Per voce creativa è un ciclo di interviste riservate alle donne del panorama artistico italiano contemporaneo. Per questa occasione Giovanna Lacedra incontra Alessandra Redaelli (Milano, 1967).

Fino ad oggi ho dedicato questa mia rubrica alle artiste. A quelle donne che, miscelando sensibilità, creatività, fertilità e coraggio riescono a partorire opere dai contenuti forti e lirici. Ma nel mondo dell’arte contemporanea le donne rivestono anche altri ruoli. Ci sono le galleriste, le giornaliste, le storiche dell’arte, le critiche, le curatrici.

Alessandra Redaelli riveste quattro di questi cinque ruoli: è una giornalista, una storica dell’arte, una critica e una straordinaria curatrice. Ho lavorato con lei in diverse occasioni e posso dunque dire di conoscere bene il suo modo di operare e di vivere questo mondo fatto di stelle e spigoli.

Alessandra è un’entusiasta. Una che sorride sempre. Una che non demorde di fronte agli ostacoli, una che dà tutta se stessa quando crede in un progetto. Alessandra è una curatrice che si prende realmente cura dei suoi artisti. Li segue, li ascolta, li studia e legge tra le maglie del loro fare, cogliendone sempre i nodi essenziali e sapendoli sapientemente e nitidamente raccontare attraverso i suoi testi critici. Non credo vi sia un artista per cui ha scritto, che non si sia sentito “letto dentro” da lei. Alessandra adotta una scrittura fluida, autentica, emozionale. Sa trovare la giusta mediazione tra il lessico specifico della storia e della critica d’arte e l’immediatezza senza orpelli che occorre per arrivare ad ogni tipo di lettore. Per citare l’irripetibile Lea Vergine, Alessandra non parla il “critichese”, ma usa un linguaggio accessibile a tutti, pure restando colto, puntuale e raffinato. E non mancano di certo, tra le pagine dei suoi bestseller, passaggi divertenti ed esilaranti, che tengono il lettore allacciato alla pagina alimentandone la curiosità.

Alessandra è una professionista seria, competente, affidabile e al contempo è una donna sensibilissima, un’appassionata, una che ama con cuore onesto il proprio lavoro; una che si emoziona genuinamente di fronte alle opere degli artisti con cui lavora; una che sgrana gli occhi con uno stupore bambino di fronte ad un dipinto, una scultura, un’installazione, una performance che la colpisce.

Infine, Alessandra è una donna generosa. Non finirò mai di ringraziarla per aver portato tra i miei studenti del Liceo Scientifico di Milano, nel 2019, tutta la sua competenza ed il suo entusiasmo durante un incontro di due ore in cui abbiamo passato in rassegna alcuni dei protagonisti del suo libro Keep Calm e impara a capire l’arte per educare lo sguardo degli adolescenti a ciò che non troveranno mai nei testi scolastici, da Tracy Emin a Maurizio Cattelan.

Alessandra Redaelli ha curato numerosissime mostre in gallerie d’arte, musei e spazi istituzionali. Da molti anni è giornalista per la rivista Arte Mondadori e collabora con diverse altre testate. È stata docente di Editoria dell’Arte per l’Accademia Galli di Como. Ha pubblicato, inoltre, I segreti dell’arte moderna e contemporanea, 10 cose da sapere sull'arte contemporanea e il romanzo in ebook Arte, amore e altri guai per la casa editrice Newton Compton.

Alessandra vive e lavora a Milano. Questa è la sua voce creativa per voi.

Critica e storica dell’arte, giornalista, curatrice, scrittrice… ma chi è Alessandra?

È un’entusiasta, una sognatrice, un’umorale, una programmatrice con brio. Sono una di quelle persone che si buttano nelle passioni con tutti e due i piedi, e la mia passione per l’arte sembra non doversi spegnere mai. Come quella per la scrittura, grande amore fin dall’infanzia e spesso anche terapia.

Sei diventata la donna che da adolescente immaginavi di diventare?

Grazie al cielo sono diventata molto meglio!

Quando ti sei innamorata della storia dell’arte?

La prima volta a scuola. Mia madre, che ha studiato arte e ha lavorato come disegnatrice per uno studio di architettura, studiava con me e mi comunicava la sua passione. Poi all’università: il corso di Eugenio Riccomini su Correggio e Parmigianino fu un colpo di fulmine. Poi arrivò Manet. A questo punto ero stesa.

Il colore del coraggio.

Giallo acceso.

Michelangelo o Raffaello?

Michelangelo tutta la vita: passione e tormento. Raffaello per me è troppo soft.

Qual è stata la tua formazione?

