Oggi è domenica 5 settembre 2021. È una giornata piena di luce con quella temperatura giusta che solo settembre regala. Settembre sta nel bel mezzo; ricorda l'estate e annuncia l'autunno.

Contiene passato, presente, futuro e regolarmente, in questo mese, vengo presa da una melanconia struggente e mi sento sospesa tra esultanza e disperazione. Guardo il foglio bianco e mi chiedo da dove iniziare e quale scultura posso scegliere per esprimere l'abbandono e l'ignoranza che, in questa città, circonda le opere d'arte contemporanea.

Credo che l'abbandono della Bellezza sia una pratica diffusa ovunque perché la si studia poco o male a partire dalla scuola. Mi riferisco soprattutto all'arte dell’ultimo secolo. I programmi non arrivano fin qui tanto è vasto il patrimonio artistico del nostro "Bel Paese", ma questa è una vecchia storia che non convince più di tanto, ma che si aggrava ogni qualvolta prendiamo atto che da troppi decenni non c’è quasi più traccia di educazione all’arte, dalla musica alla pittura, dalla scultura al mosaico e perfino la stessa storia tout court subisce tagli e restrizioni.

Vi è anche la responsabilità di chi dovrebbe prendersene cura della bellezza. Infatti, una volta collocate nell'arredo urbano e inaugurate, le opere vengono spesso abbandonate al loro destino. Mai un segno che indichi il nome dell'artista e, seppur sinteticamente, le ragioni dell'opera stessa, il quando, il come, il perché sia stata ideata e realizzata. Niente. E allora le opere cambiano uso e diventano brandelli talmente sradicati dal loro contesto originario che sembrano adagiate lì per errore.

Il caso più vergognoso sicuramente riguarda il destino del Grande Ferro R di Alberto Burri e di tutto il complesso che lo circonda e che costituisce il Palazzo delle Arti e dello Sport di Ravenna. Una storia incredibile la sua che racchiude in sé qualcosa di inimmaginabile per una città colta e civile.

Questa disavventura ora verrà narrata dallo scrittore e studioso Cesare Albertano che ha collaborato con Saturno Carnoli alla realizzazione di articoli e libri sulla storia della città, dagli albori dell’età moderna, con una ricostruzione della Battaglia di Ravenna del 1512, fino ai risvolti della storia contemporanea degli ultimi settant’anni con uno studio sull’architettura verticale in Romagna e con ricerche e narrazioni legate agli anni difficili del dopoguerra e alla fine degli anni Sessanta.

E così anche questa volta ritorniamo, insieme a Saturno, ad indagare a tutto campo i guasti di una Ravenna che stenta a riconoscersi nell'oscillazione della sua Grande Bellezza tra passato e presente e a trovare una sua via consapevole e lungimirante. Quella lungimiranza che Saturno possedeva e che regalava alla sua città, stimolata, criticata, a volte percossa ma sempre per amore. Anche se non più tra di noi, continuamo a sentire la sua voce sapiente e a ripercorrere con piacere le sue battaglie.

Il grande equivoco R, Cesare Albertano

Se Ravenna fosse una città come ce ne sono tante nel mondo, costruite un po’ per caso anche se pur sempre per qualche motivo o di recente fondazione, ci sarebbe solo da tacere. Ma Ravenna, come tutte le città storiche europee, non è nata per caso e ha la sua storia, il suo impianto urbanistico, le sue piazze, i suoi monumenti, la sua logica dipanatasi nel tempo, la sua memoria complessa, dunque la sua identità. Le identità, che in certi casi possono anche essere una maledizione, non sono date per statuto, non sono mai garantite se non hanno la corretta manutenzione e cura: possono subire dei traumi, possono affievolirsi, annebbiarsi, perfino perdersi se non vengono coltivate, supportate dalla conoscenza storica ed estetica, sostenute dalla consapevolezza civica. Il nostro tempo non eccelle in queste doti e dunque mette a rischio le nostre stesse identità.

Pochi anni fa, nel 2016, venne diffuso dalla rete un simpatico video nel quale un intervistatore sottoponeva i passanti per le strade del centro di Ravenna (in tutto una ventina e di fasce di età diverse) ad alcune domande. La prima suonava così: “Che importanza ha per te l’arte?”. E subito dopo, ponendo di fronte all’intervistato la fotografia del Grande Ferro R di Burri, chiedeva: “Sai cos’è questo? Sai dove si trova? Sai chi è l’autore?”.

