Barocco significa anche celebrazione dell’allegoria, incrocio dei linguaggi, polisemanticità, architettura totale. Per questo il Barocco resta un maestro attualissimo in quanto è stato fino ad oggi la migliore forma di gestione della complessità della civiltà umana. Un piccolo ma significativo esempio lo troviamo in una stampa databile all’incirca a metà del 600, di privata collezione, la quale, per la ricchezza creativa della propria bizzarra iconografia, rappresenta una sintesi notevole del Barocco quale invenzione organica, rimescolamento immaginativo, stratificazione linguistica.

Proviamo a descrivere la complessa scena che vi viene narrata. Il miglior modo per analizzare un opera d’arte infatti è iniziare a far “parlare la rappresentazione”, lasciandola “respirare” in modo che possa, almeno in parte, “raccontarsi da sola”. La scena inizia da sinistra con uno sbarco tramite più navi di antica foggia, ricche di orpelli simbolici, quali occhio, testa di leone, rostro, e tritoni con conchiglia. Il vessillo reca una croce a tutto campo. Il tema dello sbarco appare importante e questo ce lo dice la stessa opera in quanto riprende a terra la figura del giovane glabro di spalle che guarda verso il mare, solcato da tredici vele, figura trasposta in senso speculare, come pure riprende i due uomini barbuti di sembiante identico. Il cuore della scena si concentra attorno ad una mappa disegnata su di un piano inclinato e attorno alle quale mostrano attenzione quattro personaggi: due barbuti gemelli e due donne chiaramente allegoriche.

La prima accenna ad una misurazione in quanto pone la destra su di una bussola, mentre la seconda si accinge ad incoronarla con un serto di fiori, di cui lei stessa è già incoronata. La seconda donna quindi è allegoria della fama, del trionfo, dell’onore dovuto alla sapienza/scienza. Assialmente posizionata sopra la bussola, vicino alla quale scorgiamo anche una specie di “rosa dei venti”, ma con sette raggi invece di otto, si libra una maestosa aquila, mentre a lei vicino appare un Giove impetuoso che brandisce i suoi tipici fulmini mentre con la mano destra fa un gesto all’indirizzo dell’aquila. Da notare lo strano sventolare della tunica di Giove, secondo una gestualità di panneggio assai simile a quella tipica del rosso velo di Ino. La scena si conclude con un angioletto che, in prossimità di due colonne spezzate, reca lo stemma cardinalizio di Paolo Emilio Rondinini, di nobile famiglia romana, creato cardinale da Urbano VIII nel 1643, mentre in basso abbiamo un identico stemma nobiliare, tre uccellini e due anelli/diademi, che però risulta privo di cappello cardinalizio. I Rondinini erano celebri collezionisti, da cui il nome di Rondanini, variazione del cognome, per la Pietà michelangiolesca.

Un ultimo elemento connota la rappresentazione: una catena con anelli non incrociati che scende da una pietra, tenuta in aria dagli artigli dell’aquila, fino al piano inclinato della mappa, dietro alla quale giace placida una capra! La dinamica interna della rappresentazione comunica quindi un senso di notevole ricchezza e complessità, sembrando incrociare immaginari distinti ed eterogenei. Sarà un caso ma il modulo del “doppio” ricorre frequentemente in questa strana stampa: due uomini barbuti sulle due navi insieme a due giovani glabri che guardano il mare, due donne, due colonne, due stemmi, due rappresentazioni di Giove con la sua aquila e in versione antropomorfa, due personaggi in lontananza sulla riva del mare, due serie di cinque vele in gruppo, due imbarcazioni di piccole dimensioni, due animali connessi con Giove cioè l’aquila e la capra, possibile allusione alla capra Amaltea, due corone di fiori, due anelli/diademi nello stemma araldico.

