Il dibattito sulla conservazione del patrimonio etnografico ed etnologico ha subito, negli ultimi anni, significative modifiche a seguito della svolta apportata dagli studi post-coloniali. Le nuove generazioni di conservatori partecipano alla sfida della creazione di contenuti e di pratiche dal valore sociale, trovando modi innovativi per considerare, salvaguardare e trasmettere il punto di vista delle comunità, nelle sue innumerevoli forme espressive. Infatti, soltanto tramite una profonda comprensione degli aspetti e degli interessi coinvolti nel processo di conservazione è possibile considerare le implicazioni delle proprie scelte.

Un brillante esempio di mediazione e comprensione dei cambiamenti nel mondo del restauro è Chiara Compostella, restauratrice e storica dell'arte, diplomata all'Istituto Centrale per il Restauro di Roma. Oltre alle attività di restauro per le Soprintendenze e per i privati, collabora da anni con il Ministero della Cultura, con il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e con vari organismi internazionali, dedicandosi a progetti di formazione e sviluppo nel settore del restauro e della conservazione di opere d'arte e monumenti in Paesi emergenti e meno sviluppati. A lei vogliamo chiedere qualche riflessione sul cambiamento di prospettiva post-coloniale nella conservazione contemporanea.

Qualche riflessione sul cambiamento di prospettiva post-coloniale nella conservazione contemporanea.

L’approccio che ha caratterizzato la conservazione in ambito occidentale mira, in maniera pressoché esclusiva, a preservare l’integrità fisica dell’oggetto e l’autenticità a questa associata. La riflessione postcoloniale, sulla spinta della vivace e fertile discussione avviata in tempi recenti dagli studi antropologici, sposta invece il centro di interesse al significato e alla funzione che gli oggetti culturali rivestono in relazione ai valori delle costituenti locali e indigene o comunque di coloro che questi oggetti hanno prodotto, posseduto e usato. Questa nuova attenzione comporta implicazioni molto attuali: basti pensare alle numerose – e spinose – questioni sorte recentemente in merito alle rivendicazioni di alcuni oggetti musealizzati avanzate da parte dei discendenti delle comunità a cui tali oggetti si riferiscono. Riconsiderare a chi appartiene veramente il patrimonio, significa dover riconsiderare anche chi ha il diritto di mantenerlo, gestirlo e modificarlo. Dal punto di vista del restauro, quindi, il nodo cruciale non è più “come conservare” ma “per chi conservare” e “perché”.

Il legame partecipativo tra la comunità locale e il proprio patrimonio assume un ruolo centrale anche nella recente generale pratica della cooperazione internazionale, in cui il focus sui “beneficiari”, e il relativo concetto di ownership, è considerato come riferimento cardine. Se si sviluppano su tale terreno di ricontrattazione di potere, anche la teoria e la pratica della conservazione dovrebbero coerentemente includere modi di intendere, utilizzare e prendersi cura del passato alternativi rispetto alla tradizionale agenda conservativa occidentale. Bisogna anche notare, in questo caso, che le divergenze che esistono tra le pratiche convenzionali occidentali e i criteri conservativi propri delle costituenti locali possono essere anche notevoli.

Questo è tanto più evidente nel caso del patrimonio etnologico religioso e sacro di ambito extraeuropeo. Oltre alle questioni pratiche, relative alle esigenze di culto e di uso corrente degli oggetti, la conservazione di tale patrimonio comporta infatti numerose questioni anche dal punto di visto teorico, come viene in evidenza nel momento in cui le comunità sono coinvolte, necessariamente, nel processo decisionale. Le discordanze si evidenziano già nella mancanza stessa di una definizione univoca di bene culturale: oggetti sacri, monumenti e siti, ma anche tradizioni religiose, rituali di culto e modi tradizionali di vita possono essere tutti intesi in questo senso dal momento che, come ormai pacifico per molte comunità, il proprio patrimonio non consiste solo in qualcosa di precisamente definibile come “oggetto culturale” ma piuttosto fa parte della vita stessa della popolazione.

La questione non sembra risolvibile semplicemente definendo un bene come “materiale” o “immateriale” in quanto si tratta anche di considerare come le persone interagiscono e sono coinvolte nel processo culturale stesso. Per questo motivo, ai fini della definizione del proprio “patrimonio”, la percezione e la memoria possono giocare un ruolo maggiore rispetto al valore puramente storico ed estetico di questo. La stessa flessibilità e ampiezza di prospettiva che informa il concetto di patrimonio si ritrova nella pratica della sua conservazione: infatti, al di là del valore storico e dei principi estetici che tradizionalmente modellano il restauro in Occidente, la conservazione si trova oggi a considerare anche altre forme tradizionali di gestione dei beni, basate su valori di tipo intangibile, spirituale e simbolico.