Le risposte alla prima domanda erano tutte molto generiche e dominavano due soluzioni standard: “L’arte per me è molto importante ma non ho tempo” oppure “l’arte mi piace ma quella contemporanea non è arte”. Le altre tre domande non hanno pressoché avuto risposta e l’imbarazzo dominava la scena, a volte risolto anche con colpi di genio: è un obbrobrio, è il simbolo della Festa dell’Unità, è l’entrata di un parco giochi, è un ferro vecchio, è ciò che resta di una struttura dismessa, sono delle manine per un carro di carnevale. Solo una giovane architetta ha risposto in modo adeguato, raro e solitario esempio di una conoscenza che la maggioranza dei ravennati non possiede.

La prova di questa mancanza non è però quella veloce indagine su strada che si è risolta in una goliardica provocazione e poco più, ma la storia stessa di quell’opera da troppi decenni dimenticata, bistratta, violata. Il passante può anche non conoscere Burri e le avanguardie artistiche del Novecento, non rientra certo nei suoi doveri. Altri sono coloro che dovrebbero invece avere il dovere della conoscenza, dunque il dovere di essere i garanti del rispetto dell’identità cittadina e promuoverla attraverso il patrimonio che hanno ricevuto in gestione fiduciaria da parte della comunità.

La storia del Grande Ferro R di Alberto Burri è la storia di una lenta e progressiva incomprensione che il suo autore, i finanziatori del tempo e gli ideatori dell’intero progetto del Pala De André non avrebbero mai potuto immaginare. Perfino quel nome – De André – fa ancora cadere troppe persone nell’errore di pensare che sia stato dedicato al poeta e cantautore genovese Fabrizio, mentre è stato dedicato a suo fratello Mauro, uno dei più stretti collaboratori di Raul Gardini e stratega legale e societario del gruppo Ferruzzi, morto a poco più di cinquant’anni nel 1989.

Mettiamo pure in conto che la fruizione dell’arte contemporanea non sia facile, che non sia più un’arte consolatoria e ruffiana, ma un’arte che spesso lavora con l’informale, con l’astratto, con il concettuale per dar voce all’incomunicabilità o al diversamente comunicabile, ma nessuno può dubitare che abbia pur sempre qualcosa da dire, insomma che abbia una funzione rivelativa, anche se non sempre chi la vede o chi la ascolta si pone nelle modalità giuste per vederla e ascoltarla in modo corretto. Ecco allora la necessità di operatori del settore che sappiano mediare tra l’opera e il pubblico, cosa questa che certo non avviene se si abbandona l’opera al degrado o all’uso sbagliato.

Come pochi sanno, Il Grande Ferro R di Alberto Burri del 1990, venne pensato e realizzato come site-specific per il complesso del Palazzo Mauro De André, commissionato da Raul Gardini e inserito nel progetto degli architetti Francesco Moschini e Carlo Maria Sadich. Fu proprio Moschini, architetto esperto di storia e critica dell'arte, di storia e critica dell'architettura, docente con una vasta attività editoriale, espositiva e curatoriale, colui che, come consulente artistico del Gruppo Ferruzzi, convinse Burri per conto di Raul Gardini a realizzare la sua possente scultura. L’opera venne fin dall’inizio pensata come parte integrante del monumentale Palazzo delle Arti e dello Sport, progettato e realizzato a tempo di record da Carlo Maria Sadich. Moschini riuscì, in quell’occasione di rara visionarietà del mecenatismo industriale contemporaneo, a dare concretezza ad un suo sistema teorico in cui lo “sguardo incrociato” tra le diverse discipline doveva superare la specificità dei singoli ambiti creativi. Alcuni amici, tra i quali lo stesso Sadich, lo avevano coinvolto nei loro rapporti ravennati con la famiglia Ferruzzi proprio per dare concretezza a ciò che andava tessendo nel limbo della pura sperimentazione culturale e quegli anni di collaborazione con uno dei più importanti gruppi industriali e finanziari italiani portarono ad esiti straordinari sul fronte dei ritrovati rapporti interdisciplinari tra le arti.