Detto questo iniziamo a dipanare l’enigma aggiungendo un secondo, e ultimo, dato storico, oltre al cappello cardinalizio e allo stemma già facilmente identificato, cioè la chiarissima scritta che leggiamo nel margine inferiore della stampa: il nome dell’autore del disegno: Pietro da Cortona, il celebre architetto e artista della Roma barocca, e il nome dell’incisore: Karl Audran di Parigi. La datazione della stampa ha quindi due termini certi: la data di elezione cardinalizia di Paolo Emilio Rondinini (1643) e la data della morte dell’incisore (1674). Il primo nodo di svolta nella decrittazione della narrazione figurativa ci viene dal tema della catena con anelli non intrecciati che scende da una pietra che si libra in aria. Si tratta dell’insegna dell’Academia Parthenia che operava presso il Collegio Romano di Roma, prestigiosa sede dei Gesuiti, una delle Accademie seicentesche più nobili e importanti che annoverava dei cardinali fra i suoi membri e che si dedicava agli studi e alle ricerche scientifiche.

Il fenomeno delle “Accademie”, ancora tutto da riscoprire e da approfondire, è di importanza essenziale per tutto il 600 italiano. Si trattava non solo di cenacoli di dotti ed eruditi, ma pure di veri e propri poli di attrazione sociale e culturale dove si formavano le elites, ricchi di vivacità e di creatività. Al loro interno gli interessi e le passioni erano molteplici, dall’alchimia all’astronomia, dalla fisica alle lettere e alle scienze naturali. Basti pensare al cenacolo che si riuniva attorno alla regina Cristina di Svezia e alle Accademie milanesi, vera culla della cultura religiosa, politica, oltre che addirittura laboratori di sperimentazioni didattiche e teatrali (Giovanna Zanlonghi, Teatri di formazione, V&P Università, 2002). Il motto dell’Academia Parthenia, dedicata alla Vergine, era “nodis arcanis”. Nel caso di questa accademia non esageriamo se la riteniamo un laboratorio culturale di grande vastità e spessore tale da poter essere definita come una continuazione e uno sviluppo del sapere e della sapienza rinascimentale, eclettica e universalistica.

Un nome ci conferma questa intuizione: Athanasius Kircher, il geniale e fantasmagorico studioso e alchimista gesuita che operò al Collegio Romano. Senza i suoi studi e senza il suo interesse per il magnetismo non si comprenderebbe l’emblema dell’Academia Parthenia e il suo carisma scientifico. Tale emblema infatti allude al magnetismo in quanto gli anelli della catena non sono intrecciati ma giustapposti, reggendosi quindi solo per via magnetica, mentre il motto “arcanis nodis” e la pietra posta in alto, alludono anch’essi alla forza magnetica e al polo magnetico. Abbiamo conferma di questa connessione fra l’opera di Kircher, l’Academia Parthenia e il magnetismo in un passo del trattato seicentesco sul simbolismo: Mondo Simbolico di Filippo Picinelli, dove, al libro XII, capitolo IV, si accenna al motto di Claudiano “arcanis nodis” quale motto scelto dai Gesuiti di Roma per il loro interesse scientifico relativo al magnetismo e il Picinelli rinvia, per i sensi spirituali dell’immagine della catena, ad un discorso di San Gregorio Nazianzeno. In effetti fra i discorsi di Gregorio di Nazianzio ricorre spesso il tema della catena, presente anche nel De civitate Dei di Agostino, e lo troviamo con maggior forza e chiarezza nel primo paragrafo dell’Orazione n° 36 dove il legame spirituale fra i cristiani e fra di essi e Dio viene paragonato ad una catena.

Ma quale conferma maggior possiamo avere se non nell’opera stessa di Athanasius Kircher il cui trattato Magneticum naturae regnum, 1667, reca un frontespizio dove una doppia catena con anelli non intrecciati tenuta da una mano divina e discendente dal cielo. Al centro della rappresentazione, fra allegoria e sintesi scientifica, si legge il motto: “il mondo è tenuto insieme da nodi invisibili”, del tutto analogo al motto della mostra Accademia. Sopra al cartiglio vi è il disegno di un angelo con una bilancia i cui piatti sono in pareggio mentre sul lato sinistro della catena compare un altro cartiglio con l’immagine di una bussola il cui ago è orizzontale e con sopra il motto: “Indeclinabiliter”. Se confrontiamo questo frontespizio con l’emblema dell’Academia Parthenia ne ricaviamo la medesima mentalità barocca che unisce stupore scientifico e gusto per il simbolismo spirituale e mistico.

