Chi al mondo non conosce la storia di Paddington, l'orsetto ghiotto di marmellata di arance e cioccolata che non sa tenersi lontano dai guai, alzi la mano.

Per quei pochi che non lo conoscono, ricordiamo che questo simpatico personaggio fu inventato quasi per caso dalla penna dello scrittore inglese Michael Bond nel 1956. A ispirarlo, mentre comprava un regalo per la moglie, fu un orsacchiotto di pezza mollemente adagiato sugli scaffali di un negozio di Londra, non lontano dalla stazione di Paddington.

Il 13 ottobre 1958, un solo giorno dopo la data in cui ufficialmente viene scoperta l'America da Cristoforo Colombo, viene pubblicato in Inghilterra il primo episodio di 70 titoli complessivi, con il titolo A Bear Called Paddington.

Tradotto in 30 Paesi e con più di 35 milioni di copie vendute, da quel dì questo orsetto è divenuto celebre in tutto il mondo, al punto che oggi una sua statua in bronzo saluta i viaggiatori della stazione londinese del quartiere di Paddington, da cui ha preso il nome.

Come spesso accade, anche nel caso di Paddington il suo successo si costruisce inizialmente su un errore del suo creatore.

Dovendo stabilire un luogo da cui far pervenire l'orsetto, infatti - che ricordo venne ritrovato nella stazione londinese omonima dalla famiglia Brown, seduto sulla sua valigia e con un cartoncino attaccato al suo vestito che diceva "per favore prendetevi cura di questo orso" - in un primo tempo Bond lo fece viaggiare fino a Londra dall'Africa Nera (the darkest Africa). Peccato che in Africa gli orsi non esistono...

Fu l'editore a far notare l'incongruenza narrativa a Bond, il quale da parte sua si limitò a sostituire la provenienza: Africa con Perù.

In conseguenza di questo fortunato errore, quando Peggy Fortnum fu incaricata di disegnare Paddington, gli diede le fattezze di un Tremarctos Ornatus, che non è un terribile mostro intergalattico, bensì, semplicemente, l'orso andino dagli occhiali.

Un orso di taglia decisamente minuta, del quale si conosce in verità molto poco, essendo difficilmente osservabile allo stato brado, anche a motivo della inaccessibilità del suo habitat naturale, fortemente compromesso dalla deforestazione indotta dall'uomo per fare spazio alle coltivazioni di coca, olio di palma, cacao e caffè.

Si conta che oggi sopravvivano circa 20 mila esemplari, tra Perù, Colombia, Venezuela e Ecuador, protetti a fatica da una Fondazione preposta alla loro salvaguardia.

A testimoniare quanto questo orso sia connaturato con questi Paesi, nel 2012 la Colombia gli ha dedicato il retro della moneta da 50 Pesos.

Di recente, un esemplare di orso andino con gli occhiali è stato fortuitamente ripreso da alcune telecamere posizionate all'interno della foresta amazzonica; un brevissimo filmato nel quale compare l'orso mentre gioca svogliatamente con la telecamera che lo riprende, mantenendo così fede nella realtà alla notoria pacatezza che Bond ha saputo conferirgli, cucendoli addosso il personaggio di Paddington.

Il resto della storia attiene alle dinamiche letterarie con cui Bond ha confezionato il personaggio e tutto quello che gli ruota attorno. Determinante, in tal senso, è la narrazione contenuta nel primo episodio, che concorre a definire i tratti essenziali del personaggio e il suo contesto di riferimento.

A ritrovare Paddington nella stazione londinese sono, come detto, i coniugi Brown, ai quali l'orsetto racconta di provenire dal darkest Perù:

Ho viaggiato per tutto il tempo in una scialuppa di salvataggio mangiando marmellata d'arance. Gli orsi amano la marmellata.

A mettere Paddington sulla scialuppa che lo condurrà a Londra in cerca di fortuna è stata la zia Lucy, che vive in una casa di riposo per vecchi orsi pensionati a Lima, mentre il caratteristico cappello rosso gli è donato dallo zio Pastuzo.