Come spiegherà in modo preciso lo stesso Moschini in un’intervista del 2013 pubblicata dalla rivista Arte e Critica (n. 75-76), tutta l’operazione del Pala De André rispondeva alla tipica formulazione teorica dei “Progetti d’Opera” che prevedeva l’inserimento di opere artistiche pensate in modo contestuale al progetto architettonico e non casualmente sovrapposte a progetto concluso. È così che Moschini riuscì, non solo nell’area del Pala De André ma anche nella ristrutturata sede della Ferruzzi Finanziaria di Ravenna, a far realizzare ad artisti come Alberto Burri, Elisa Montessori (i disegni per i mosaici dell’ingresso del Pala De André realizzati da Luciana Notturni), Ettore Sordini (le Fontane), Alighiero Boetti (il progetto per il mosaico pavimentale per l'ingresso del Palazzo, anche questo realizzato dalla Notturni), Sergio Tramonti (le scenografie interne), ma anche le opere pittoriche di Arduino Cantafora, Bruno Lisi, Emilio D’Elia presso la Sede Finanziaria del Gruppo.

Torniamo però allo specifico del Palazzo delle Arti e dello Sport, la cui inaugurazione avvenne nell’ottobre del 1990. L’intera area dotava Ravenna di uno spazio per accogliere grandi eventi artistici, sportivi e commerciali. La delicata e preziosa struttura dell’impianto urbanistico della città rendeva obbligatoria la ricerca di un’area esterna al suo tracciato storico e fu individuato uno spazio contiguo agli impianti industriali e portuali, ma pur sempre vicino al centro storico (meno di tre chilometri da Piazza del Popolo). Il progetto nel suo insieme e la sua veloce realizzazione hanno del grandioso: i propilei d'accesso, in laterizio, collocati lungo il lato occidentale, fronteggiano un grande piazzale, esteso fino al lato opposto, dove spicca la mole rosseggiante di Grande Ferro R. A fianco dei propilei stanno le fontane in travertino disegnate da Ettore Sordini, che fungono anche da vasche per la riserva idrica antincendio. L'area a Nord del piazzale è occupata dal grande palazzo, mentre quella meridionale è lasciata libera per l'allestimento di manifestazioni all'aperto. L'accesso al palazzo – il cui ingresso è scandito dai riquadri in mosaico della Montessori/Notturni – è mediato dal cosiddetto Danteum, una sorta di tempietto formato da una selva di pilastri e colonne, cento al pari dei canti della Commedia, di diversi materiali: le più esterne in pietra a vista, nove in ferro di colore rosso (rappresentanti l’Inferno), nove in marmo di Carrara (il Purgatorio) e nove di cristallo (il Paradiso). Si tratta del più importante monumento alle cantiche dantesche di Ravenna, spesso dimenticato dietro ad un cancello chiuso.

La scultura site-specific di Alberto Burri, non è dunque l’unica opera d’arte che caratterizza il Palazzo perché al suo interno, vera e propria wunderkammer contemporanea, sono poste a confronto esperienze artistiche diverse, non solo per quanto riguarda la personalità degli artisti, ma anche per le tecniche impiegate. Il che conferma la grande attenzione che il Gruppo Ferruzzi riversava nell’arte in qualità sia di committente sia di promotore di iniziative culturali, capace di coinvolgere artisti fra i più noti ma scommettendo anche sui più giovani.

Il Palazzo, nel suo insieme vagamente classicheggiante, si presenta quindi come una complessa interazione tra arti e artisti diversi, un connubio spesso vagheggiato nella storia della produzione artistica, ma raramente realizzato. Circa 3800 persone possono trovare posto nel grande vano interno del palazzo, la cui fisionomia spaziale può essere radicalmente mutata secondo le diverse necessità (eventi sportivi, fiere, concerti), grazie alla presenza di grandi gradinate mobili che, tramite un sistema di rotaie, si spostano all'esterno, liberando l'area coperta, consentendo d'altro lato la loro utilizzazione per spettacoli all'aperto sul retro. Non un palazzetto, per citare lo stesso Sadich, ma una piazza coperta, uno spazio ampio e flessibile.

