Non bisogna mescolarsi con i surrealisti. Sono gente cretina e ostile.

Era il 1926 e Giorgio de Chirico scriveva così al fratello Alberto Savinio che a Parigi stava cercando una galleria per esporre i suoi ultimi dipinti. Giudizio lapidario, ma certo comprensibile, visto che appena pochi mesi prima la rivista La Revolution Surréaliste aveva pubblicato l'immagine di una sua opera, Oreste e Elettra, sfregiata con righe nere.

E pensare che la storia del Pictor Optimus con le avanguardie francesi era cominciata diversi anni indietro sotto i migliori auspici, dal momento che l'indiscusso 'papa' del movimento, “l'effervescente” André Breton, aveva addirittura esaltato la Metafisica del pittore italiano, facendone il simbolo della nuova arte. Ma le relazioni nel mondo della cultura sono spesso più burrascose di quanto si possa immaginare e il colpo di fulmine per de Chirico si trasformò presto in avversione, addirittura in odio. Colpa fu quel suo ritorno al classicismo, quella ricerca di Rinascimento con cui l'Optimus sembrò ferire le avanguardie artistiche sedicenti rivoluzionarie, fino al punto da dichiararlo “morto” a partire dal 1918 e di bollare tutte le sue opere metafisiche successive come falsi o copie.

A dirla tutta, però, i motivi di tanta sfida non furono solo di filosofia estetica. Se Bréton era infatti il fondatore e il teorico del Surrealismo, forte in lui era anche la vena commerciale che gli faceva acquistare opere e poi rivenderle a caro prezzo come un qualsiasi mercante. E a quanto raccontano le cronache si era approvvigionato di molti dipinti giovanili di de Chirico giungendo persino a sollecitare - proprio lui - copie di quelli di cui aveva più richiesta. Brutto “affaire” che non si risolse in fretta, anzi, non si risolse affatto: de Chirico proseguì la sua ricerca tra i classici di tutti i tempi, trovando nuovi galleristi per la nuova pittura, mentre Breton continuò ad insultarlo. Una scazzottata nell'ottobre del 1935 a Parigi, vide al tappeto l'artista italiano, ma il peggio non era ancora finito e l'anatema lanciato dal portabandiera del Surrealismo fu ancora più doloroso dei pugni. La fama di de Chirico come voltagabbana e copiatore di se stesso lo perseguiterà per tutta la vita. E oltre.

Una mostra a Pisa, nello storico Palazzo Blu, rende giustizia di decenni di denigrazioni e maldicenze ripercorrendo l'intera carriera artistica dell'artista. E se il pittore aveva spesso risposto alle critiche con tracotanza, magari anche autocelebrandosi senza falsa modestia, l'esposizione De Chirico e la Metafisica, organizzata da Fondazione Pisa e Mondomostre, mette in evidenza la continuità di un percorso complesso e poliedrico, ma nello stesso tempo lucido e coerente. “L'opera di Giorgio de Chirico è un lungo viaggio attraverso immagini e parole, una navigazione fatta di partenze e di ritorni che ha percorso il Novecento lasciando una traccia profonda che si rinnova ancora nell'arte delle ultime generazioni”, scrive il critico Lorenzo Canova, curatore della rassegna pisana insieme a Saretto Cincinelli, nel catalogo pubblicato da Skira. “Una mostra come questa permette di conoscere l'artista grazie a una serie di chiavi di lettura che possono aiutare ad aprire il sipario sui suoi enigmi e percorrere il suo magnifico labirinto”.

Dai primissimi quadri all'insegna di Böcklin e del Simbolismo tedesco al mistero laico della Metafisica. Dai primi manichini senza tempo agli archeologi con grembi pieni di rovine e templi fino ai trofei e ai paesaggi compressi in una stanza nati dalla riscoperta dei classici. Eccola qui la seconda Metafisica, quella degli anni Venti-Trenta, quando si consuma lo strappo con i surrealisti.

