Trent’anni fa, una storica dell’arte, Gloria Fossi, e due fotografi, Mario Dondero e Danilo De Marco, intrapresero un viaggio esistenziale, senza precedenti, sulle tracce di Vincent Van Gogh. Il volume pubblicato all’epoca è stato per decenni una pietra miliare per chiunque si sia posto sulle tracce di Vincent: partendo dall’Olanda, passando per Londra, Parigi e la Provenza, senza tralasciare alcun dettaglio. Oggi, la Fossi è tornata sui suoi passi e ci dona una versione aggiornata del suo capolavoro. Versione arricchita da nuove immagini e scoperte, delle quali ci parla in questa minuziosa intervista.

Cosa significa ripercorrere le tracce di Van Gogh, oggi?

Significa ripartire da ciò che amava. Rivivere, fisicamente, le atmosfere da lui respirate oltre cent’anni fa. Un percorso che lo portò a cambiare decine di residenze – fra Olanda, Belgio, Inghilterra, Paesi Bassi – dal 1853, anno della sua nascita nel Nord Brabante, fino al 1890, quando morì a Auvers-sur-Oise, vicino Parigi. Iniziai questo viaggio trent’anni fa, grazie a due famosi fotografi – Mario Dondero e Danilo De Marco. Scrissi allora il primo libro, illustrato dai loro scatti. L’ho poi proseguito da sola, sino a pochi mesi fa: non si è trattato solo di tornare nei luoghi, oggi in parte mutati, ma ha significato studiare ancora, affrontare questioni spinose, senza lasciarsi trascinare dai luoghi comuni che aleggiano attorno a un artista fin troppo relegato al mito dell’artista “eroico” che ritengo non gli appartenga né gli renda il giusto merito. Perché, nel caso, appartiene a lui come a molti altri pittori, non solo della sua epoca. La sua grandezza, io credo, sta altrove. Nell’unicità del suo sguardo.

Studiando l’epistolario, cercando le possibili ispirazioni, letterarie e artistiche, dei suoi dipinti, ho cercato d’immaginare l’approccio, le sensazioni. Van Gogh amava la natura, la brughiera nebbiosa, i mucchi di carbone delle miniere del Belgio, gli uliveti provenzali, i mulini, i pittoreschi villaggi nell’Ile-de-France. Il sole e la pioggia. Il giallo cromo, che da poco si usava in pittura: un colore vivo, ma anche simbolico. Le stelle. Le camminate lungo il Tamigi, da Londra fino a località molto distanti. Il brulichio del porto di Anversa, la spiaggia ventosa di Scheveningen, che raggiungeva a piedi dall’Aia. I canali e le gallerie d’arte di Amsterdam. Camminava e dipingeva all’aria aperta, con o senza cavalletto. In tempi di pandemia, quei luoghi sono off limits. Ma sono tutti lì, nelle sue opere, o descritti nelle lettere a parenti e amici. C’è, inoltre, una varia umanità. Contadini, minatori, postini, prostitute, locandiere, bambini, artisti. Anche loro fanno parte del viaggio che ho ripercorso per ricostruire la vita e l’opera sulla quale si può finalmente lavorare senza aggettivi roboanti.

Non è un caso che questo libro lo abbia scritto durante il lockdown, quando ho dovuto fermarmi. Comunque, non è mai stata una ricerca feticistica: non si è mai trattato esclusivamente di verificare quanto Vincent fosse stato fedele alla realtà, quanto l’avesse più o meno trasfigurata (molto poco, a dire il vero, nonostante in passato si sia parlato di dipinti allucinati). In quei luoghi ho rivissuto la poesia delle sue pennellate, ma anche le letture, i pensieri che lo avevano ispirato. Un’indagine che studia relazioni, intrecci, influenze. Per questo l’ho definito un viaggio mentale e fisico.

I cambiamenti riscontrati rispetto al precedente viaggio di scoperte, vi hanno sorpreso? Se sì, in che modo?

Studi, scoperte, ricordi si sono stratificati nel tempo, in modo irripetibile. Ogni volta qualcosa è mutato. Magari non il luogo in sé, ma il mio approccio a quel luogo. E a Van Gogh. Tornare a Parigi o a Auvers-sur-Oise, visitate un tempo con Danilo e Mario, che poi hanno preso altre strade, mi dà sempre nuove sensazioni. Da allora il mondo ha fatto passi da gigante. Non avevamo smartphone, computer portatili, fotocamere digitali. Si viaggiava in modo diverso. Quei luoghi sono mutati molto più in questi ultimi trent’anni che dai tempi di Van Gogh al 1990. Alcuni anche in meglio: Amsterdam ha ingigantito e modernizzato il suo meraviglioso museo dedicato a Van Gogh, per esempio. E il suo staff continua a fare ricerca.

Che idea ha maturato circa il Ritratto del dottor Gachet, da tempo andato perduto?

Lo vidi a New York prima che scomparisse. Non sappiamo se è perduto, certo è in mani private, ben celato. Vincent lo dipinse un mese prima di morire: Paul Gachet era medico omeopata, artista lui stesso, per quanto dilettante. Soffriva di depressioni, era malinconico, e Van Gogh lo riteneva “più pazzo di lui” (ammesso che ambedue lo fossero). Mi son fatta l’idea che quella malinconia che accomunava Vincent a Gachet sia riflessa in un piccolo particolare: un rametto fiorito di digitale purpurea, in basso nella tela. Una pianta con proprietà cardiotoniche che Gachet raccomandava agli epilettici, e non dimentichiamo che Vincent soffriva di crisi incontrollabili. La digitale, che fioriva nel giardino di Gachet a Auvers, oggi diventata casa-museo, era però velenosa. Tanto che ne ho ritrovato memoria in una poesia di Giovanni Pascoli, otto anni dopo: dice che quel fiore è mortale, anche se bellissimo… e inebria l’aria… Non credo che quell’inserzione nel dipinto fosse un presagio di morte, ma certo uno dei tanti simboli concreti di un disagio.

Nel volume è citato Nel Cielo di Mirbeau. Romanzo dalle sfumature pessimiste sulla condizione dell’essere artista, di cui Vincent è tacito protagonista. Pensa sia ancora una lettura attuale?

È un libro visionario, non del tutto compiuto, bellissimo ma inquietante. Ne sconsiglio la lettura se si è giù di morale. Ma aiuta a capire Van Gogh, che Mirbeau aveva conosciuto, e del quale aveva comprato, fra i primi, un dipinto. Lo ammirava molto, e mostra di avere capito davvero tante cose, passate inosservate anche a studiosi moderni. Non mi risulta che altri storici dell’arte vi abbiano dato molto peso, anche se è stato di recente tradotto in italiano.

In che modo pensa si sia evoluta la cinematografia ispirata a Vincent, negli ultimi decenni?

Dagli anni Cinquanta – penso soprattutto a Brama di vivere di Vincente Minnelli, con Kirk Douglas, a Corvi di Kurosawa, o al recente Loving Vincent, ricostruzione animata della vita di Van Gogh, fino Alle soglie dell’eternità, di Julian Schnabel, tutti si sono documentati con molta attenzione. Schnabel ha ricostruito una sessione di lavoro nella famosa casa gialla di Arles, quando Gauguin abitava con Van Gogh. Gauguin ritrae frontalmente un’arlesiana, Madame Ginoux, mentre Van Gogh, entrato più tardi nella stanza, la raffigura di tre quarti. Andò veramente così. L’ho documentato nel libro, e visivamente quel fotogramma mi è stato utile.