“Il mio maggior piacere è sempre stato quello di trattare di cose d’arte e ho passato parecchie ore al tavolino quando altri della mia età si divertiva” scrive Mario Sironi al cugino Torquato nel 1903.

A 60 anni dalla sua morte, Milano offre una lettura nuova dell’opera e della biografia di un artista definito dalla co-curatrice Elena Pontiggia “un maestro di sintesi e di grandiosità”.

Una mostra preziosa perché ha una profonda coerenza con la missione del Museo, quella ricerca che parte dalla valorizzazione della propria collezione per promuovere iniziative di grandissimo valore scientifico. Imperdibile grazie all’autorevolissima, curatela di Elena Pontiggia e di Anna Maria Montaldo, direttrice del Museo del Novecento, in collaborazione con Andrea Sironi -Strausswald (Associazione Mario Sironi, Milano) e Romana Sironi (Archivio Mario Sironi di Romana Sironi, Roma).

Straordinaria per la qualità delle opere che arrivano dai principali musei italiani e da collezioni private e si estende anche nelle sale sironiane del Museo e della Casa Museo Boschi Di Stefano. Oltre cento le opere esposte che tracciano l’intero percorso artistico di Mario Sironi, artista intenso e travagliato e figura centrale delle avanguardie.

Andrea Sironi Strausswald, storico dell’arte, biografo e nipote della grande figura del Novecento e Presidente della Fondazione Mario Sironi, descrive il valore e la bellezza dell’allestimento: “È una visione di questo insieme con ogni opera radunata nelle diverse sale, ognuna con suo carattere, un suo spirito e una sua icasticità. Ogni opera affronta una tematica ma soprattutto una pietra del percorso creativo artistico. E, un bell’allestimento non è solo questione estetica ma una questione di una migliore conoscenza dell’opera di un artista. Conoscenza difficilissima da sintetizzare in dal punto di vista numerico ed è molteplice e multiforme. Non è stato soltanto pittore, ma illustratore, scenografo, architetto, scultore e concentrare questa grandiosità in un numero relativamente limitato di opere non è facile e in questo senso questa mostra, secondo me, riesce proprio in questo. Isola dei nuclei ma nello stesso tempo li mette in dialogo”.

E tra i risultati più eclatanti ed emozionanti della mostra ci sono anche i capolavori che non apparivano in un’antologica, da quasi mezzo secolo come l’affascinante Pandora, 1921-1922, il primo soggetto ispirato al mito che Sironi affronta, Case e alberi del 1929 e L’abbeverata, 1929-1930, opera che non veniva esposta da 60 anni.

Allestimento curatissimo, un capolavoro di misura e attenzione alle opere.
Dalla prima sala che Elena Pontiggia descrive così: “ Abbiamo radunato gran parte degli autoritratti che Sironi realizza durante la giovinezza, in cui Sironi non di dipinge come un pittore ma come un artista, un intellettuale, un uomo che guarda davanti a sé, guarda la vita, le persone, i drammi e sarà sempre una sua caratteristica quella di pensare alla pittura come espressione di un dramma anche se al dramma darà una risposta di grande potenza e di grande energia”.

Sironi non nasce con il futurismo ma all’inizio del secolo si ispira al Simbolismo internazionale. Scorrono i ritratti e i primi paesaggi urbani “Sono i primi suoi lavori sui Paesaggi urbani ancora embrionali perché questo tema ha la sua massima espressione e potenza quando Sironi arriva a Milano, ma è un tema che trattava fin dalla giovinezza”. La co-curatrice si sofferma su altre grandi opere: “Il Viandante del 1915 di straordinaria bellezza che cammina ad ampie falcate nella notte in una città che indica proprio il senso con cui Sironi si avvicina al Futurismo. E si avvicina al Futurismo un po’ in ritardo nel 1913 (il Futurismo nasce nel 1909) ma ci arriva attraverso una forte tensione costruttiva e grandi volumi come Testa del 1913, in cui il volto si trasforma in una maschera guerriera, attraversata da piani che sporgono come lame acuminate, con effetti di aspra solidità, di costruzione. Il senso forte delle cose che Sironi ha magistralmente interpretato”.

Dal Simbolismo al divisionismo, alla stagione futurista e nel 1916 Sironi conosce Margherita Sarfatti che riconosce la sua genialità “Sironi: un’arte di sintesi e di semplificazione estrema”, scrive la grande critica d’arte in Gli Avvenimenti, 1916. Nei primi anni Venti l’impatto con Milano porta l’artista a concentrarsi sul paesaggio urbano dove dipinge città senza verde, fiori e acque ma segnate da un senso di eternità, come cattedrali laiche. Segue la stagione espressionista e gli anni Trenta e poi il crollo del fascismo e l’ultimo decennio segnato da anni di estrema solitudine che culmina nel L’ultimo quadro, trovato dopo il 1961, l’anno della sua morte, un paesaggio urbano disorientato e quasi sfatto.

Un altro aspetto preponderante di Mario Sironi è la figura umana, fulcro di interpretazione della sua arte e, in questa mostra che rappresenta la prima antologica, dopo quella di 36 anni fa a Palazzo Reale nel 1985, si possono ammirare ancora quadri come il Pescatore del 1925 o La fata della montagna del 1928 fino al doloroso Lazzaro del 1946 dove Mario Sironi lascia stupefatti perché il suo Lazzaro non risorge, ma esprime il simbolo del crollo di tutte le sue idee, a cominciare dal fascismo in cui aveva creduto.

Per Anna Maria Montaldo, la direttrice del Museo del Novecento che ha curato con Elena Pontiggia questa retrospettiva: “Sironi è un artista necessario. Di fronte a un suo lavoro, per chi si addentri nei dettagli delle composizioni, ci si immerge entro una forza sorprendente, una sintesi che fagocita i particolari pur non perdendo nulla nell’affondo anche delicato della raffigurazione che stupisce per velocità, irruenza, sapienza e peso narrativi”.