“Vivere soltanto vivere, in quel momento in quel luogo. Senza mappe, senza orologio senza niente. Montagne innevate, fiumi, cieli stellati. Solo io e la natura selvaggia.” (Into the Wild)

Nella natura selvaggia, tra paesaggi amari e infiniti, quasi metafisici, alla De Chirico, si perdono e si stagliano corpi colorati, così impastati di colore che sembrano nascere dalle polveri corpuscolari dell’artista indiano Kapoor. Nelle opere di Jean-Paul Bourdier la fotografia si mischia alla bodypainting più sofisticata e teatrale, quasi ricordando una delle perfomance Les gens de couleur della compagnia francese poliedrica, Ilotopie.

Bodyscapes è il titolo di una delle serie fotografiche più stupefacenti e famose dell’artista, ed è infatti proprio di paesaggi corporei di cui si parla, in questi scatti infatti il corpo fisico dei personaggi si mischia, si ibrida, si confonde alla natura selvaggia e aspra. L’artista è docente di disegno, design e fotografia al dipartimento di architettura alla UC Berkeley in California. Fotografie rigorosamente analogiche che si discostano dall’uso di Photoshop (precisazione presente sul sito ufficiale dell’artista), formalmente perfette, incantano da subito l’occhio per la perfezione armonica e cosmica che emanano.

Tutto è squisitamente proporzionato e in linea, un meticoloso set da tableaux-vivants viene ricreato tra gli anfratti dei paesaggi più sconfinatamente vasti e incontaminati da ogni soluzione architettonica artificiale. Specchi d’acqua che si perdono all’infinito, cieli talmente tersi da spiegarci l’immenso in una pennellata di cielo. E poi sorgono, emergono i corpi, riflettendosi, in maniera speculare, con i corpi nudi ma ricoperti interamente di colore, talvolta metallici da rendere la muscolatura qualcosa di talmente perfetto da non poter essere colto.

Sono uomini, donne, probabilmente tribali, dalle usanze ancestrali, il sesso non diventa che metafora dei pigmenti colorati. Seni, cosce, piedi, si confondono a pietre, deserti e rami, ma anche ghiacciai e montagne rocciose. È questione di rime baciate, Bourdier diventa poeta dello sguardo, accostando le curve dei fianchi femminili a insenature terrose, o i seni e i sederi alle curvature della terra. Viene quasi la voglia di palparli questi corpi, viene la voglia di strusciarsi a terra, di mischiarsi e mescolarsi all’origine. Corpi-paesaggio che sono origini, saltano, si allungano, rimangono sospesi tra la terra il vuoto e il cielo, mimetizzandosi a esso perché tinti di azzurro o blu.

I personaggi sembrano danzatori cristallizzati nell’attimo dell’eternità dell’infinito naturale, esiste un ritmo biologico armonico in questo accoppiamento. Perpendicolari o piegati, i corpi sono cadenza e apostrofi, scandiscono il colore del silenzio nel cuore delle terre selvagge e indomabili, cercando di non essere trovati, tra le loro solitudini ampie. Ed ecco che un corpo dal bianco farinoso e desertico e raggomitolato su se stesso sopra un enorme stesa di sassi rotondeggianti e sinuosi biancastri anch’essi, la spina dorsale diventa un solco roccioso, un scalata di vita, fragile ma determinante, da percorrere a mani nude, o in punta di piedi, perché l’eco di una parola può far vibrare quell’essere luogo. E la carne diventa luogo e silenzio come la terra madre, si arricchisce di colore per aspirare al rito, un ritmo primordiale, antico, che esiste da prima di tutto.

Rossi, gialli e blu, muscolature umane, disciolte a un sole cocente, si plasmano rassegnate e sopite in una cavità desertica naturale, la natura beve, inghiottisce la carne, sembra non esserne sazia, e l’uomo si aggrappa alla pelle del mondo con i palmi della mani colorate. A volte l’artista sceglie di far emergere dal suolo solo alcune porzioni di corpo, come busti o teste completamente di bianco, un bianco che azzera e cancella le identità, anche i capelli di imbiancano e si mischiano con l’organicità di qualche nuvola all’orizzonte, sono vanità statuarie, immobili ma caduche, metafisiche.

Accoccolati in un manto di neve, talmente alla deriva del loro essere altrove, i corpi si rannicchiano in un gesto di infinito avente per sfondi tanti esili rami secchi, neri, partiture di inchiostro solitarie. E poi la nascita di un corpo brillante, e rosso da far male, da una frattura naturale, è questa l’origine del dolore? I corpi disposti nel teatro di Bourdier sono nascite continue e perpetue, corpi che si dilatano fino a farsi penetrare dal cielo o dall’atmosfera, tesi e allungati, in tensione evolutiva verso un compimento che raggiunga l’orgasmo cosmico, sempre sotto una luce pulita e abbagliante, di quella perfezione formale cara all’artista, lucida e plastica. Viene celebrata la bellezza, selvaggia, ribelle, colorata e terribilmente immensa.

Ma che ne sappiamo noi dell’immensità? Tu che stai leggendo queste righe, tu che ne sai dell’immensità? Il vento saggio sibilante tra quelle montagne rocciose e tra quelle insenature di corpi blu o gialli sembra rispondere: "…tu chiedi alla polvere".

“Lei apparteneva alle colline, ora, e le colline l'avrebbero nascosta. Dovevo lasciarla tornare alla loro solitudine, lasciarla vivere con i sassi e con il cielo, lasciare che il vento giocasse con i suoi capelli fino alla fine. Era quella la sua strada.”
Dal libro Chiedi alla polvere di John Fante.