Il nodo cruciale del discorso sulla conservazione consiste proprio nella ricerca di una prospettiva coerente che possa conciliare, o quanto meno prendere in considerazione, tradizioni filosofiche e pratiche metodologiche che percepiscono molto diversamente il patrimonio e, conseguentemente, la sua gestione. Di fatto, l’attenzione preminente all’aspetto materiale del patrimonio piuttosto che alla sua essenza simbolica, attenzione tipica della pratica conservativa occidentale, appare il risultato di tradizioni e riflessioni storicamente legate all’Illuminismo e alle relative teorie epistemologiche di tipo enciclopedico. Queste si esplicitano nell’illusione di poter classificare – e controllare – l’infinita varietà del mondo materiale sulla base della presunta esistenza di un ordine razionale sottostante, basandosi su un concetto di verità e di universale che nasconde un’ottica etnocentrica e giustifica una supremazia occidentale di tipo ideologico, politico o entrambi. Da tali premesse, la conservazione occidentale trae i suoi due assunti fondamentali: il mantenimento dell’integrità materiale dell’oggetto nella sua “autenticità” come scopo e la fiducia nella ricerca scientifica, intesa come strumento di verità oggettiva e quindi universalmente valido, come metodo. Tali assunti, tuttavia, non sono necessariamente condivisi da altre culture.

Da tale consapevolezza deriva l’apertura “democratica” mostrata recentemente dai musei occidentali, tesa a coinvolgere un maggior numero di persone nella definizione di cosa sia il patrimonio e come esso debba essere gestito e conservato. Questo nuovo corso caratterizza, in particolare, i musei etnografici proprio per il loro carattere specifico di musei, generalmente nati nella seconda metà dell’Ottocento, come prodotto più o meno diretto della politica coloniale. La profonda riconsiderazione e revisione storica che li vede impegnati ha portato a ridefinire le proprie relazioni con le costituenti indigene la cui cultura materiale è presente nelle collezioni.

La finalità stessa dei musei, rappresentata tradizionalmente dalla custodia e dalla tutela degli oggetti, è stata messa in discussione da alcuni gruppi locali che hanno invece sostenuto quale priorità la preservazione della cultura piuttosto che degli oggetti materiali da questa realizzati. In questo senso, gli oggetti, prima che manufatti di valore storico, artistico ed estetico, sono intesi come funzionali all’uso e alle tradizioni della comunità che li ha prodotti e utilizzati. Ad esempio, lo stato canadese ha riconosciuto agli Indiani d’America il diritto di ritirare alcuni oggetti dall’esposizione museale e riprenderne possesso, se questo viene ritenuto necessario per la continuazione della propria tradizione culturale. In questo caso, il diritto alla co-gestione delle proprie collezioni trova esplicito supporto nelle garanzie di libertà religiosa e di espressione promulgate nel Canadian Charter of Rights and Freedoms, esempio di quanto sta avvenendo nella recente legislazione riguardante i diritti delle popolazioni native, nell’ambito più generale dei diritti umani (un esempio per tutti, la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli Indigeni del 13 settembre 2007).

Chiaramente, in questo contesto, le pratiche conservative non possono non tener conto anche di modalità precedenti di uso e tutela degli oggetti, modalità che, a volte, possono creare più di una perplessità e dilemma se si opera mantenendosi nell’ambito delle pratiche conservative standard. Inoltre se, in generale, è ormai condiviso il concetto che l’intervento conservativo su un oggetto etnologico richieda uno sforzo di contestualizzazione e considerazione della sua originaria natura intangibile, nemmeno è sempre possibile risolvere la questione rifacendosi semplicemente alle usanze e alle tradizioni da cui tale oggetto deriva. Per esempio, nel caso dell’intervento conservativo del Buddha Shakyamuni al Victoria and Albert Museum, le decisioni operative sono state prese, al di là di alcune valutazioni di natura storica, estetica e pratica, sulla base di una riflessione filosofica su quale fosse la “vera” natura dell’oggetto, risultato di una negoziazione tra interpretazioni diverse piuttosto che dato di fatto definito univocamente da attributi oggettivi.

Legittimare l’esistenza di concettualizzazioni alternative sul patrimonio culturale rispetto a quelle comunemente associate alle pratiche occidentali significa dunque riconoscere un significato multiplo e contingente agli artefatti, rinegoziabile nel momento in cui si modifica il contesto sociale di riferimento. In questo panorama, non privo di contraddizioni, anche alla pratica conservativa è richiesto un approccio flessibile. Come tale flessibilità si possa ottenere senza rinunciare a una generale coerenza di approccio rimane la sfida che le aperture post-coloniali lanciano al restauro contemporaneo.

Una sfida veramente importante e necessaria. Grazie Chiara!