Poiché i Brown non riescono a comprendere il suo nome scientifico, decidono di chiamarlo Paddington, come la stazione in cui lo trovano, e lo portano a casa loro per prendersene cura, al 32 di Windsor Garden.

Così facendo, di fatto, davano corso alla richiesta affidata al cartoncino anonimo appeso al suo vestito, un po’ come veniva fatto coi bambini che venivano caricati sui treni che li portavano fuori Londra durante la Seconda guerra mondiale, per sfuggire ai bombardamenti tedeschi.

Fu a loro che Bond si ispirò nel creare il personaggio di Paddington, come infatti rivelò qualche anno dopo; un personaggio mite e pasticcione, ingenuo e incapace di fare del male a una mosca, che ricorreva come unica forma di difesa allo sguardo truce e fulminante che gli insegnò la zia Lucy, così da tenersi fuori dai guai e difendersi dai malcapitati.

Quindi, in definitiva, possiamo riassumere la faccenda così: Paddington non è altro che un simpatico orso nano del Perù, incapace di fare del male a una mosca, il quale viene letteralmente estirpato dal suo mondo e dai suoi parenti e fatto viaggiare su di una nave che lo proietta disorientato verso l'Europa in cerca di fortuna.

Una sorte analoga a quella di Paddington dovette toccare ai nativi americani dopo che il 12 ottobre 1492, secondo quanto ci viene raccontato dagli storici, Cristoforo Colombo raggiunse le coste delle isole caraibiche, quando ritornando in patria portò con sé semi, animali e nativi.

A questo punto vi starete dunque domandando cosa c'entri Leonardo da Vinci con la storia di questo piccolo orsetto ingenuo, impacciato e pasticcione, frutto della penna di uno scrittore di libri per bambini della Inghilterra post-bellica, creato forse per placare la propria coscienza al ricordo di tutti quei bambini costretti, in tempo di guerra, ad allontanarsi dai propri genitori per non soccombere sotto il peso dei bombardamenti.

In effetti, poco.

Molto poco, se assumiamo la vita di Leonardo come siamo soliti pensarla secondo il racconto che ne hanno fatto gli studiosi fino a oggi.

Eppure l'esistenza di Leonardo bambino non fu molto diversa da quei bambini che Bond incontrava nella stazione londinese durante la Seconda guerra mondiale, a cui si ispirò nel creare il personaggio di Paddington: come loro, fu costretto giovanissimo a scappare da Firenze, dove nacque, per non soccombere al peso di ben altro tipo di bombardamenti, quelli delle menzogne dell'uomo adulto usate nel combattere la guerra per la supremazia di quei territori da cui Paddington, nella finzione letteraria, proveniva.

E non alludo certo al semplice fatto che Leonardo disegnò un orso un paio di volte in vita sua, visibile oggi nei fogli ormai dispersi dei musei di mezzo mondo, tra i quali la Royal Collection di Windsor, lo stesso nome della via in cui i Brown condussero Paddington presso la loro abitazione. No. Sarebbe un peccato di superficialità imperdonabile, da parte mia, cadere in un simile errore. Senza contare il fatto che, tra le altre cose, così facendo tradirei le vostre aspettative, alimentate da un titolo così ambizioso.

Lungi da me voler approfittare della vostra buona fede in cambio di un po’ di visibilità, del resto.

Il fatto è che Leonardo, come fece la Fortnum nel dare vita al personaggio di Paddington, realmente disegnò un orso andino dagli occhiali, anticipandone di cinque secoli la rappresentazione. E lo fece sicuramente nel 1480, cioè ben prima del viaggio di Cristoforo Colombo in America. Ma anche molto prima, come vedremo.

Anzi, data l'estrema rarità di questo animale e la celebrità del suo disegnatore, a questo punto potrei anche spingermi oltre, azzardando che Leonardo disegnò l'unico orso andino dagli occhiali che potrebbe divenire famoso quanto Paddington.

Eh già, perché ne esistono altri. Diversi altri, dell'epoca di Leonardo o poco prima, ma sono dipinti. Vi state domandando come sia possibile, se Colombo scoperse l'America solo nel 1492, non è così? Ve lo spiego subito, ma dobbiamo procedere per gradi.

