Giuseppe  Zollo
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Giuseppe Zollo

Non sopporto le biografie funerarie, dove tutti i mariti sono guide sicure, le donne madri premurose e i bambini angeli volati in cielo. Né sopporto i curriculum professionali dove si mette in scena una vita ricca di virtù e di opere, con l’obiettivo di indurre valutazioni positive sull’affidabilità e competenza dell’estensore.

Se potessi, sceglierei a modello l’epitaffio che Cyrano dettò per sé, quello che comincia con: “Astronomo, filosofo eccellente. / Musico, spadaccino, rimatore, / Del ciel viaggiatore”, e termina con: “Che in vita sua fu tutto e non fu niente”. Ma, purtroppo, non ho le doti poetiche di Edmond Rostand. Quindi, mi astengo.

Mi piacerebbe inserire nella mia biografia i dubbi, le incertezze, la fatica, la gioia, la leggerezza celati nel backstage di ogni attività. Mi piacerebbe ricordare che da bambino mi piaceva smontare i giocattoli, scompaginare le linee delle formiche per osservare l’attività frenetica per ripristinarle, e di quando mi perdevo a fantasticare sul paesaggio minuto di valli e picchi di una mela appena smozzicata, finché mia madre mi riportava bruscamente al dovere di mangiarla alla svelta. Dirò, per inciso, che mi affascinava la bianca polpa che sotto i miei occhi lentamente arrugginiva.

Mi piacerebbe anche raccontare che da studente di Architettura ero considerato “fuori posto” perché mi piaceva la matematica – allora, in epoca post-sessantottina, era doveroso per lo studente di architettura contestare la conoscenza borghese e capitalista, in particolare le scienze esatte, che, absit iniuria verbis, erano le più ostiche da studiare.

Ugualmente fuori posto ero ad Ingegneria, dove ho sviluppato la mia carriera di professore di Ingegneria Economico-Gestionale. Qui, al contrario, sono stato bollato come troppo creativo, dove quel “troppo” era un avvertimento preciso a rientrare nei ranghi e, senza troppi grilli nella testa, imboccare la strada sicura di un metodo progressivo, fatto di piccoli passi, sufficientemente piccoli da non minacciare la persistenza di un potere accademico che amava rappresentarsi agghindato di conoscenza, così come alla corte del re Sole i cortigiani con le parrucche incipriate.

Ma qui voglio precisare che ambedue i giudizi erano perlomeno superficiali. Era inesatto affermare che la matematica mi piaceva. La matematica per me era una sfida: era un mondo dove tutto era ordinato, logico, coerente, chiaro, consequenziale, finito, perfetto. Ciò che più amavo erano le tre lettere c.v.d., come volevasi dimostrare, alla fine di ogni dimostrazione - che soddisfazione poter dedurre le formule di prostaferesi da semplici principi! Era il mondo dell’ordine in cui avventurarsi per trovare ristoro dal disordine dell’esistenza. La matematica mi diceva: “Non cedere al disordine della vita, non arrenderti. Ce la puoi fare, puoi mettere ordine con l’uso della ragione”. Insomma, la matematica mi era necessaria per vivere.

Neanche sul troppo creativo sono d’accordo. Oddio, mi è sempre piaciuto mettere i bastoni tra le ruote di chi ostenta le proprie conoscenze con ottusa sicurezza. La mia creatività, se di creatività si trattava, era solo l’espressione di un dubbio, di una perplessità; era l’esibizione dell’eccezione, dell’altra faccia della medaglia; era la legittimità di un altro punto di vista. Ciò che mi preme contestare è l’aberrante preconcetto che la creatività non possa essere associata al rigore, al metodo, al calcolo paziente. Proprio non ci sto! Voglio rivendicare, per rassicurare mie lettrici – tralascio i lettori, e me ne scuso, ma bisogna pur prendere atto di millenni di soprusi maschilisti -, che ho passato le migliori ore a scrivere programmi nei linguaggi astrusi dei computer di un tempo, a contare i denti degli ingranaggi di un orologio da torre nel medioevo per poter trarne una pubblicazione sull’invenzione del tempo meccanico, a analizzare uno per uno i gesti compiuti dai fabbricanti di spilli in una fabbrica del ‘700, per non parlare delle ore passate a calcolare statistiche per poter scrivere in fondo ai miei articoli quelle tre letterine, c.v.d. Non sempre ci sono riuscito. Degli oltre duecento articoli e libri che ho scritto, oggi ne salverei sette-otto.

Da circa quarant’anni mi occupo di complessità, ma forse dovrei dire che la complessità si occupa di me. Perché le scienze della complessità hanno dato ossigeno alla mia vocazione di ricercatore. Mi hanno fornito il quadro di riferimento concettuale e metodologico per mettere insieme ordine e disordine, per parlare di organizzazioni che vivono all’ordine del caos, di imprese dai confini sfumati, di comportamenti oscillanti nell’apprendimento e nel design, per combinare riflessioni filosofiche e metodi quantitativi, non passando per dilettante o uno sprovveduto bricoleur.

Vorrei scrivere tutto questo in una mia presentazione, ma capisco che non si usa così. Forse, con un po’ di coraggio, a dispetto di quanto prima dichiarato, potrei cavarmela con un epitaffio, come Cyrano:

Ha giocato a smontare la complessità della vita
Con metodi nobili – arte, letteratura, matematica
E meno nobili – chiacchiere, divagazioni, nonsense.
Era sicuro di non poterci riuscire
E ne è stato sempre felice
Per poter continuare a giocare
Anche ora, anche qui.

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