Oltre che a rigenerarci con una fantasmagoria di colori trasparenti, di forme femminili sinuosamente seducenti, di infiorescenze avvolgenti, di oniriche evanescenze, la mostra Liberty – uno stile per l'Italia moderna presso i Musei San Domenico di Forlì, può stimolarci a fare il punto su un fenomeno culturale e sociale caratteristico di fine Ottocento e inizi Novecento in tutta Europa. Sull’onda del periodo di pace e di benessere dello scorcio del secolo XIX, chiamato, appunto belle époque, si delinea una nuova situazione socioeconomica, coll’ampliarsi, da una parte del nuovo proletariato urbano e delle sue organizzazioni, dall’altra di una componente borghese meno conservatrice ed intellettualmente più aperta.

Art Nouveau, Jugendstil, Modern Style, Modernismo furono i termini usati nelle varie lingue europee per designare il nuovo modo d’intendere l’architettura e le arti figurative: venivano contestate la tradizione accademica e la tirannia della lezione storica e ci si apriva a soluzioni creative ed audaci, con un uso spregiudicato di forme asimmetriche o a serpentina e di nuovi materiali. In uno slancio riformistico, gli stessi architetti e artisti borghesi parlarono di “socialismo della bellezza”, per intendere che la nuova arte si sarebbe rivolta a più ampi strati sociali e infatti il nuovo stile investiva tutta la vita quotidiana, dall’abbigliamento all’arredamento, dalla gioielleria ai soprammobili, inoltre si abbandonava il classicismo eurocentrico per un’apertura verso l’arte orientale.

In Italia si parlò di Floreale o Liberty a indicare, da una parte una tendenza ad abbellire gli edifici con motivi vegetali o zoomorfi e dall’altra, prendendo il nome del proprietario di un grande magazzino londinese, Arthur Liberty appunto, a porre l’accento sull’opportunità dei nuovi consumi che la città-vetrina offriva anche alla piccola borghesia urbana. Passata la Prima guerra mondiale, questo stile declinò rapidamente e, dalle nuove correnti che sfociarono poi nel razionalismo fu visto come espressione di decadentismo decorativo, se non di cattivo gusto. In Italia, un suo revival si ebbe a partire dagli anni cinquanta con la cosiddetta architettura “neoliberty”, che voleva ingentilire e umanizzare la severità funzionalistica dell'imperante razionalismo.

Bisognerà però arrivare agli anni settanta perché se ne riproponesse una diffusa memoria critica, a partire dalla fondamentale Mostra del Liberty italiano tenuta al milanese Palazzo della Permanente nel 1972/73, seguirono poi altre esposizioni più circoscritte, come quella bolognese Il Liberty a Bologna e nell'Emilia Romagna del '77 e Il Liberty italiano e ticinese, a Lugano nell' '81 e ci fu tutto un fiorire di pubblicazioni, come Italia Liberty di Bairati, Bossaglia, Rosci, Album del Liberty di Massobrio e Portoghesi, Art Nouveau di L. V. Masini, e L'architettura Liberty in Italia di M. Nicoletti.

La ventata di “art nouveau”, comunque, arrivò nel nostro paese con notevole ritardo rispetto alle altre esperienze europee – solo nel 1895 la rivista Emporium pubblicò fotografie di mobili presentati dalla ditta Liberty - e fu un fenomeno più ricettivo che creativo e questo per l'imperante e asfissiante clima di storicismo nazionale, che pretendeva di trovare nell'eclettismo lo strumento più adatto per celebrare i fasti dell'Unità. Ugualmente difficile fu quello che avrebbe dovuto essere la finalità primaria del nuovo stile: creare, come avvenne in altri paesi europei, un'architettura che andasse incontro alle nuove esigenze di una società in rapida trasformazione, mentre in Italia, a parte le personalità di Basile, D'Aronco, Sommaruga e pochi altri, s'interpretò il nuovo modo di costruire e abitare semplicemente come puro abbellimento più o meno floreale di strutture tradizionali.

Non mancarono, dunque, personaggi e opere che seppero essere all'altezza dei nuovi indirizzi e che meritano di essere conosciuti e riconosciuti: la mostra romagnola ce ne dà una ricchissima testimonianza, mettendo in luce anche la produzione di artisti e gruppi ingiustamente marginalizzati, come, per rimanere in una dimensione regionale, il Cenacolo faentino di Domenico Baccarini, che riunì, assieme al suo ideatore, intellettuali, letterati e altri importanti personaggi come Calzi, Drei, Nonni e Rambelli, aprendo la provincia alle nuove poetiche e alle nuove tecniche. Giustamente, l'esposizione forlivese mette in risalto il ruolo delle arti decorative e della grafica, a cominciare dal loro impiego nella pubblicità, come scrive Anna Villari nel catalogo della mostra: “In un'epoca di trasformazioni economiche e sociali, mentre avanza inesorabilmente la classe dei nuovi ricchi e della borghesia e una parte della società comincia a scoprire il piacere della comodità, dell'agiatezza, perfino del superfluo, il manifesto pubblicitario reclamizza le scoperte del secolo e diventa in breve tempo, oltre che potente mezzo di persuasione commerciale e moderno strumento di comunicazione, anche nuovissimo campo di sperimentazione visiva... ”

E se tra i letterati, D'Annunzio aveva inventato l'amaro Aurum, una schiera di artisti come Metlicovitz, Dudovich, Nomellini, Chini, Bistolfi, ecc. pubblicizzarono di tutto, dalle opere liriche, ai profumi, dalle grandi esposizioni all'Olio Sasso, con protagonista assoluta la donna. Ecco un altro tema che la mostra mette in grande risalto e che esprime anche l'anima laica ed edonistica del nuovo stile, dove il corpo femminile, nel suo sensuale plasticismo, diventa il soggetto di un erotismo raffinato e nello stesso tempo aggressivo, dove convivono la femmina tigresse e l'adolescente vaporosa. Nella rappresentazione della figura femminile riscontriamo pure una delle tante contraddizioni del liberty: da una parte la donna occupa la scena e si mostra senza inibizioni, dall'altra diventa oggetto decorativo come i vegetali e i fiori a cui viene accomunata. Così come, se da una parte, positivisticamente, si sfruttavano nuovi materiali come il cemento, il vetro, il ferro, dall'altra si tendeva a esorcizzare la natura forzando questi materiali a sostituire quel mondo naturale che l'industrializzazione stava minando.

Certo, uscendo dalle sale del San Domenico, se l'occhio del visitatore profano sarà senz'altro appagato da tanta bellezza esposta e dalla funzionalità dell'allestimento, si può dubitare che si sia fatto un'idea esatta del liberty: è un po' il problema di tutte le grandi esposizioni “contenitore”. Infatti, se è vero, come lo è, che per liberty dovrebbe intendersi soprattutto l'architettura e le arti decorative, l'inserimento di opere simboliste di Previati e Segantini, o scapigliate di Troubetzkoy, o protoespressioniste di Wildt e Casorati, potrebbe ingenerare più di un dubbio che solo una preparazione specifica o l'attenta lettura del catalogo potrebbero fugare. Ma, al di là di questa osservazione “filologica”, se, come volevano i teorici del liberty, l'arte deve avere un intento educativo ed essere la vestale del buon gusto, ecco che le opere esposte a Forlì serviranno senz'altro di stimolo alla formazione critica dei visitatori e a sensibilizzare in loro la passione per il bello.

Musei San Domenico
Piazza Guido da Montefeltro, 12
Forlì (FC) 47100 Italia
Tel. 199151134
www.mostraliberty.it