La Neometafisica dai colori brillanti arriva ancora più tardi, a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, passando attraverso la serie fantastica de I Bagni Misteriosi, dei nudi femminili, delle nature morte e dei cavalli che scalpitano su spiagge popolate solo da eroi. L'idea della mostra è quella di una “Metafisica continua” con ritorni e nuove partenza secondo un concetto ciclico del tempo, in cui il passato è uguale al futuro. Una teoria che troviamo condensata in una sola tela, Il ritorno di Ulisse, dove in un mare racchiuso in una stanza naviga un giovane con la sua barchetta. Ora siamo nel 1968. Su una parete di quella stanza campeggia un quadro di una piazza deserta; dalla parte opposta si apre una finestra su un tempietto greco in mezzo al niente; una porta semiaperta lascia intravedere solo uno spazio scuro a ricordare i molti altri enigmi che ci aspettano. Il piccolo Ulisse che rema in modo circolare con la sua barchetta è l'alter ego di de Chirico, che, da solo, parte e ritorna nel mondo tempestoso dell'arte. “Lui non condivideva l'idea del tempo “progressivo” della modernità e delle avanguardie”, conferma Canova. Interessi commerciali a parte, questo dunque è anche uno dei motivi teorici di rottura con i surrealisti. D'altronde proprio il sentirsi “pictor classicus”, oltre che “optimus” spiega il senso di quelle copie tanto contestate dei suoi stessi dipinti.

“Se a Tiziano o a Rubens chiedevano un quadro, loro volentieri dipingevano le repliche dei loro capolavori”, sottolinea Canova. “De Chirico si sentiva un pittore antico e quando apponeva date improbabili alle sue repliche metafisiche l'intenzione era quella di evidenziare l'atemporalità dell'arte”. Lui, navigante senza bussola, allora, sempre in viaggio nel tempo eterno e immobile. Così si spiegano anche i molti travestimenti in cui appare nei suoi numerosi autoritratti. E persino quando, nel 1942, si dipinge nudo, mostrando crudamente i dettagli che sottolineano l'avanzare degli anni, indossa teatralmente una maschera: quella dell'uomo inerme di fronte agli orrori della guerra. Tanto più che in questo autoritratto, che chiude la mostra di Palazzo Blu, de Chirico era completamente nudo, senza il drappo bianco a coprirgli l'inguine. Quello lo aggiunse più tardi per poter esporre il quadro in una galleria di Londra, dal momento che gli inglesi, all'epoca ancora un po' puritani, non avrebbero apprezzato il troppo realismo del basso ventre.

La guerra, anzi le due guerre mondiali si incontrano altre volte nelle sue opere. Come nell'addio di Ettore e Andromaca, avvolto in uno spazio popolato solo da strane architetture e da ombre sinistre che rafforzano la potenza enigmatica della Metafisica. Nel dipinto del 1917 (in mostra una replica) la leggenda omerica evoca il saluto di tanti soldati che partivano per il fronte sapendo di morire. Ma i corpi degli amanti sono ridotti a glaciali manichini, simbolo della degradata società industriale e anche degli anni atroci del conflitto: non hanno braccia per stringersi, né occhi per guardarsi e bocche per baciarsi. Qualche anno più tardi, nel 1924, de Chirico ripropone lo stesso tema, ma in un ambiente meno spettrale, dove appaiono sullo sfondo due nervosi cavalli bianchi.

E gli stessi manichini-amanti possono finalmente toccarsi con braccia e mani umane. In questo viaggio nella “Metafisica continua” ritroviamo ancora Ettore e Andromaca in un dipinto del 1974 (Pianto d'amore), dove finalmente Andromaca ha sembianze umane e può piangere sulle spalle dell'amato. Così, con questi eroi omerici in perpetua trasformazione si ripercorre la strada dell'artista nella mai conclusa rilettura delle sue stesse idee che conduce fino alla Neometafisica. E insieme allo spettacolo dei folgoranti soli sul cavalletto, intorno agli anni Settanta, una grande tela, Orfeo, trovatore stanco, ci propone un altro suo alter-ego. Perché Orfeo, figlio di Apollo, è l'artista per eccellenza, colui che compie viaggi dell'anima lungo oscuri sentieri e che incanta gli animali con la sua lira.

Così in fondo si sentiva anche il pittore. Orfeo-de Chirico però è ormai stanco, seduto e quasi rassegnato, con la lira e il pugnale gettati a terra in maniera teatrale, quasi in segno di resa. Ma sarà solo un momento di sconforto: de Chirico non si arrenderà mai alle calunnie sul suo lavoro. La mostra è la prova della sua vittoria.