Di certo è un paradosso. La guerra non può essere poesia. Eppure le immagini esposte al Museo Alinari per la mostra Robert Capa in Italia 1943-1944 sono lirica pura.

Avvezzi come siamo, oramai, alle immagini quotidiane di guerre ‘lontane’ che osserviamo inermi e quasi indifferenti sul web, in televisione, sui giornali, sembra impossibile che delle immagini così datate e in bianco e nero riescano a suscitare emozioni tanto forti. I volti dei giovani paracadutisti sull’aereo che li scaraventerà in Sicilia, a combattere una guerra lontana e terribile, sono ancora ignari, sereni, sonnolenti. L’accoglienza degli italiani è simile a una festa di paese: “La strada era fiancheggiata da decine di migliaia di siciliani in delirio che agitavano fazzoletti bianchi e bandiere americane fatte in casa con poche stelle e troppe strisce. Avevano tutti un cugino a Brook-a-leen”.

Il percorso racconta una storia, grazie alle immagini, certo, ma anche alle parole di Capa, alle sue emozioni riportate sul diario da cui scaturisce la voglia e la capacità di catturare gli istanti con la macchina fotografica. La narrazione, inizialmente festosa, celebrativa, in certi casi manieristica, si inerpica sulle vie del dolore, lentamente, mostrando volti sempre più stanchi, sempre più sporchi di fango, indugiando sulle ferite, sulla morte, sul dolore. La festa dell’accoglienza, della liberazione, lascia spazio al vero prezzo da pagare. La guerra non è ancora finita. La strada è lunga, difficile e in salita. Le macerie sommergono i corpi, gli ospedali da campo sono oberati di feriti da curare, di sangue, di dolore.

La storia ufficiale – bellissima la foto del Generale di Brigata Giuseppe Molinaro che consegna la città di Palermo al generale americano Geoffrey Keyes of the U.S. Army – lascia spazio a quelle della gente comune. Al volto terrorizzato della bimba ferita, alla borraccia del carabiniere che divide la sua acqua con un giovane alleato, ai piedi dei bambini caduti durante le Quattro giornate di Napoli che spuntano dalle bare in un sottofondo straziante di lacrime e dolore: “i bambini di Napoli avevano rubato armi e proiettili e combattuto i tedeschi per quei giorni durante i quali eravamo rimasti immobilizzati al valico di Chiunzi. I piedi di questi bambini furono il mio autentico benvenuto all’Europa, la terra dove ero nato… Mi tolsi il berretto e presi la macchina fotografica. Puntai l’obiettivo sui volti delle donne distrutte dal dolore, che stringevano in mano le foto dei loro bambini morti”.

Difficile trattenere la commozione. Difficile non recepire il messaggio. La poesia emoziona, ma ferisce. E nella polvere c’è il corpo senza vita del soldato alleato che colpisce allo stomaco quanto quello, poco più in là, del soldato tedesco. La guerra può essere poesia in un racconto, ma non potrà mai poterlo essere nella realtà. Esci da quelle tre stanze di immagini in bianco e nero con questa consapevolezza e sai che, comunque, hai appena assistito a un racconto straordinario senza il quale molte cose sarebbero state vissute inutilmente.

Prima di lasciare definitivamente il museo, incroci nuovamente quella prima immagine dei giovani paracadutisti addormentati. Sembra tutto così quieto. Così immobile. Silenzioso. Ma era soltanto l’inizio.