Non solo: abbiamo due elementi in comune e che nella nostra stampa sono essenziali: la catena magnetica e la bussola. Ancor più precisamente notiamo un parallelismo preciso fra il frontespizio del De arte magnetica del Kircher, del 1643, lo stesso anno dell’elezione cardinalizia di Paolo Emilio Rodinini, e la nostra stampa. Identica catena troviamo nel frontespizio dell’altra grande opera del geniale studioso tedesco: Mundus Subterraneus. Nel frontespizio del trattato sul magnetismo abbiamo la medesima catena magnetica, con anelli non intrecciati, connessa all’aquila imperiale,e una duplice freccia indicatoria inclinata in modo assai simile al Giove aleggiante della stampa del Rondinini. La duplicità della freccia quale allusione orientativa la ritroviamo nella freccia della bussola, o astrolabio che sia, e nell’asse della “rosa dei venti” settuplice, orientata in parallelo della stampa che stiamo analizzando.

Se vogliamo apprezzare più profondamente il gusto barocco per l’allegorismo magnetico e cosmico non possiamo non approfondire questo immaginario. Si tratta infatti di un emblema assai suggestivo che denota un acuta sensibilità simbolica e spirituale in quanto l’immagine della catena che scende dal cielo, e la stessa calamita, derivano da un immaginario assai antico e molteplice. In primo luogo non possiamo non ricordare “l’aurea catena” di cui si parla Omero all’inizio del libro ottavo dell’Iliade, tenuta saldamente in mano da Zeus e più forte di tutti gli altri dei. D'oro al cielo appendete una catena, e tutti a questa v'attaccate, o Divi e voi Dive, e traete. E non per questo dal ciel trarrete in terra il sommo Giove, supremo senno, né pur tutte oprando le vostre posse. Ma ben io, se il voglio, la trarrò colla terra e il mar sospeso: indi alla vetta dell'immoto Olimpo annoderò la gran catena, ed alto tutte da quella penderan le cose. Cotanto il mio poter vince de' numi le forze e de' mortali.

Questa immagine della catena cosmica che regge tutto il creato e che comunica significati sia spirituali che fisici ebbe così fortuna che ricompare in vari testi settecenteschi come pure è presente nell’immaginario alchemico seicentesco e settecentesco. Ricordiamo la “catena d’oro che liga e ferma il Mondo” citata sia nel Domenicale del P. Simone Bagnati della Compagnia del Gesù o Verità evangeliche, Discorsi morali sugli Evangeli, in Venezia, 1713, che nel La prima età del mondo, ovvero ragionamento sopra la sacra Genesi di Giovanni Chiericato, in Venezia, 1708, come pure è presente nel titolo stessa dell’opera La catena d’oro del cappuccino Alessio Segala (1558-1628), la quale tratta delle vite dei santi che vengono appunto paragonate ad una catena aurea che attraversa, anche invisibilmente, la storia umana.

Il simbolismo della catena appare poi facilmente ricristianizzabile in relazione alla devozione del santo Rosario, che conobbe una nuova fase di sviluppo dopo la vittoria di Lepanto del 1571 sotto il Pontefice domenicano San Pio V. In ambito gesuitico ricordiamo un caso significativo di visualizzazione analoga nelle allegorie morali dell’opera: Typus Mundi in quo eius calamitates et pericula ne nec non Diuini, humanique Amoris antipatia, Emblematice proponuntur, Antuerpiae, 1652, dove alla figura X la sfera del mondo, quasi del tutta consunta da Saturno, si libra in aria connessa ad una mano celeste da un panno che fa da corda, mentre alla figura XIII vediamo una catena che lega il mondo alla caviglia di un angioletto allegorico. Curiosamente sia nella figura X, nello sbuffo del culmine del tessuto reso corda, a mo’ di nodo isiaco, sia nella figura XVIII, nell’evidente tunica resa vela dal vento, abbiamo due forme simboliche di panneggio che ricordano il velo di Ino o di Europa simmetricamente a come le ricorda il manto di Giove nella stampa di cui trattiamo.