È la testimonianza più importante per funzione e grandezza lasciata a Ravenna dall’impero economico guidato da Raul Gardini e dopo 31 anni resta l’unico rilevante edificio di architettura contemporanea realizzato in città e in particolare nell’area della Darsena ancora in gran parte da riqualificare. In realtà il palazzetto si è rivelato più problematico come sala concerti, soprattutto per un’acustica difficile da controllare. Questo non giustifica però la dimenticanza nella memoria collettiva del progetto nel suo insieme che venne ideato anche come parco urbano aperto alla città con questo suggestivo contrappunto di opere d’arte, volumi architettonici e spazi vuoti. Oggi è fruibile solo durante gli eventi fieristici che ne schermano la lettura complessiva e per eventi musicali che si svolgono perlopiù in orari serali. È probabile che il suo vero difetto consista negli eccessivi costi di gestione e manutenzione, tanto che il Comune è oggi intento a costruire un nuovo palazzetto polivalente proprio in quell’area, ovviamente snaturando le intenzioni originarie dell’intera opera e soprattutto i suoi equilibri volumetrici, continuando tra l’altro a disconoscere e a maltrattare il progetto di Burri che aveva pensato la sua scultura come imprescindibilmente inserita nel grande vuoto del piazzale: anche il vuoto è un luogo carico di senso e non solo uno spazio da riempire, pena la perdita di significato e di valore dell’intera opera. Il vuoto, come il silenzio e l’ascolto, come l’attesa e la mancanza, è stato fatto uscire dalla grammatica del presente ed è forse anche per questo che non si comprende l’arte contemporanea.

Perché Gardini volle un’opera così importante e impegnativa? La risposta la dà lo stesso Moschini nella già citata intervista del 2013:

Gardini mi aveva richiesto questo intervento. In uno dei nostri primi incontri ricordo di aver evidenziato come fosse importante per il gruppo Ferruzzi differenziare la propria linea di presenza culturale sul territorio, caratterizzandola con una vocazione diretta alla sollecitazione della creatività autoriale dei singoli artisti coinvolti, facendosi così promotore di originali creazioni artistiche anziché porsi sulla scia di quanto già facevano i grandi gruppi imprenditoriali. Si pensi alla mitica epopea olivettiana, sempre più protesa a contribuire alla conservazione delle “preziosità” del mondo, come nel caso dei Cavalli di San Marco, restaurati ed esposti in diverse città, oppure alla politica culturale della FIAT che, attraverso le epocali mostre di Palazzo Grassi, tendeva a universalizzare il sapere indagato con straordinari affondi su epoche, civiltà, movimenti artistici. Proprio con questo intento di committenza diretta ebbe origine l’avventura del gruppo Ferruzzi nelle arti contemporanee.

E subito dopo è sempre Moschini che spiega il senso dell’opera:

La scultura progettata da Alberto Burri per il piazzale antistante il Palazzo delle Arti e dello Sport “Mauro De André” si poneva in evidente continuità con la tematica del teatro, già esplicitamente affrontata dall’artista (…) Quest’opera ribadiva il senso della costruzione di una scena il cui oggetto era costituito dall’ideale visione, oltre la pineta, di Lido di Classe. Essa (…) si trasformava nell’ideale rievocazione di una stilizzata carena di nave, rovesciata ed emblematicamente “aperta” verso i lidi, dall’altro diveniva la rappresentazione di un processo nel tempo che si sostanziava nella metafora del rudere. La linea spezzata, il ponte interrotto sottolineavano ed esaltavano la tensione verso un’azione che tuttavia non giungeva a compiersi. Posto nel grande vuoto del piazzale, il Grande Ferro R conferisce autonoma dignità architettonica a uno spazio altrimenti destinato a essere subordinato all’edificio e lo trasforma in un “luogo”.

Ben oltre alle intenzioni progettuali di Moschini, Sadich e Gardini, Burri aveva comunque Ravenna già incastonata nel suo immaginario artistico, tanto da dedicare proprio alla fine degli anni Ottanta anche un ciclo di quadri ispirati a San Vitale – Neri e S. Vitale – operazione di rara raffinatezza, nata come meditazione sul tempo della storia e sul tempo della memoria, argomento cruciale per chiunque voglia ragionare sull’identità ravennate. Il senso di questa potente operazione intellettuale si fondava pertanto su quella possibilità di interpretare Ravenna come luogo posto su una immaginaria linea di confine tra il Ponente e il Levante, tra l’Occidente cattolico e l’Occidente bizantino, tra una dimensione metafisica del passato e l’esperienza di una contemporaneità complessa e conflittuale. Non dissimile dalle suggestioni montaliane degli anni Trenta quando, nella sua indimenticabile lirica Dora Markus, il poeta di Ossi di Seppia connotava in modo emblematico i luoghi del ravennate: “…dove un’antica vita / si screzia in una dolce / ansietà d’Oriente”.

