Il riso dei re somiglia al riso degli dèi: contiene sempre una punta di crudeltà.

Chi non ricorda nell’immaginario cinematografico l’irresistibile ghigno scolpito sulla pellicola in bianco e nero del 1928 di Conrad Veidt, nel film diretto dal regista espressionista Paul Leni? Veidt interpretò Gwynplaine, il protagonista del romanzo L’homme qui rit di Victor Hugo, romanzo pubblicato nel 1869, ambientato nell’Inghilterra del Settecento. Gwynplaine rappresenta la maschera comico-tragica dell’uomo intrappolato in se stesso, costretto a mostrarsi felice nonostante la disperazione interiore indotta da una società che deforma intelligenza e ragione. I personaggi di quadri e sculture dell’artista contemporaneo cinese Yue Mijun sono perfette trasposizioni plastiche e pittoriche dello stereotipo Gwynplaine.

Minjun vive e lavora a Pechino,, è nato sotto la Repubblica Popolare Cinese di Mao Zedong. Lo scorso marzo è stato protagonista della prima ontologica europea, L’ombre du Fou Rire, alla Fondation Cartier di Parigi, il sorriso folle che imprime nelle sue tele sta ormai attraversando il globo, come un marchio di fabbrica riconoscibile di una follia degenerata e degenerante. Un sorriso osceno e grottesco, ostentato e ossessivo.

L’artista che spesso viene associato al movimento artistico cinese di fine anni '80, il realismo cinico, affermò di essersi ispirato ai contadini delle tele realiste, che nonostante e a dispetto di tutto sono sempre sorridenti. Allora ridere per non piangere, perché alla fine non ci resta che ridere?

Sistema troppo sistematico, censure, società plasmate, tutto scivola sotto l’ombra, sotto il ghigno gigante e riproducibile all’infinito di Yue. Una sorta di Andy made in China, partorisce pop smile come una catena di montaggio. Sorrisi come se piovesse, le lacrime retrocedono ai sorrisi impietosi. Un ghigno liberatorio contro ogni sorta di oppressione e repressione, una scarica emotiva plastica anche davanti a un possibile plotone di esecuzione.

Ed ecco anche qualche retaggio della storia dell’arte europea, il sol levante si ispira e si ripete differentemente come nella tela del 1995 The Execution. Una reinterpretazione del Tres de Mayo di Goya, reinterpretato anche da Manet e Picasso. Quattro uomini in mutande dalla fisicità plastica ridono tra loro, piegando i volti, le ombre come pozze di inchiostro giacciono sottostanti, davanti ai giustiziati altri quattro uomini, uno dei quali impugna un’arma invisibile. L’ironia sulla giustizia ha la meglio.

Il sorriso letale è lama tagliente, è insieme antibiotico e virus, risa allucinate e allucinanti, patologiche, in grado di moltiplicarsi all’infinito come i pois della Kusama. Great Joy del 1993, un esercito di uomini in tenuta grigia che ridono, ridono e ridono, sembra quasi di sentirli, al loro cospetto anche il celebre esercito di terracotta impallidirebbe. Sky del 1997 vede protagonisti sei uomini in mutande, muscolatura smaltata, incarnato color cipria, eccoli volare tra le nuvole cavalcando uccelli. Ridono a crepapelle nel blu dipinto di blu, ma felici di stare lassù? La risata diventa difesa, trascende ad armatura, paresi facciale di una disperazione profonda.

The sun del 2000: questa volta la risata è di profilo, la maggioranza si schiera come in una propaganda per il sol levante, faccioni ipertrofici, corpi sregolati e sproporzionati sono mostriciattoli buffi, pupazzi generati, geneticamente modificati, pronti a divertire, sottoposti a raffinata arte chirurgico-plastica, sembrano creati dai comprachicos di Hugo. Water del 1998 e Memory del 2000, enormi volti spalancano la loro bocca in riso, come palchi di teatri anonimi le bocche mostrano le tenebre dello show. Come tazze, cervelli che si sostituiscono ad acque di mari tropicali dove un uomo nuota allegramente, oppure ecco che la memoria si scompone in palloncini o bolle colorate, i ricordi sono scansioni leggere che tendono a volare alto.

“Sorrisi telematici. Visi serrati in occhi strizzati, amplificati e nulli. Viso esposto ed oscenato in una D dentaria. D bocca che si mostra come soglia tra visibile e dietro le quinte della scena del corpo.” E ancora: “A partire dalla bocca, spazio architettonico originario per eccellenza, saletta corporea celata e lampeggiante, si pare una riflessione sull’osceno attraverso un sorriso che si mostra come identificazione.” Queste righe sono estratte dalla descrizione delle performance (scritture e monoscritture retiniche sull’oscenità dei denti :D) create dal Collettivo Cinetico, fondato nel 2007 da Francesca Pennini, che attraverso la danza e le performance intrecciano arte visiva e teatro, discutendo sui meccanismi dell’evento performativo stesso.

Nelle performance sull’oscenità dei denti si propone così il tema centrale dell’arte di Minjun, l’osceno che danza tra una risata e l’altra, ridicolizzato il malessere rimane solo il bianco sgargiante dei denti, ghigni forzati e ossei, tirati e distanti da una qualsiasi emotività. Espressioni meccanomorfe che si traducono in smorfie pop. Un sorriso che si mostra dunque come identificazione di un malessere condiviso,quello di Minjun. E se i ritmi che la società ci propina sono disumani e spersonalizzanti non ci resta che combattere quest’angoscia con un paralizzante sorriso-risata-smorfia, magari meno cinico di quello di Minjun ma ricordando quello più poetico e sognante dello “Smile” firmato Chaplin.