Se passiamo ora ad accennare al simbolismo alchemico le sorprese sono molte, in quanto il tema della catena cosmica compare spesso ed è presente anche in connessione con l’immagine dell’aquila, come nella nostra stampa! Ad esempio in un disegno del celebre trattato alchemico Atalanta fugiens di Michael Maier, Francoforte, 1617, un'aquila appare volare legata da una catena ad un rospo che giace a terra. Il tema viene letto costantemente quale emblema del rapporto dialettico e processuale fra “fisso”e “volatile”nelle fasi di trasformazione alchemica. Ancora prima nell’opera di Giovanni Bartolomeo Marliani, Topographia Antiquae, Romae Lugduni, 1534, ammiriamo un grifone che brandisce una pietra quadrangolare squadrata dalla quale pende una catena a cui resta avvinto un globo alato, rappresentante “l’oro filosofico”, mentre nel Viridarium Chymicum di D.Stolcius, Francoforte, 1624, abbiamo una catena che unisce un aquila ad un rospo. Analogamente nel frontespizio de 4 libri dell’arte del vasaio del cavalier Cipriano Piccolpasso Durantino, 1548, troviamo una corda che unisce un uccello ad una pietra, simile dell’emblema di Michael Maier: l’aquila legata al rospo.

L’incisione di Mattheus Merian annessa alla Basilica Philosophica dell’Opus Medico Chymicum scritto dal medico chimico Johann Daniel Mylius e pubblicato da Lucas Jennis a Francoforte nel 1618 illustra l’Uomo e la Donna ermetici, solari e lunari, recanti un braccio avvinto da una catena. Simili catene avvinte ai polsi della simbolica coppia solelunare la troviamo nell’opera Musaeum Hermeticum (Francoforte, 1677). Altro stupendo esempio di connessione cosmico-alchemica la si ammira in un illustrazione del trattato Utriusque Cosmi Historia di Robert Fludd (Oppenheim, 1617), dove la corda di uno strumento musicale attraversa e unisce le sfere cosmiche. Nel Tripus hermeticus fatidicus di Johann Joachim Becher, Francoforte, 1689, l’Opera ermetica viene sintetizzata nell’allegoria del sole dal quale discendono tre cerchi legati fra di loro e con il sole da una catena; il cerchio di destra è attraversato da una linea orizzontale dimidiale che viene indicata quale: Linea Polaris Magnetica. Il motto generale della rappresentazione recita: Centrum Mundi Concatenatum. Il massimo dell’esplicito lo troviamo nell’opera ermetica: Aurea Catena Homeri, di A.Kirchweger, Berlino, 1781, dove l’intero trattato alchemico viene sintetizzato da una catena che scende dal cielo con dieci anelli non intrecciati ciascuno dei quali indica una fase alchemica e nel contempo un aspetto essenziale del cosmo in modo che partendo dal “chaos” si giunge alla “quintessenza”.

Forse le “catene” alchemiche più famose restano però quella che unisce la Luna a Marte e Venere nella figura settima del Segreto della Polvere di proiezione di Nicolas Flamel e la catena che unisce lo stemma dell’aquila all’anello centrale nel complesso e stupendo blasone allegorico del “V.i.t.r.i.o.l.” nello Splendor solis di Salamon Trismosin. Più in generale riscontriamo come sia frequentemente ricorrente nell’immaginario alchemico la rappresentazione di elementi verticalizzanti che indicano l’intero processo di graduale trasformazione della materia. Questo aspetto di verticalizzazione assiale nella visualizzazione ermetica può assumere le forme più disparate: la scala come nel Mutus Liber, l’albero, come nel Catholicon Physicorum di Samuel Norton, Francoforte,1630, dove il Lapis è posto in cima all’”albero filosofico”, come nella nostra pietra magnetica, oppure può assumere la forma delle curve circolareggianti degli alambicchi, della fontana, o la forma della colonna, o la corda che unisce Mercurio a Saturno, come nell’opera Manductio Hermetico philosophia di J. C. Von Vaanderbeeg, 1739; oppure l’incrocio o la giustapposizione di geometrizzazioni triangolari o circolari come in Nicola Cusano o nello stesso Athanasius Kircher (Musurgia Universalis, 1650, e nel geroglifico della Sphaera Amoris) che sembra ispirarsi a Cusano incrociando le sue piramidi chiaroscurali con le sue circonferenze cosmiche, mentre la “catena” trasmutativa si fa orizzontale nella successione dei sette pianeti nell’allegoria spiraliforme dell’"anima mundi" (Oedipus Aegiptiacus, 1652).

