questa ingorda società dell’apparire, voler donare un patrimonio di bellezza, da poco ricevuto, senza avere in cambio la notorietà ha dell’incredibile. Il suo nome, infatti, appare fugacemente ora alla notizia che la proprietà delle opere d’arte si trasferisce agli Uffizi, ma non apparirà nella collezione, perché essa prende il nome di Carlo Del Bravo. Quest’ultimo aveva avuto il tempo di godersi la sua raccolta, mentre Lorenzo se ne priva quasi subito. È perché l’amore per la bellezza appare qui legato al desiderio di condividerla, e diventa sinonimo di generosità.

Un tale comportamento dovrebbe orientare i maestri di ogni ordine e grado verso un’educazione alla bellezza, sperando che contribuisca ad abbassare il livello di bramosia di possesso che inficia l’economia in questi ultimi anni, rendendo i rapporti umani spesso conflittuali solo per accaparrarsi qualsiasi cosa, non necessariamente di grande valore.