La mia formazione è stata sincopata. Dopo la maturità mi sono iscritta a Giurisprudenza, perché volevo fare la giornalista e questo mi avevano detto che avrei dovuto studiare. Una cosa orrenda! Poi, dopo il primo anno di università, sono riuscita a entrare alla scuola di giornalismo, quella organizzata dall’Ordine. Avrei avuto la possibilità di cominciare a lavorare subito dopo, ma a questo punto volevo laurearmi. Non in Giurisprudenza, però. Così sono passata a Lettere, convinta di prendere un indirizzo classico. Poi è arrivato Riccomini, con Correggio e Parmigianino, e tutto è cambiato.

Quanto sono influenti la passione e la conoscenza trasmesse da un docente! Ma il tuo percorso di critica e curatrice quando è iniziato?

Dopo diversi anni come giornalista free lance per la stampa specializzata. Avevo stretto contatti con tanti artisti – alcuni oggi sono figure nodali nella mia vita – e con diversi galleristi, e poi avevo avuto la fortuna di lavorare gomito a gomito, nella redazione di Arte (Cairo), con personaggi del calibro del compianto Maurizio Sciaccaluga. Cominciò per caso: mi fu chiesto di scrivere il testo per il catalogo di una mostra. Ho scoperto così una professione che a differenza del giornalismo – con i suoi tempi strettissimi – mi permetteva di entrare molto più profondamente in contatto con l’artista, di comprenderne la poetica, di seguirne i progetti. E questa cosa mi è piaciuta moltissimo.

Cosa provi quando visiti lo studio di un artista?

Mi sento una privilegiata. Ho la consapevolezza che lì nasce quella cosa meravigliosa che si chiama opera d’arte, che ha il potere di emozionare, di ribaltare la lettura della realtà, di cambiare il mondo. Lì la mente dell’artista muove la mano e l’idea diventa oggetto. Lì sono conservati i feticci dell’artista: i suoi libri, le sue passioni, i suoi segreti. È un mondo magico in cui mi perderei.

Il momento più entusiasmante della curatela di una mostra?

Sono due. Il primo quando si fa strada l’idea: quali opere scegliere, quali artisti affiancare. L’altro è l’allestimento. L’allestimento è la concretizzazione del sogno, è la scoperta di parentele e dialoghi che non si erano colti fino a mezzo secondo prima, è il caos che diventa armonia. Poi mi piace tantissimo il vernissage, certo. Mi piace prendere il microfono, parlare al pubblico, comunicare. Ma l’emozione dell’allestimento – in jeans e sneakers, coi capelli raccolti a casaccio e il casino dell’ultimo momento che non manca mai – è unica.

La tua è una scrittura fluida, trascinante, chiara, immediata… ci racconti come nasce un tuo libro?

Curiosità improvvise e idee azzeccate. Keep Calm e impara a capire l’arte è nato da una controproposta strepitosa del mio editore Raffaello Avanzini (Newton Compton) su una proposta che avevo fatto io. Ci siamo guardati negli occhi, abbiamo messo a punto a grandi linee il progetto e poi lui mi ha dato carta bianca: uno sballo. I segreti dell’arte moderna e contemporanea è nato da una domanda dell’editore: “Ma che cos’è un capolavoro?”. Invece 10 cose da sapere sull’arte contemporanea è scaturito dalla voglia di mettere ordine in un secolo d’arte, incasellando i linguaggi in dieci contenitori tematici: un libro libero come una cavalcata che è stato un piacere scrivere.

Quella cosa che di un artista ti conquista immediatamente.

L’entusiasmo, la sincerità, il mettere tutto se stesso dentro il lavoro. Sono incantata dagli artisti istintivi: chi pensa troppo mette sempre tra me e lui una distanza. Forse perché sono già portata io all’elucubrazione.

Quella cosa che di un artista proprio ti indispone.

Faccio fatica, giuro, a rispondere. Io gli artisti li amo proprio. Anche con i loro difetti, perché sono quasi sempre difetti molto interessanti (in un’altra vita avrei dovuto fare la psichiatra). Se proprio devo trovare qualcosa che mi indispone, forse sono le spiegazioni troppo dettagliate. L’arte deve parlare con il suo linguaggio. Se l’artista sente il bisogno di mettere giù tre cartelle di spiegazione per un’opera, perché si è preso il disturbo di realizzare l’opera? Non bastavano quelle?

Ci racconti la mostra più indimenticabile che hai curato?