E la catena ritorna nell’iconismo XVI dell’Ars magna luci et umbrae del geniale gesuita. Nel già citato Maier la visualizzazione assiale compare come catena di 4 sfere ignee, mentre in Jacob Bohme la visione si precisa in un ancora appesa ad una croce la cui corda scende dal cielo fino al cuore della terra. Riguardo invece il simbolo della pietra della calamita è facile scoprire come per secoli fosse ritenuto emblema vangelico di Cristo stesso che attrae le anime (Gv. 12,32) oppure, di riflesso, immagine della fede e dell’amore fedele. Ce lo ricorda anche lo studioso settecentesco Giacinto Gimma nella sua opera monumentale che ricapitola la storia del simbolismo delle pietre: Della Storia Naturale Delle Gemme Delle Pietre e di tutti i Minerali, Napoli, 1730 (Reprint University of Michigan Library), come pure lo ribadisce il dotto Louis Charbonneau Lassay nel suo saggio di ricapitolazione: Le preziose pietre del Cristo.Non raramente il linguaggio ermetico si mescola e confonde con quello mistico, e non solo in Athanasius Kircher. Basti pensare alla sovrapposizione fra calamita quale pietra metaforicamente cristica e il tema del Magnete dei saggi o Magnete universale presente nei testi alchemici quale fattore essenziale della Trasmutazione.

L’attenzione al magnetismo e alla calamita attraversa come un filo rosso la storia sia della scienza che dell’alchimia. Da Petrus Peregrinus cioè Pierre de Mancourt, dotto, scienziato e alchimista, stimato anche da Ruggero Bacone, che scrisse la sua Epistola de magnete nel 1269, ristampata ad Amburgo nel 1558, fino al Dizionario Mito Ermetico di Don Pertigny, il “magnete” assurge a metafora della forza cosmica universale che è uno dei postulati dell’alchimia, oltre ad essere usato anche specificamente quale termine alchemico, talvolta anche criptato nella analogo termine di “magnesia”. L’attrattività magnetica allude così all’"estrazione" del mercurio dalla materia prima. Lo troviamo citato anche nell’Entrata al palazzo del re del Filalete, nella Turba philosophorum, nelle Lettere di Ali Puli, e nei Tre Trattati alchemici contenuti nella Biblioteca dei filosofi chimici, Parigi, 1740. Parallelamente a questa mai sopita sensibilità immaginifica va crescendo nel 600 lo studio scientifico/filosofico del magnetismo, per cui ricordiamo: Leonardo Garzoni (Due trattati della calamita, 1580 circa), William Gilbert (De Magnete, 1600) e Niccolò Cabeo (Philosophia Magnetica, 1629) oltre agli autori già citati e oltre al Magnes sive de magnetica arte del nostro Athanasius Kircher nel 1641, il quale avvicinava al fenomeno magnetico anche la misteriosa “Pietra di Bologna”.

A livello di contesto storico infine un altro Pontefice appare significativo ricordare per una possibile datazione, o per motivare la “fortuna” della stampa del Rondinini: Alessandro VII. Fu infatti un Papa celebrato come protettore dell’alchimia da due autorità in tema ermetico come il marchese Palombara e Francesco Maria Santinelli, oltre a risultare il dedicatario di due opere del Kircher: Mundus subterraneus e Obeliscus Alexandrinus.(Anna Maria Partini, Alchimia, architettura e spiritualità in Alessandro VII, Mediterranee). Ma la stessa immagine della “catena” contiene sensi anche mistici che si incrociano con allusioni ermetiche. Basti pensare alla Melanconia di Durer, dove il protagonista è l’angelo clavigero dell’Apocalisse (Ap.9,2; 20,1) all’interno di una scena ricca di riferimenti alchemici, come pure all’analogo angelo con catena e chiavi che compare in una miniatura dell’opera seicentesca Arbamasia sive naturali set innaturalis, Biblioteca dell’Accademia dei Lincei, Roma. Che poi l’interesse al magnetismo fosse sempre vivo a Roma ce lo dimostra anche il saggio Discorso inedito sopra la Calamita del P.D.Benedetto Castelli, discepolo di Galileo Galilei e protetto del pontefice e mecenate Urbano VIII, proprio quello che creò cardinale il nostro Paolo Emilio Rondinini.