Intanto partiamo da una considerazione oggettiva che sarebbe il caso che tutti noi assumessimo: Colombo non scoperse nulla, visto che quello che noi oggi chiamiamo continente americano era abitato da una moltitudine di persone che avevano una cultura e una storia molto più antica della nostra.

Questo atteggiamento scorretto, consolidato nel tempo, sottende un principio di superiorità (o inferiorità, dipende da che parte si osservi la questione) che non trova riscontro in nessuna motivazione sostenibile.

In secondo luogo, esiste una serie di documenti e fatti - risalenti ai primissimi anni del XV secolo - in quantità tali che lasciano intendere come le Americhe vennero visitate dagli Europei molto prima del 1492: sto parlando di mappe, circostanze e racconti, ma soprattutto rappresentazioni pittoriche che ritraggono porzioni di territorio, se non addirittura il continente intero.

Ma anche animali, specie vegetali e nativi di quei territori.

Per tutto questo, datare la conoscenza dell'America al viaggio compiuto da Cristoforo Colombo nel 1492 è un falso storico bell'e buono che ci impedisce di assumere altrimenti una serie importante di elementi che invece hanno concorso a formare il nostro passato, di conseguenza il nostro presente e se non vi poniamo rimedio, il nostro futuro.

Le mappe delle Americhe a cui faccio riferimento, per come la mappa di un intero continente può essere creata e per i tempi necessari a farlo, oggi ci dicono che la conoscenza di queste terre risale almeno a più di 2.500 anni fa, ai tempi di Eratostene, Strabone e Tolomeo, ma anche prima, se consideriamo i periodi di glaciazione alternati a quelli con clima temperato e quindi assenza di calotte glaciali ai poli terrestri. Ci sono un numero infinito di rappresentazioni del continente Artico e di quello Antartico, ad esempio, rappresentate con o senza ghiacci molto tempo prima della loro ufficiale scoperta - anche da Leonardo - che ne sono una prova schiacciante.

Queste conoscenze geografiche, che noi oggi facciamo risalire a dopo Cristoforo Colombo e quindi apparirebbero anacronistiche se datate in un periodo anteriore, in realtà entrarono in possesso di alcuni uomini europei alla fine del Medioevo, in conseguenza delle relazioni commerciali e culturali con il mondo arabo e bizantino.

Alcuni erano religiosi, altri condottieri, altri ancora letterati, tutti legati da matrimoni di convenienza o protettorati conventizi. Tra questi, una menzione particolare la dobbiamo a: - Pandolfo III Malatesta, un condottiero di Fano che servì Gian Galeazzo Visconti, primo Duca di Milano;
- Giovanni Dominici, al secolo Giovanni Banchini, un frate Domenicano legato a Caterina da Siena e ai Conventi dei Domenicani di San Marco a Firenze e Fiesole;
- Papa Martino V.

Le vite di tutti e tre questi personaggi furono legate da un destino comune nel nome di Sigismondo d'Ungheria, e nei cui intrecci possiamo leggere molti elementi essenziali alla nostra storia, comprese quelle mappe e quei fatti grazie ai quali, oggi, possiamo con certezza retrodatare le frequentazioni del nuovo continente di almeno 80 anni.

Tra l'altro, sebbene morirono prima che Leonardo nascesse, tutti e tre, in un modo o nell'altro, condizionarono profondamente la sua vita e le sue opere.

Papa Martino V fu il Papa che indisse il Concilio di Basilea, poi spostato a Ferrara e da qui a Firenze, che aveva lo scopo di appacificare le guerre di religione tra la Chiesa d'Oriente e quella di Occidente. Fu in quella occasione che giunsero a Firenze una infinità di testi e uomini di cultura che diedero impulso alle rinnovate arti, dando vita a un periodo molto florido che oggi conosciamo come Rinascimento, e che coincide, anno più, anno meno, con la nascita di Leonardo da Vinci. Senza questo Concilio, con buona probabilità, non avremmo avuto un genio assoluto come Leonardo.