Ci sono diversi motivi per cui una mostra può diventare indimenticabile. Le tre mostre della rassegna Femminile plurale, a Piacenza nel 2014, lo sono state in tanti sensi. Era la prima volta che avevo tutta quella libertà d’azione ed era la prima volta in cui potevo circondarmi delle artiste che amavo di più. Il fatto che fossero solo donne non era stata una scelta mia: sono sempre piuttosto indispettita dalle mostre “ghetto”, dal finto femminismo, tipo quello dell’esposizione che c’è ora al Prado (solo donne, per farsi perdonare una coda di paglia lunga così, e un titolo da orticaria: Invitate). Però noi – io e trentacinque artiste – siamo state capaci di trasformare la rassegna in uno spaccato profondo e anche ironico dell’arte “pink” italiana di oggi. Non è stata una cosa da poco. E poi si è creato un gruppo bellissimo. Ho ricordi meravigliosi legati a quelle mostre.

Quella volta che un artista ti ha proprio commossa fino alle lacrime.

Io piango spessissimo davanti all’arte. La prima volta, ragazzina, è stato Kandinsky. Uno per cui piango sempre – senza scampo – è Francis Bacon: lì vado a pezzi. E poi mi ha fatto piangere più volte Nicola Samorì. Ho pianto anche alla Biennale del 2017 per l’opera di Roberto Cuoghi Imitazione di Cristo: avevo appena perso mio padre e quando ho finito il percorso tra quei corridoi claustrofobici mi sono dovuta sedere. E anche al Padiglione russo dell’ultima Biennale, nel 2019: la resa tridimensionale del Ritorno del figliol prodigo di Rembrandt, firmata da Aleksandr Sokurov, mi ha messa k.o. Sì, sono piuttosto emotiva.

Il colore dell’entusiasmo.

Rosso!

Un quadro che rappresenta la tua personalità.

In questo momento storico direi un Pollock. Facciamo il N. 5 del 1948, almeno valgo 140 milioni di dollari.

Una scultura che racconta le tue fragilità.

Il Ratto delle Sabine in cera (da Giambologna) di Urs Fisher, che si scioglie lentamente.

Un museo nel quale resteresti volentieri chiusa a chiave per una notte.

Il Prado. Ho rischiato di rimanerci chiusa veramente: è un meraviglioso labirinto che non finisce mai.

Pollock o Stella?

Pollock! Stella è frigido.

Se non lavorassi in Italia in quale altra nazione o città vorresti curare mostre e seguire artisti?

Usa, anni Quaranta. Diciamo che vorrei essere Peggy Guggenheim.

Se potessi fare un salto indietro nel tempo, nello studio di quale artista vorresti finire?

Mi candiderei per essere sequestrata da Edouard Manet.

Il fotografo per il quale avresti voluto posare.

Man Ray.

Una performance alla quale avresti voluto prendere parte attiva?

Se ne avessi lo stomaco, una di Hermann Nitsch. Così, per poterla raccontare “dal di dentro”.

Il pittore per il quale avresti voluto fare da modella?

Sempre lui: Edouard.

Un artista del passato del quale avresti potuto innamorarti?

A costo di essere ripetitiva: Edouard.

Se fossi stata una pittrice: astrazione o figurazione?

Figurazione. Senza dubbio.

Un dipinto nel quale vorresti entrare e restare intrappolata per l’eternità.

Au rendez-vous des amis di Max Ernst: avrei un sacco di cose da chiedere a tutti quelli che ci sono rappresentati. Soprattutto a Gala.

Un’opera museale che vorresti avere nella tua collezione privata.

Triptych, May–June 1973, il trittico che Francis Bacon ha dipinto in memoria dell’amato George Dyer, morto sucida due anni prima. Probabilmente però non farei altro che piangere.

Sei finita nel Trittico delle Delizie di Bosch… in quale dei personaggi ti sei trasformata?

Conoscendomi, sarò certamente in acqua. Potrei essere la tipa con la coda squamata che chiacchiera con quella specie di inquietante pesce con la testa da insetto che agita le braccia. Un artista, lui, direi.

Il mondo dell’arte contemporanea in tre aggettivi.

Emozionante, complesso, multiforme.

Il mercato dell’arte contemporanea in tre aggettivi.

Ambiguo, nebbioso, fragile.

Tre caratteristiche che un artista dovrebbe avere per avere successo.

Talento, intelligenza, determinazione.

Tre caratteristiche che invece lo limitano.

Insicurezza, arroganza, bisogno di piacere a tutti.

La bellezza, secondo Alessandra Redaelli.

Armonia e imprevedibilità.

Work in progress e progetti per il futuro.

Due progetti editoriali a cui tengo moltissimo. E le mostre dei miei artisti.

Il tuo motto in una citazione che ti sta a cuore.

La vita non è aspettare che passi la tempesta, ma imparare a ballare sotto la pioggia (Gandhi).