Tornando al simbolismo complessivo della stampa se cerchiamo un confronto con l’opera complessiva di Pietro da Cortona possiamo facilmente individuare l’origine di parte della narrazione figurativa grazie ad un dipinto del celebre artista: Enea incontra Venere (1631, Louvre) dove Pietro da Cortona raffigura lo sbarco dell’eroe in Africa visualizzando l’inizio dell’episodio descritto nel primo libro dell’Eneide ai versi 380-400. Grazie alla piena sovrapposizione della prima parte di sinistra della nostra stampa all’analoga sezione del dipinto dello stesso autore possiamo ricostruire il modello narrativo di alcuni elementi figurativi importanti nella stampa. Le tredici vele all’orizzonte sono la flotta di Enea che arriva salva nel porto di Cartagine mentre Enea la pensava perduta, mentre l’aquila viene scacciata da Giove per far alzare in volo i dodici cigni che faranno da presagio favorevole per Enea, secondo il testo del poema. Si conferma quindi l’importanza del tema dello sbarco e della ricerca dell’orientamento geografico. Enea infine sbarca con sette navi, di cui ne vediamo solo due, e il numero sette, astronomico ma pure alchemico, ricorre nella “rosa” descritta nella mappa vicino alla bussola.

La modalità allusiva a livello numerologico è diffusa nell’immaginario alchemico in rapporto al numero sette, basti citare fra le centinaia di esempi possibili il frontespizio del Trattato sulla Pietra filosofale di Lambsprinck, 1677, dove la figura allegorica umana posa accanto ad un edificio che mostra una struttura settuplice. Ma i simbolismi sono sempre per loro natura ambivalenti quindi potrebbe trattarsi solo di un allusione astronomica all’Orsa maggiore e, quindi, alla stella polare. Siamo giunti così ad una prima conclusione: la scena si riassume quasi completamente incrociando l’immaginario dell’Eneide con quello scientifico/mistico di Athanasius Kircher e dell’Academia Parthenia. Quasi, purtroppo. Resta fuori un elemento non secondario: la capra. Si può azzardare un ipotesi linguistica: la capra amaltea allude alla nascita di Giove quindi rappresenta la simmetrica polarità rispetto all’aquila. Questa duplicità di estremi complementari rafforza il senso simbolico della catena quale emblema cosmico.

Resta l’incognita essenziale: cosa fa la donna che tocca l’ago dello strumento di misurazione? A cosa vuole alludere? Cosa misura? Che cosa indica? Un'ultima ipotesi andrebbe vagliata al fine di riportare ad unità semantica tutti i personaggi, cioè se “capra”, “aquila” e i due “gemelli” barbuti non siano tacite indicazioni allegoriche di tipo astronomico rinviando alle relative costellazioni zodiacali. Ma lasciamo in questo caso spazio a chi è esperto di astri e planetologia. Se invece lasciamo ferma per un momento l’indagine simbolica/narrativa e torniamo agli aspetti storici e letterari ci soccorre un ottima tesi di laurea che ci parla della nostra stampa quale esempio di frontespizio delle dissertazioni accademiche seicentesche. La dr. Caterina Scaffa ha indagato la stampa che stiamo esaminando quale esempio di frontespizi delle tesi di laurea seicentesche, e, rinviando anche agli studi di V. Meyer, ha individuato quattro stadi di realizzazione della stampa, a partire dal 1628, oltre a propendere per la tesi che la stampa sia stata commissionata ab origine da Bonaventura Rondinini per la sua “tesi di laurea” all’Academia Parthenia. Dal 1628 al 1634 l’incisore francese risulta infatti trovarsi a Roma e la stampa indica che l’incisione è avvenuta a Roma. Secondo G. Magnanimi invece la datazione della stampa va spostata al 1646, e indicherebbe la spedizione di Piombino.