In quegli anni il Papato era molto diverso da oggi, e il Papa viveva lontano da Roma; così Martino V si appoggiò molto a Pandolfo III Malatesta, il quale, combattendo per Gian Galeazzo Visconti, ebbe modo di detenere diverse Signorie nel Nord Italia, compresa Lecco, città divenuta poi famosa per ospitare I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni.

Pandolfo III Malatesta, infatti, oltre a Brescia e Bergamo, dove ospitò Martino V, fu Signore di Lecco per tre anni, dal 1416 al 1419.

Qualche anno prima, nel 1409, egli fu proprietario del Ponte Azzone Visconti, lo stesso ponte che Leonardo dipingerà diversi anni dopo alle spalle della Gioconda.

Giovanni Dominici, che prima di morire, nel 1419, fu nomina legato in Boemia da Martino, legò come detto le sue sorti ai conventi domenicani di Firenze e Fiesole, nei quali le testimonianze di una conoscenza delle Americhe anteriori al 1440 si sprecano nei dipinti del Beato Angelico.

Per quanto detto finora, quindi, non è casuale che le testimonianze relative alle Americhe si trovino nascoste in dipinti, affreschi, monete, e manoscritti riconducibili alle famiglie che ruotarono attorno a queste tre figure.

I d'Este, i Malatesta, i Medici, gli Sforza, i Saluzzo, i Visconti, i Bentivoglio, alcune delle più potenti famiglie del Rinascimento, spesso imparentate tra loro per accrescere il loro potere o conservare conoscenze importantissime spesso proprio legate alle Americhe, sono tutti accomunati dal fatto che a loro sono riconducibili rappresentazioni figurative che contengono rimandi espliciti al nuovo continente, e quasi sempre in associazione a due cani, l'uno bianco e l'altro nero, espressivi dell'Ordine dei Domini Cani, i domenicani.

Avvalendosi del contributo di pittori di primissimo piano, quali Pisanello, Beato Angelico, Benozzo Gozzoli, Botticelli, o di incisori altrettanto validi, uno su tutti Baccio Baldini, queste famiglie legarono i propri ritratti o documenti celebrativi alle terre oltre oceano.

Non meno utilizzate furono le monete coniate dalle zecche locali (ad esempio, Brescia con Pandolfo III Malatesta) o i manoscritti, quali, ad esempio, l'Hesperis di Basinio da Parma volto a narrare le vicende di Pandolfo Sigismondo Malatesta.

Questi legherà spesso la sua immagine all'America per mezzo di Piero della Francesca, o quella della moglie Ginevra d'Este per mano di Pisanello, forse il pittore che più di ogni altro raffigurerà le nuove terre nelle sue opere.

Una di queste rappresentazioni è molto eloquente per affermare come il nuovo continente fosse stato raggiunto già prima del 1438, e la vicenda di Cristoforo Colombo sia solo un falso mito, costruito a tavolino utilizzando memorie dei precedenti viaggi transoceanici.

Alludo a un dipinto oggi conservato alla National Gallery di Londra, intitolato la Visione di Sant'Eustachio. Il Santo viene ripreso a cavallo mentre di fronte a sé scorge l'America del Sud.

A contribuire a rafforzare l'impianto "cartografico", nella parte bassa del dipinto, si scorge una raffigurazione della Terra Australis, immancabilmente priva di ghiacci.

Succede così che oltre a rappresentazioni parziali o totali delle terre ufficialmente ancora da scoprire, facciano la loro apparizione specie vegetali di esclusiva provenienza amerindi: quella più antica di tutte è la Ludwigia Peruviana, un fiore quadripetalo acquisito dai Malatesta come propria impresa familiare, che da allora assumerà il nome di Rosa Malatestiana.

Ma in ugual modo i girasoli, le solanacee (pomodori, patate, peperoncini), piante quali l'Araucaria (che tappezzerà i dipinti dei più autorevoli pittori del Rinascimento), il mais e molto altro ancora.

In virtù di questi primi viaggi, e del potere che ne conseguì alle famiglie alleate che ne permisero l'attuazione, si creò un sodalizio contrapposto, formato da Spagnoli, Portoghesi, Tedeschi e la Chiesa di Roma, intessuto principalmente da Pio II e Federico III.

