René Magritte, nel contesto del ricco e complesso mondo dell’arte moderna, occupa un posto del tutto particolare. Intorno a lui persiste da sempre un’aura di mistero che è indissolubilmente collegato al senso e alla modalità espressiva utilizzata per le sue opere.

È evidente che siamo di fronte ad uno degli artisti che più si possono ricollegare ad un termine ben preciso che, in fondo e da sempre, sottace dietro all’intera nostra esistenza: questa parola magica, questa formula alchemica sintetizzata in poche vocali e consonanti è enigma.

I soloni della storia dell’arte adorano da sempre le catalogazioni: l’etichetta che da sempre accompagna Magritte è infatti quella del surrealista per eccellenza. Eppure, se c’è un campo dello scibile umano in cui tali definizioni non hanno alcun senso, se non quello di suddividere i capitoli di un catalogo, quello è il mondo dell’Arte. E Magritte ne è un caso emblematico.

Certamente tutta una parte della sua formazione culturale fu influenzata in primis dal leader del movimento surrealista europeo, André Breton, nonché dai vari Nougé, Lecomte e Goemans che del classico Surrealismo belga ne erano i principali esponenti. Eppure, andando a scandagliare i fondali della vita del grande artista e innovatore che fu Magritte, possiamo scovare che la sua illuminazione, il momento di svolta nevralgico che gli permise di diventare, o meglio di tornare ad essere veramente se stesso dal punto di vista artistico, fu la visione di un’opera di Giorgio de Chirico, un quadro intitolato Canto d’amore in cui compaiono un calco del capo del dio Apollo, un guanto abnorme di lattice di chirurgica memoria ed una sfera.

Tale visione non era per nulla un mero riferimento onirico del subconscio, nelle modalità in cui il movimento surrealista cercava quasi ossessivamente di dirigersi. Tanto per capirsi, De Chirico con la sua Metafisica, aveva iniziato un percorso diverso, diretto non tanto all’esplorazione del subconscio quanto alla metamorfosi archetipica del significato degli elementi raffigurati, tale da scuotere l’osservatore con un significato per nulla exoterico e del tutto esoterico, improntato più alla spersonalizzazione di pirandelliana memoria che all’incubo alla Salvador Dalì.

René Magritte ritrovò la sua strada (ogni percorso, infatti, non è altro che un ritrovare le origini per poi comprendere o tentare di comprendere il senso del percorso) molto più attraverso la Metafisica che con l’apporto del Surrealismo. Con il senso della provocazione, innanzi tutto: una provocazione mai fine a se stessa e rivolta invece, intelligentemente, a provocare una vera e propria rivoluzione interiore nei confronti dell’osservatore, data dall’utilizzo al di là del tempo e dello spazio di soggetti e oggetti, soprattutto di uso quotidiano, immediatamente riconoscibili eppur diversi, completamente trasposti in una dimensione “altra” rispetto alla consuetudine.

L’enigma che pervade ogni opera di Magritte consiste proprio nel farci rendere conto di essere addormentati, della necessità del risveglio della coscienza e non, in antitesi al surrealismo, dell’abbandono di se stessi al mondo della subcoscienza. Quello di Magritte è un richiamo silenzioso eppur fragoroso alla giusta visione delle cose, all’armonico rapporto tra occhio, mente e cuore che si può raggiungere solo con il “non dar mai nulla per scontato”, con l’abbattimento dei luoghi comuni. Una nuvola non è più “solo” una nuvola. Una pipa non è più “solo” una pipa. Accostamenti apparentemente impossibili; eppure, più reali della finzione in cui viviamo.

Guarda il mondo con occhi diversi. Non è l’oggetto a parlare ma la metamorfosi. È quella a permetterti, caro osservatore, di cambiare abitudini e preconcetti.

Si tratta di un’operazione artisticamente straordinaria, una rivelazione iniziatica vera e propria, degna del “conosci te stesso” inciso sull’Oracolo di Delfi.

Non fu il primo, René Magritte, a compiere quest’operazione alchemica nel mondo dell’arte. E per fortuna. In realtà questo è il vero principio che sorregge l’intera storia dell’arte. Raffaello, Leonardo e Michelangelo lo sapevano bene.

Tra arte e decorazione, in fondo, la differenza è quella: il piacere può essere provocato da entrambe ma per la decorazione è il fine, per l’arte no. Per l’arte l’estetica è il mezzo per risvegliare, a volte in modo brutale come nell’urlo di Munch, a volte in modo armonico come nella gestualità del Cristo nella Cena di Emmaus di Caravaggio, la coscienza dell’uomo.

L’arte è alchimia estetica. L’arte ti uccide e ti fa rinascere. Migliore.