Se vogliano sbizzarrirci in ipotesi sui possibili riferimenti storici allora vi aggiungo anche la vicenda della “guerra di Castro” che coinvolse il cardinale Barberini, di cui era protetto Paolo Emiliano Rondinini e che sostituì quale prefetto pontificio dell’annona. Una guerra che mobilitò anche il mare e corrisponde temporalmente al periodo di datazione certa della stampa nella versione del Rondinini cardinale in quanto si concluse vittoriosamente nel 1649. La studiosa ci ricorda infine che l’originale del disegno di Pietro da Cortona si trova all’Accademia Albertina di Vienna. Con una breve ricerca è stato possibile scovare altri esemplari “gemelli” della stampa del Rondinini: abbiamo un disegno speculare conservato al Louvre, un esemplare identico ma con un diverso stemma araldico, gonzagesco, inventariato al Comune di Monza (scheda 150, file n° 495) e un altro ancora esempio gemello al British Museum con lo stemma del cardinale Barberini (le celebri api) e in aggiunta il motto “arcanis nodis” inciso sulla pietra calamitale. Tutto ciò però se ci conferma una riproduzione dello stesso modello “ad usum delphini”, non ci aiuta però più di tanto a livello di decrittazione del significato della rappresentazione, a meno che non porti in futuro qualche studioso a scoprire un occasione storica o personale che “meta in rete” i vari possessori/committenti della stampa precisando il contesto ispiratore.

Va prima però conclusa la ricerca verificando l’esistenza di altri possibili esemplari “gemelli”. Tornando a questo essenziale aspetto concentriamoci sull’incrocio linguistico fondamentale: magnetismo e geografia. Abbiamo altri dati che possano aiutarci a contestualizzare queste due dimensioni nella prima metà del 600? I dati ci sono e sono abbondanti.Tutto il 600, e in particolare a partire dal pontificato di Urbano VII fu un crescendo di “missiones ad gentes”, cioè di esplorazioni e colonizzazioni a fini di evangelizzazione. Missionari gesuiti insieme a coloni francesi in Canada del nord e presso la baia di Hudson fin dall’inizio del 600, gesuiti in Paraguay, su cui scrisse Ludovico Antonio Muratori, missionari in Congo verso la metà del 600 e nel 1649 abbiamo le ultime esplorazioni delle cose della Cina e del Giappone, mentre un anno prima, nel 1648, Semën Ivanovič Dežnëv scoprì per primo quello che sarà chiamato Stretto di Bering, e lo farà in un anno straordinariamente dal clima caldo. L’espansionismo geografico caratterizzò quindi il 600 sulla spinta di molteplici pulsioni: la concorrenza fra nazioni cattoliche e nazioni protestanti, il desiderio di accaparrarsi ricchezze e terre vergini, l’afflato missionario, ma pure ideale misticheggianti allora assai in voga come la ricerca del “passaggio a nord ovest” che ossessionò gli Europei per due secoli a partire da Vespucci in avanti, e come la ricerca dell’Eden, del Paradiso terrestre, ancora ritenuto in buona fede rintracciabile fra le ultime terre esotiche che venivano conquistate.

Due mappe seicentesche ci aiutano a capire queste polarità complementari della ricerca geografica e della ricerca mistica: la prima mappa localizza l’Eden in coincidenza con il Polo Nord, e la seconda mappa è del 1665, dedicata al Reverendissimo Iacobo Altovito, legato presso Venezia del Pontefice Alessandro VII, e risulta stampata ad Amsterdam presso Willem Janss, (dove stampa anche il Kircher) e ci testimonia che a quell’epoca erano state raggiunge e cartografate quasi tutte le terre oggi conosciute, tranne l’entroterra dell’America del Nord in corrispondenza con l’Alaska e con gli stati dell’area di nord ovest. Prova ne è che la predetta mappa, seppur sembra già indicare lo stretto che sarà chiamato “di Bering”, qui denominato “terra di Iesso” e “stretto di Anian”, tuttavia descrive la costa del pacifico ancora con nomi tutti spagnoli e non fornisce indicazioni per l’entroterra più a nord della California, pur ricostruendo la costa americana che dal sud Pacifico fino al circolo polare artico. Questa mappa dimostra che la scoperta del siberiano non è rimasta ignota all’Europa. Una facile obiezione può essere sollevata nel senso che un ambientazione così a nord contrasterebbe con la rappresentazione del paesaggio, non nordico, che troviamo nella stampa del Rondinini, e con la citazione dell’Eneide che parla dello sbarco africano di Enea, ma penso si tratti di un obiezione certamente ragionevole ma non così efficace, e questo per due motivi.