Questo dualismo innescò una guerra per il predominio delle nuove terre, acuito da una guerra di carattere culturale volta a debellare, da parte dei Papi che si susseguirono a Pio II, ovvero Paolo II, Sisto IV e Innocenzo VIII, combattuta attraverso l'istituzione dei tribunali dell'Inquisizione, accuse di eresia, massacri e roghi in piazza.

Al pari del piccolo Paddington, Leonardo, che nella realtà era un de' Medici, fu mandato via giovanissimo da Firenze, per scansare i colpi di questa battaglia cruentissima.

I motivi per cui Leonardo fu allontanato, in realtà, sono diversi: era un de' Medici, e quindi era espressione di quel sodalizio che spinse alcuni europei ad allacciare legami amichevoli con i pari grado in America (su tutti Pachacutèc, ultimo imperatore Inca morto nel 1459, nei panni del quale Benozzo Gozzoli dipinge Cosimo de' Medici nella Cappella dei Magi di Palazzo Medici Riccardi a Firenze) ma era anche colui il quale fu investito di salvaguardare il profondo sapere neoplatonico, condotto a Firenze dai Bizantini sotto la guida di Gemisto Pletone. Chi accolse Leonardo, offrendogli protezione e garantendogli così di portare a termine il compito del quale era stato investito? Il Duca di Milano, Francesco Sforza, da non molto subentrato al suocero Filippo Maria Visconti.

Fu così che Leonardo, giovanissimo, raggiunse il Ducato di Milano, col suo cappellino rosso, accompagnato da figure di primissimo piano in ogni ambito: Poggio Bracciolini, figura di spicco del mondo culturale fiorentino, Francesco Sassetti, banchiere e direttore del Banco Mediceo di Milano e Andrea del Verrocchio, che aveva il compito di istruire Leonardo alle arti pittoriche e scultoree.

Con loro sicuramente ci fu anche Benedetto Dei, una sorta di ambasciatore della famiglia de' Medici, specializzato nella tessitura di rapporti e relazioni diplomatiche.

Sono istato a Milano l'anno che Franciescho Isforza lo prese cholla spada in mano, e tornai cho' Medici...

Questa seconda circostanza è documentata da Benozzo Gozzoli in un ciclo di affreschi presenti a San Gimignano, e Leonardo era presente a guidare il corteo, accompagnato anche da Giovanni II Bentivoglio, amico fraterno di Leonardo.

Leonardo legherà la sua esistenza a una parte ben precisa del territorio milanese, e in particolar modo a quella che si estende a Nord di Milano, lungo il ramo orientale del Lario, fino alla Valtellina, grazie alla quale il Ducato poteva ambire a smarcarsi dal controllo della chiesa romana per unirsi ai movimenti protestanti europei.

A riprova di ciò, al di là dei molti disegni con cui egli annoterà le particolarità del territorio, Leonardo utilizzerà i paesaggi attorno a Lecco per fare da completamento a tutte le sue opere tranne una (il ritratto di Ginevra Sforza, moglie proprio di Giovanni II Bentivoglio, e non de' Benci, come erroneamente viene detto). Addirittura, Leonardo arriverà a innovare l'impianto iconografico tradizionale di quasi tutte le sue opere più famose per adattare i soggetti ritratti alla conformazione morfologica del paesaggio che vuole richiamare.

Lo scopo di questo modo "velato" di comunicare è rimandare persone informate là dove, giovanissimo, depositerà la summa del sapere neoplatonico.

Ed è qui che Paddington, il nostro amico orsetto peruviano entra in gioco. È vero che nelle loro opere più famose, i più grandi pittori del Rinascimento inseriscono qua e là dei riferimenti inequivocabili, a denunciare una frequentazione delle Americhe ben anteriore rispetto a quanto i libri di storia ci raccontano, ma è proprio qui, nel Ducato di Milano che queste testimonianze sono più esplicite e genuine, se così posso dire.

È come se il committente avesse preso parte direttamente a quei primissimi viaggi. Alludo a tre cicli pittorici riconducibili alla stessa mano, cioè quella dei fratelli Zavattari.

