Le creature del mondo immaginale di Octavia Monaco talvolta si raccolgono a banchetto, e insieme celebrano la sacralità della vita. A dominare lo scenario è il regno dell’Antenata, ovvero dell’anima antica, che è donna, è madre, è vecchia. O forse il contrario, nello svolgersi palindromo di un tempo rovesciato. Ma l’imago è specchio di una visione e al contempo essa stessa osservatrice. Occhi sono ovunque, in questo scenario fantasmagorico: sguardi che si incrociano, antenne ritte e potenti, radar puntati verso le subtilitates del mondo. Occhi brulicano nascosti fra le chiome ramificate della Signora misteriosa, e perfino le stelle sembrano pupille puntiformi che bucano l’immobilità dell’universo. La Madre Abuela osserva a sua volta noi che osserviamo; la affianca l’allocco, che ne duplica l’intento, le fornisce abilità di scorgere le ombre. Così, nel gioco dei reciproci riconoscimenti, l’opera d’arte diventa uno specchio nel quale l’artista stessa si riflette, nel non-luogo in cui creatore e creatura si confondono. Le deduzioni arrivano a posteriori, in questo processo: il creare incubante prevede che chi crea sia “altrove”.

Mi sono posta nella medesima posizione dell’allocco dell’immagine, appollaiata sulla spalla di me stessa per cogliervi ciò che proprio io vi ho riversato, consapevole in parte e al contempo ignara, in parte. Così accade per chiunque sia sospinto a creare: se ci si pone, alfine, come testimone della propria opera, si potrà coglierne un sapere che ha superato le proprie intenzioni.

Un bosco fiabesco abbraccia e contiene e si confonde con il corpo della Madre Abuela, penetra nel suo fianco ed espande il suo grembo fiorito fino a farne un terreno ospitante. Oltre quel manto riverbera l’eco di una memoria più antica, trina, ancora immersa in una palude lacustre da cui emerge come da un liquido amniotico. Testimoni solitarie galleggiano ieratiche oltre il confine del corpo della madre; un sole - occhio ne indora le fronti. I musici si rivolgono incantati verso quell’icona carica di un misero sospeso; chiarore e oscurità in lei sono quelli della prima Musa, la Dea d’Argento, che in certe notti acceca elevando lo spirito, in altre lo trascina nelle profondità cupe. Sullo sfondo, gli astri costellano tessiture celesti e raccontano del dominio dell’antica dea: la lunare vacca sacra, con la sua mezzaluna cornea, l’orsa materna e feroce, che sembra dirigersi placida verso le profondità del cosmo, forse indifferente ai rumori di quel mondo umano caotico.

Per questa dea maestosa sono state strappate le prime note agli strumenti musicali, per lei la lingua magica degli avi ha intonato i primi canti. È un commosso inno alla Madre, questa visione, e al contempo un’ode all’arte e ai suoi adepti. La Madre Abuela svela la sovrapposizione delle sue molteplici vite: fu Iside Egizia, un tempo, e di lei porta l’eredità dello scarabeo, mentre un’ankh sorge e fiorisce dal suo grembo. I musicanti recano con sé strumenti apollinei e dionisiaci, corde che vibrano e aliti di respiro che producono onde di suono. Appartengono a un popolo che alberga nei recessi dell’altrove, che talora emerge dal mondo onirico e oltrepassa la soglia della coscienza per manifestarsi nella sua disordinata compresenza di significati.

Ogni creatura ha un famiglio, e tra queste si può riconoscere una giovane vergine nera gravida, con una pelle d’asino sulle spalle, la cui voce è affidata ad un’arpa con le sembianze di rosso ibis dalle ali screziate, analoghe alle sfumature animiche di questa creatura dai piedi caprini. In quest’opera tutto è ibrido. Tutto potrei dire manifesta le qualità del tutto. Ovvero possiede facoltà che ne travalicano le apparenze ma che proprio in queste possono essere ravvisate. È vero, “scrivo immagini” per simboli, quindi creo aperture, e tutto è soglia che ad altro rimanda e ad altro ancora.

Nella gestazione creativa di Octavia, la capacità di lasciar dilagare liberamente sulla tela la fantasmagoria di questo ricco ed eterogeneo mundus imaginalis è un atto di ospitalità. Ospite è in origine il “signore dello straniero”, colui che lascia entrare nella propria casa il nemico, che è barbaro ai nostri occhi e allo stesso tempo si rivela messaggero di qualche divinità. L’ospite provoca spaesamento ma costringe alla prossimità, al riconoscimento reciproco. Costringe ad allestire il banchetto, ad avviare il rito dello scambio di doni. Avvicinando lo straniero lo accogliamo in noi.

Nella mia prassi artistica, può accadere che “apra la botola”, che inviti questi commensali del mio più intimo caravanserraglio e li ospiti nei miei quadri. Temo il loro strazio, il loro silenzio, le loro storture, ma dandogli forma ne colgo l’appartenere al prodigioso, al meraviglioso. Attraverso il mio dipingere gli offro in cambio un luogo da abitare in condizione di grazia. Qui possono incedere con il loro differente passo musicale, claudicante e dolente insieme. Qui rendo regali queste marginalizzate creature per renderle sovrane, come la nivea lupa con la sua fragile prole, o principesche come la nuda adolescente assisa, capace di governare le forze più oscure, celestiali e infere, dotata anche lei di ramificati sensi come la Grande Madre, della quale è erede e riflesso.