In primo luogo il clima nel 600 era notevolmente differente dall’attuale tanto che la Groenlandia non era ancora coperta dai ghiacci e tanto che gli stessi contemporanei registrarono la notevole e straordinaria calura di alcuni anni come ad esempio il 1648. In secondo luogo la citazione dell’Eneide potrebbe essere letta in senso solo metaforico e strumentale, quale idea realizzativa avuta da Pietro da Cortona per un committente, il Rondinini o chi altri, che poteva aver in mente altri scopi per l’utilizzo e il possesso di questa rappresentazione come, anche genericamente, la celebrazione del sapere scientifico e/o dell’evangelizzazione cattolica di terre lontane, o la promozione della stessa Academia Parthenia quale culla degli studi scientifici. Le due mappe risultano complementari e ci fanno capire che era possibile che si credesse in buona fede che il polo magnetico coincidesse con un Eden da collocare in zona polare magari fraintendendo l’estensione e il valore di certe isole artiche. Si capirebbe così il senso della croce sul vessillo della nave, pure in assenza di un riferimento preciso ad una scoperta geografica.

Una cosa sola è certa: la “fortuna” della scena rappresentata è in rapporto di reciproca influenza con gli studi sul magnetismo e con l’opera del Kircher. L’unico problema è di precisazione della datazione. Kircher arriva a Roma solo nel 1631 mentre gli studiosi dell’esemplare inglese della stampa datano la stessa fra il 1628 e il 1632 in relazione alla laurea di Bonaventura Rondinini. Abbiamo due vie: o il magnetismo era studiato dai gesuiti presso il Collegio Romano anche prima dell’arrivo di Kircher, come dimostra lo stesso stemma della Parthenia, per cui il gesuita si limitò a sviluppare e perfezionare un interesse già consolidato, e allora forse è addirittura Kircher ad essere influenzato dall’Academia Parthenia e non viceversa, oppure l’iconografia della stampa è stata ripetuta per la laurea di un altro Rondinini, questa volta con il cardinale Paolo Emilio quale protettore, in quanto Paolo Emilio diventa cardinale solo nel 1643.

E’ l’esemplare quindi con il doppio stemma Rondinini che rischia di mettere in crisi le ipotesi più accreditate di datazione riassunte dalla dott.ssa Scaffa. Andrebbe studiata la datazione dell’esemplare gonzaghesco di Monza e ricercate altre copie gemelle di questo modello. Ma il tema resterebbe un tema invariato e di vasto respiro. La mia opinione è che la stampa sia da datare al 1644, perché in questo anno sale al soglio pontificio Innocenzo X e finisce la fortuna del cardinale Antonio Barberini, già gran Maestro dell’Ordine di Malta e comandante dell’esercito pontificio, nonché committente del primo esemplare del disegno di Pietro da Cortona, conservato all’Accademia Albertina di Vienna. Il cardinale Rondinini, anche in assenza di un altro rampollo della famiglia da laureare, può aver sostituito il suo stemma a quello del Barberini caduto in disgrazia, così tanto da fuggire in Francia. Il legame fra Antonio Barberini e Paolo Emilio Rondinini è diretto e importante e passa per tre nodi: la guerra di Castro, il titolo cardinalizio di Santa Maria in Aquiro, e la prefettura dell’annona di cui era vertice il Rondinini, il quale quindi poteva temere seriamente di essere coinvolto nella caduta di favore che colpì il prima potente Antonio Barberini.