  • Quelli nella Cappella Teodolinda del Duomo di Monza, datato sempre attorno al 1450, apparentemente relativo alle nozze della Regina Teodolinda con Agilulfo, ma che invece rimandano alle nozze disposte nel 1441 da Filippo Maria Visconti per la figlia Bianca Maria con Francesco Sforza. Non è ardito pensare che la committenza possa essere stata fatta proprio dal Duca stesso.
  • Quelli presenti nella Casa del Pellegrino a Civate, poco fuori Lecco, il cui impianto decorativo, anch'esso databile al 1450, è prettamente di stampo pagano, con scene di amor cortese e attività venatorie, salvo contenere alcuni rimandi religiosi apposti in un secondo tempo, quando al sole sforzesco è stato aggiunto il monogramma IHS, che rimanda a San Bernardino (o ai Gesuiti) e l’aggiunta di un tondo con la mano benedicente.
  • Una analoga rappresentazione la troviamo a Oreno, alle porte di Milano, nel Casino di Caccia visconteo di quella che poi diverrà una residenza Borromeo, che ospiterà, in un’ala laterale, Gian Giacomo Caprotti, detto Sala(ì)dino, considerato erroneamente l’allievo amante di Leonardo da Vinci.

Queste due ultime rappresentazioni offrono all'osservatore moltissime analogie, riconducibili a scene di caccia analoghe, simili nelle forme e vestizioni dei protagonisti alle immagini relative alle vicende della famiglia Visconti, ma soprattutto ritroviamo moltissime analogie con quanto rappresentato da altri pittori rinascimentali richiamati in precedenza, come i cani espressivi dell'Ordine dei Domenicani, la Ludwigia Peruviana, solanacee di vario titolo (patate, pomodori), girasoli, un Pecari (riconoscibile dal cinghiale per i denti dritti e non ricurvi e dall'avere tre unghie anziché due nelle zampe posteriori) che viene contrastato con il fusto di quella che sembra una pianta di Yucca, e molto altro ancora.

È inequivocabile il fatto che le scene rimandino a un'esperienza "sul campo" fatta dai protagonisti, e quindi assume ancora più rilievo quel piccolo orsetto che in tutte e tre le rappresentazioni fa la sua comparsa.

Il contesto e tutti gli altri animali e vegetali (soprattutto la Ludwigia Peruviana) non lasciano alcun dubbio sul fatto che si tratti di un orso andino con gli occhiali.

Vedendo le immagini vengono subito alla mente alcune spontanee associazioni con la vicenda di Paddington, così come concepita dal suo autore, errori iniziali compresi: un piccolo orsetto, proveniente in barca dal Darkest Perù (e come, altrimenti?), viene accudito amorevolmente da una dama della nobiltà milanese e in un’altra immagine, invece, a prendersi cura del piccolo orsetto è un uomo di colore, indigeno senz'altro, che mi fa tornare alla mente quello che l'editore disse a Bond, determinando forse involontariamente il successo del personaggio, e sicuramente la sua figura: "in Africa non ci sono orsi".

Tra l'altro, anche Pisanello nella Visione di Sant'Eustachio del 1438 inserisce un orso andino, mentre, con buona probabilità, il cervo che staziona sull'America del Sud raffigurata è un Marsh Deer, ripreso anche sul retro di una moneta dedicata a Domenico Malatesta; figlio di Pandolfo III, fu forse proprio in conseguenza del fatto che fu colui che vide l'America nel giorno di Sant'Eustachio, che da quel dì prese il nome di Novello?

Per far capire come la vicenda di Cristoforo Colombo sia solo una storia costruita a tavolino dalla Chiesa romana, con i regnanti di Spagna, Portogallo e Germania, dobbiamo ricordare che nel Martirologio Romano Sant'Eustachio all'epoca veniva celebrato il 12 ottobre.

È fin troppo palese ciò che Pisanello intendeva celebrare col suo dipinto, in relazione alle nuove terre raggiunte.

Una riproposizione del tema dipinto da Pisanello, datata 1480, è esposta nella Cattedrale di Canterbury, non lontano da Londra. Qui il continente americano è rappresentato nella sua interezza, e non escludo possa esservi rappresentato un orso andino con gli occhiali anche lì.

