Dell’immagine fotografica e di una grande forza cromatica, sublime e affascinante, impetuosa e seducente. E’ “Displaced”, la prima antologica dedicata al fotografo Richard Mosse (Kilkenny - Irlanda, 1980) in corso al MAST di Bologna fino al 19 settembre.

77 immagini in grande formato, due monumentali videoinstallazioni e un grande video wall, avvolgono le sale della Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia, in maniera immersiva e spettacolare, tale da proiettare il visitatore in un mondo ipertecnologico, dai caratteri forti e sorprendenti, che investono realtà complesse del mondo e dell’umanità come la nascita e lo sviluppo delle catastrofi.

Curata da Urs Stahel, la mostra bolognese si snoda dai primi lavori - agli inizi del 2000 - focalizzati sui conflitti umani che hanno avuto quali teatri di guerra la Bosnia e il Kosovo – tra immagini dirompenti di chiese e di edifici sventrati -, nella Striscia di Gaza e lungo la frontiera fra Messico e Stati Uniti. Sono opere caratterizzate dall’assenza quasi totale della figura umana come testimonia “El Camino del Diablo”, a cui fa da contrappunto la serie “Breach” (2009) che tratta l’occupazione dei palazzi imperiali di Saddam Hussein in Iraq da parte dell’esercito americano, tra rovine e militari dalle zone di guerra dopo gli eventi che seguirono la catastrofe.

Immagini emblematiche di distruzione, sconfitta e collasso dei sistemi: è la fotografia dell’indomani, come testimoniano le riprese dei militari a bordo piscina in assetto da guerra in un momento di relax. E su di un tema analogo (2010-2015) sono Infra e The Enclave, complessa videoinstallazione articolata in sei parti. Si tratta di un’opera che muove dalla regione del Nord Kivu nella Repubblica Orientale del Congo, dove viene estratto il “coltan”, un minerale altamente tossico da cui si ricava il tantalio, un materiale presente in tutti i nostri smartphone. Il Congo è una delle aree più ricche dell’intero continente africano, ed è segnato da continue guerre e disastri umanitari, tra cui il genocidio in Ruanda del 1994. Negli scatti di Infra, la pellicola registra la clorofilla presente nella vegetazione e "rende visibile l'invisibile", immortalando uno splendido paesaggio surreale dai toni rosa e rosso. Sono così i paesaggi maestosi, le scene con ribelli, civili e militari e le capanne in cui la popolazione in fuga, trova riparo da un perenne conflitto combattuto con machete e fucili. Nell’imponente The Enclave, Mosse svela il contrasto tra la magnifica natura della foresta della Repubblica Democratica del Congo e la violenza dei soldati dell’esercito e dei ribelli. I rumori, al pari delle immagini, sono intensi e aggressivi, quasi dolorosi dopo la sequenza di immagini sui soldati uccisi. E ancora se in “Ultra” e “Tristes Tropiques” (2018-2020) è l’Amazzonia brasiliana la protagonista dell’indagine mossiana, è nella natura, nel cambiamento climatico e nei danni ambientali causati dall’intervento dell’uomo che si ritrova il leitmotiv della ricerca mossiana. Come in Ultra, con il sottobosco, i licheni, i muschi, le orchidee, le piante carnivore trasformate in uno spettacolo pirotecnico di colori fluorescenti che rischiamo di perdere senza più alcuna possibilità di vita.

E ancora, ecco le “Migrazioni” di massa e le tensioni causate dalla dicotomia tra apertura e chiusura dei confini, la cultura dell’accoglienza e il rimpatrio nei campi profughi di Skaramagas in Grecia, Tel Sarhoun e Arsal in Libano, in Turchia e nell’area dell’ex aeroporto di Tempelhof a Berlino, quali oggetti della serie fotografica Heat Maps e della videoinstallazione Incoming in cui si vedono le figure umane fino a una distanza di trenta chilometri, di giorno come di notte.

Così l’occhio di Richard Mosse ci accompagna in un profondo reportage attorno al mondo, nella storia e nelle catastrofi in cui è coinvolto il pianeta, e a cui l’uomo, forse, può ancora porre rimedio, per salvare la natura e l’umanità dalle tanti catastrofi da tempo annunciate.