Cosa resta di tutto ciò? Ben poco. La scomparsa di Raul Gardini, in una tragica contingenza sia individuale che del Paese, avvenne solo dopo tre anni da quell’inaugurazione, il Palazzetto continuò la sua funzione ma l’area non si trasformò mai in quel parco urbano dove far convivere natura e cultura, creatività artistica e funzionalità architettonica aperto alla collettività. Il mancato uso e forse una sorta di velata e mai dichiarata damnatio memoriae di quel periodo lavorarono nel profondo, così da far perdere la memoria e la funzione di quel progetto e delle sue singole opere. Non ebbe infatti mai il tempo di sedimentarsi nelle abitudini dei ravennati che videro perlopiù chiusa e poco utilizzata quell’area sempre più circondata da ipermercati, da nuovi cantieri e da una incalzante cementificazione. Durante gli annuali eventi fieristici il Grande Ferro R ospitò al proprio interno i tavolini di una caffeteria, venne inglobato o affiancato da tensostrutture, servì per appoggiare cartelloni pubblicitari e per parcheggio di auto in vendita, addirittura servì da appoggio ai bidoni della raccolta differnziata dell’immondizia. Atti di sfregio? No, atti di non conoscenza. Come se si decidesse di allestire un bar a San Vitale o una rivendita di giornali a Galla Placidia. Recentemente il profilo della scultura è diventato un marchio della Festa dell’Unità che lì si svolgeva ogni anno, ma restano pochi coloro che riconoscono il valore autonomo e il significato di questa vera e propria abside laica del Novecento.

In questo contesto prese forma già nel 2015 la provocazione di Saturno Carnoli – intellettuale, artista ed eclettico ricercatore scomparso da poco – e di altri importanti esponenti della cultura cittadina, tra i quali Marcello Landi e l’Associazione Dis-Ordine, di spostare il Grande Ferro R di Burri nel centro città, in una piazza Kennedy ristrutturata da poco. Si trattava di una sfida che incitava al recupero almeno di quel monumento, operazione affatto sconosciuta alla storia italiana che spesso, quando un’opera non è più leggibile nel suo contesto, per ritrovare la stessa visionarietà che l’ha prodotta e per renderla di nuovo fruibile, non ha esitato a spostare oggetti di valore artistico – elementi architettonici e di arredo urbano, monumenti, sculture, statue, fontane – al fine di riattivare valori e vocazioni identitarie sia dell’opera che del nuovo spazio che la accoglie. L’idea di un trasferimento in altro sito a Ravenna dell’opera di Burri non aveva tra l’altro suscitato veti o perplessità da parte dei dirigenti della Fondazione Burri, contattati e incontrati di persona da Carnoli e compagni nell’estate del 2017, semmai la proposta creò notevole interesse e disponibilità a valutare puntualmente il progetto nel caso fosse emersa una volontà delle istituzioni ravennati a dialogare con identica visionarietà alla visionarietà di Burri, soprattutto in vista dell’imminente costruzione di un nuovo palazzetto dello sport che ne avrebbe soffocato definitivamente ogni possibilità comunicativa e ogni dignità artistica.

Vi è ancora traccia di questa provocazione in una lettera aperta pubblicata nel settembre del 2019 sui giornali locali, indirizzata all’allora segretario del Partito Democratico Nicola Zingaretti, che qualcuno riesuma ancora per ricordare questo nodo tuttora irrisolto della storia recente della città. Storia che, come ultimo atto in commedia, si è caricata anche il peso di una pandemia devastante che ha visto il Pala De André accogliere il più vasto centro vaccinale della regione e forse d’Italia contro il Covid-19 e far da palcoscenico a quella situazione apocalittica che ha visto ogni giorno migliaia di cittadini silenziosi incolonnati per la vaccinazione. Almeno in questa occasione i ravennati hanno potuto muoversi in quegli spazi progettati alla fine degli anni Ottanta, gli anni degli eccessi, dell’edonismo, insomma dell’ultima modernità.