In questo caso, sarebbe il primo antenato di Paddington ad aver raggiunto la terra di Albione. Sempre Pisanello, sul retro di un'altra moneta dedicata a Ludovico Gonzaga, disegnerà un girasole. Per onor di cronaca, ricordo che queste rappresentazioni sono anteriori al 1447. Leonardo ebbe sicuramente modo di vedere tutti e tre i dipinti di Monza, Oreno e Civate, ma c'è qualcosa nella rappresentazione che egli fece dell'Orso andino con gli occhiali, va ben oltre quelle finora osservate.

E non potrebbe essere altrimenti, viste le sue capacità figurative e conoscenze del mondo animale e dell'anatomia. Altrimenti non staremmo parlando di Leonardo.

Come ho detto in precedenza, Leonardo giunge nel Ducato milanese giovanissimo e con un compito delicatissimo: portare in un luogo sicuro quella conoscenza giunta a Firenze attraverso il mondo bizantino, che la Chiesa, a suon di Bolle Papali e Inquisizioni, intese oscurare.

Per questo motivo, Leonardo decorerà giovanissimo una intera sala di un palazzo posto in posizione defilata e protetta, all'interno del Ducato degli Sforza, e inserirà in seguito tutta una serie di rimandi nelle sue opere al fine di permetterne il ritrovamento. Il paese è Teglio, la capitale della Valtellina, e la stanza decorata (forse con un contributo della scuola del Verrocchio) è la Sala della Creazione di Palazzo Besta.

La sala, finemente decorata da un autore anonimo, contiene una delle più alte testimonianze in termini di contenuti, dell'intero panorama artistico Rinascimentale (e di conseguenza, successivo): geografia, musica e molto, moltissimo neoplatonismo. Ognuna delle singole lunette con cui questa magnifica sala è decorata contiene rimandi ed è perfettamente sovrapponibile ai disegni presenti nei codici leonardeschi sparsi in tutto il mondo.

Sibillina è la frase posta in calce al planisfero, in cui le Americhe e l'Antartide priva dei ghiacci fanno capolino, la cui parte relativa al Mediterraneo, nuovamente, è perfettamente sovrapponibile a quella contenuta in un codice di Leonardo:

TERRA AVSTRALIS ANNO 1459 SED NONDVM PLENA COGNITA.
(Terra Australe anno 1459 così come non ancora totalmente conosciuta)

La complessità dei temi trattati, la sovrapponibilità con i disegni di Leonardo e i contenuti che offre, che non hanno pari in nessun altro dipinto nel panorama artistico, non lasciano dubbi su chi possa avere composto gli affreschi di questa sala. Solo una persona può aver dipinto una simile eccellenza: Leonardo da Vinci.

Nuovamente, è la presenza di elementi che rimandino al Sud America a lasciare perplessi, tanto più che il contesto alpino della Valtellina non aiuta a giustificare il fatto che tra i vari animali ritratti si trovi un lama e che nella scena biblica in cui Caino e Abele litigano, i due si prendano letteralmente a colpi di ... mais!!

Tra le altre cose, in uno dei disegno di Leonardo conservati a Windsor e facente parte della Royal Collection, troviamo quello che è senza dubbio il primo girasole disegnato da un artista dopo il 1492, a dimostrazione del fatto che Leonardo non era avulso dalle cose del Nuovo Mondo.

Alla luce di tutto ciò, dunque, anche per la compresenza di animali e vegetali sudamericani e le dimensioni ridotte con cui è rappresentato, ritengo di poter affermare che i due orsi dipinti da Leonardo nella Sala della Creazione di Palazzo Besta a Teglio, così simili a quelli da lui disegnati e conservati nei fogli dei suoi codici, siano due orsi andini con gli occhiali.

Per tutti questi motivi, qui solo accennati, ma comprovati da moltissima altra documentazione già in mio possesso, possiamo affermare senza timori di smentita alcuna che "Leonardo, giovanissimo, disegnò il propropropropropro zio di Paddington".